M.
C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno
bisogno della cultura umanistica,
Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 168.
Secondo
la Nussbaum “Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni
inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica
mondiale che è iniziata nel 2008 […] Mi riferisco invece a una
crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro;
una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per
il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell'istruzione” (p.
21). Le democrazie, osserva la
Nussbaum, sono sempre più attratte dall'idea del profitto,
dell'utile economico. In questo modo, “i loro sistemi
scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata,
quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia.
Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben
presto produrranno generazioni di docili macchine anziché di
cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la
tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle
esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie è appeso ad
un filo” (pp. 21 – 22). Da un lato la strettoia imposta dalla
crisi economica, dall'altro lato, però, un'idea perniciosa di
indirizzamento curriculare delle giovani generazioni verso i settori
richiesti dall'economia stessa, con una trasformazione dell'intero
comparto istruzione in una sorta di avviamento professionale o di
tirocinio lavorativo, con cancellazione di tutti quegli argomenti e
tutte quelle discipline tese, piuttosto, a formare le persone, a
sviluppare in queste ultime il senso critico, il libero pensiero. Le
nazioni stanno, così, tagliando tutto ciò che pare non serva a
restare competitivi sul mercato globale” (p. 22), i governi, cioè, preferiscono
inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi
tecnico-scientifici più idonei a tale scopo”(p. 22).
Il
rischio è quello di perdere del tutto il riconoscimento che
consente di guardare all'altro come una persona, e non come un mero
oggetto da utilizzare per trarre profitto personale. Infatti, “ci
stiamo dimenticando cosa significa considerare un'altra persona come
un'anima, anziché come un mero strumento utile, oppure dannoso, per
il conseguimento dei propri progetti; di cosa significa rivolgersi,
in quanto possessori di un'anima, a qualcun altro che si percepisce
come altrettanto profondo e complesso” (p. 25). Stiamo perdendo di
vista quell'essenziale che ci rende umani, e che Nussbaum sintetizza
con il termine 'anima'. Cosa ci rende umano? Sicuramente, “le
capacità di pensiero e immaginazione” (p. 25) le quali “fanno
delle nostre relazioni qualcosa di umanamente ricco, non relazioni di
semplice uso e manipolazione” (p. 25).
Così,
le nostre democrazie sono destinate a cadere una volta che non siamo
più abituati o capaci di “immaginare le reciproche capacità di
pensiero ed emozione” (p. 25), una volta che sia venuto meno il
riconoscimento dell'alterità, della differenza, di altri come me.
Una democrazia, infatti, è costituita sul rispetto e la cura, e
questi “sono costruiti sulla capacità di vedere le altre persone
come esseri umani, e non come oggetti” (p. 25).
La
corsa al profitto, o la tentazione vincente di credere nel progresso
di una nazione esclusivamente nei termini di produttività o
di Prodotto Interno Lordo, svaluta questi valori, rendendo
impossibile in futuro il riconoscimento degli altri, in quanto tali,
e non come meri strumenti per il proprio tornaconto personale. Questi
valori consistono in conoscenze, ossia saperi che
stiamo eliminando dai nostri curriculi per far spazio a saperi
tecnico – scientifici, inseguendo il mito del “profitto” (p.
26). Si tratta dei saperi umanistici, ossia “la capacità di
pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi e di
affrontare i problemi mondiali […] la capacità di raffigurarsi
simpateticamente la categoria dell'altro” (p. 26). L'ossessione
“della crescita economica” (p. 27) conduce “a cambiamenti nei
programmi di studio, nella pedagogia e anche nel sistema dei
finanziamenti” (pp. 27 – 8). eppure, rileva l'autrice, vi sono
saperi che, pur non essendo direttamente spendibili nella vita
pratica, per via delle loro particolare natura, contribuiscono in
maniera efficace a formare i soggetti umani. Pertanto, il suo scopo
diventa dimostrare “che le capacità intellettuali di riflessione e
pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le
democrazie” (p. 28). Solo lo sviluppo adeguato delle facoltà di
pensiero e di ragionamento consente di potersi muovere all'interno di
una realtà multiforme e camaleontica, riuscire a destreggiarsi entro
un mondo siffatto, per far fronte “ai problemi” (p. 28) che
attendono le democrazie. Questo non può fare, ad esempio,
un'educazione modellata sul perseguimento del profitto materiale a
tutti i costi. Peraltro, non è affatto vero che sia impossibile
conciliare un'educazione modellata sul profitto e un'educazione
modellata sui saperi umanistici. D'altra
parte, si è incapaci di coniugare formazione
delle persone e ricchezza sociale, finendo con il legare, quasi del
tutto esclusivamente, profitto e Prodotto Interno Lordo. La ricchezza materiale non porta
affatto con sé tutto il resto, sanità, istruzione, diminuzione
delle diseguaglianze. Aumentare la ricchezza materiale non
comporta in automatico un miglioramento della democrazia, un qualcosa
che va comunque sempre alimentato e coltivato. Esiste oggi un bisogno
di diritti di cittadinanza per i quali il profitto non sortisce
alcuna resa effettiva. Solo abituando “la mente a diventare attiva,
competente e responsabilmente critica verso le complessità del
mondo” (p. 35) è possibile tentare di dare risposa adeguata a tale
bisogno, senza, di conseguenza, ignorarne l'appello, la necessità,
senza differirne, per motivazioni di forza maggiore, il
perseguimento, il soddisfacimento.
É
un modello antico, che trova in Socrate un suo illustre precedente,
ma che, a detta della Nussbaum, ha informato di sé l'intero modello
educativo statunitense, profondamente umanistico, e non
tecnico-scientifico, come invece percepito in Europa.
La
prospettiva che si sta imponendo nelle agende politiche di mezzo
mondo è estremamente riduttiva su cosa debba
intendersi per formazione delle nuove generazioni. Infatti, tende a
selezionare molto le materie e gli argomenti sui quali i giovani
devono formarsi, solo quelli che “servono al successo economico,
personale o nazionale che sia” (p. 40). Non si tratta, però, di
mera volontà di ignorare tutte quelle discipline che potrebbero
educare alla creatività, al pensiero critico e alla capacità di
argomentare e sostenere pubblicamente una posizione personale. I
partigiani del “profitto” come meta finale delle agenzie
formative temono le arti perché “la sensibilità simpatetica
coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso per
l'ottusità, e l'ottusità morale è necessaria per realizzare
programmi di sviluppo economico che ignorano le diseguaglianze” (p.
40), è alla fine più facile manipolare le persone che dialogare con
queste ultime. I sostenitori del modello del progresso hanno così
messo in funzione un'offensiva in grande scala contro “l'inclusione
delle materie letterarie e artistiche fra gli ingredienti
dell'istruzione di base” (p. 41).
Un
modello educativo incentrato solo sulla capacità strumentale di
trarre profitto dalla realtà circostante può solo costituire un
danno per le democrazie perché non riconosce più una “dignità
umana inalienabile” (p. 41) a tutti gli individui, guardando non
più alla parità di accesso dei singoli, ma alle possibilità di
potere degli aggregati. Anziché
perseguire lo sviluppo umano delle persone, si finisce con il
perpetuare poteri sociali consolidati. Tolta l'umanità, resta ben
poco di quanto siamo soliti chiamare come 'democrazia'. Infatti,
l'autrice elenca quelli che a suo dire sono i nuclei fondamentali di
un'educazione mirante allo sviluppo umano:
- la capacità di ragionare sui problemi riguardanti la nazione, di esaminare, riflettere, discutere e giungere a conclusioni senza delegare alla tradizione o all'autorità;
- la capacità di riconoscere nei concittadini persone con pari diritti, di guardare loro con rispetto, “in quanto fini, non in quanto strumenti da manipolare per il proprio tornaconto” (p. 42);
- la capacità di preoccuparsi per la vita degli altri, di cogliere quali politiche siano significative per le opportunità e le esperienze dei propri concittadini ed anche delle persone al di fuori della propria nazione;
- la capacità di “raffigurarsi la varietà dei problemi della vita umana così come essa si svolge” (p. 42);
- la capacità di giudicare gli uomini politici criticamente, ma in base a informazioni certe;
- la capacità di pensare al bene della nazione, e non “a quello del proprio gruppo locale” (p. 43);
- la capacità di vedere la propria nazione come parte di un ordine mondiale complesso, le cui problematiche “richiedono una discussione transnazionale per la loro soluzione” (p. 43).
La
tendenza a snaturare la tradizione umanistica dell'istruzione
pubblica pone domande nuove e inquietanti. Su tutte quale sia il
destinatario dell'istruzione medesima. Secondo la Nussbaum,
l'istruzione “ha per destinatario il popolo” (p. 45). se così
stanno le cose, allora una qualsiasi soluzione formativa non dovrebbe
calare dall'alto, ma muovere solo da un'effettiva conoscenza di come
mettere quest'ultimo nelle possibilità di “formare gli studenti
come cittadini responsabili” (p. 45), capaci di “fare scelte
riguardo a questioni di portata nazionale e universale” (p. 45).
Ciascuna società presenta “persone che sono preparate a vivere con
gli altri in termini di rispetto e reciprocità, e persone che
perseguono il beneficio della prevaricazione” (p. 46). compito
dell'istruzione è, pertanto, “capire come produrre più cittadini
del primo tipo e meno del secondo” (p. 46). Per far questo, bisogna
prendere in considerazione due elementi: “l'individuo e la
situazione” (p. 59). la differenza di comportamento tra le persone
non dipende esclusivamente dalle circostanze, casi singoli ed isolati
gli uni dagli altri. Le persone, al contrario, “si comportano male
quando non sono ritenute personalmente responsabili” (p. 59),
quando possono muoversi al riparo sociale dell'anonimato, sotto le
mentite spoglie della massa informe. In secondo luogo, le persone si
comportano male anche “quando nessuno fa sentire una voce critica”
(p. 60). In terzo luogo, le persone si comportano male “quando gli
individui su cui hanno potere vengono disumanizzati e
deindividualizzati” (p. 60), ossia quando l'altro perde i connotati
della persona e diviene un mero oggetto manipolabile.
Sicuramente,
“non riusciremo mai a formare persone che siano al riparo da ogni
possibile manipolazione, ma possiamo produrre una cultura sociale che
valga di per sé come un potente contesto in cui radicare le tendenze
che militano contro lo stigma e la prevaricazione” (p. 60). Una
società che non preferisca di gran lunga gli antidoti contro le
tendenze spersonalizzanti è una società che ha deciso anzitempo di
esaurirsi, di contrarsi, di estinguersi. Certamente, sono diverse le
agenzie formative sulle quali una società può contare, ma la più
importante è la scuola, la quale, per mantenere sana e viva la
democrazia, deve:
- sviluppare la capacità degli studenti “di vedere il mondo dal punto di vista di altre persone” (p. 61);
- insegnare a confrontarsi con le inadeguatezze e le fragilità umane, ossia “insegnare che la debolezza non deve essere fonte di vergogna e che avere bisogno degli altri non è mancanza di virilità” (p. 61);
- sviluppare la capacità “di un'autentica sensibilità verso gli altri” (p.61);
- contrastare la tendenza a “ritrarsi ma minoranze per qualche motivo disprezzate” (p. 61), considerate, a torto, inferiori o contaminanti;
- insegnare “cose autentiche sui gruppi diversi […] così da controbattere gli stereotipi e il disgusto che spesso li accompagnano” (p. 61);
- incoraggiare la responsabilità;
- promuovere con vigore “il pensiero critico, la capacità e il coraggio richiesti per far sentire una voce dissenziente” (p. 61).
Si
tratta, a ben vedere, di un “programma estremamente impegnativo”
(p. 61), sia in termini umani sia in termini materiali. Tuttavia, va
sempre presa in considerazione la posta in gioco: il bene comune o il
bene di pochi. Le democrazie vogliono mantenersi vive e salde o
preferiscono abdicare in favore di altri modelli meno liberali?
L'autrice
identifica nella figura di Socrate il precedente illustre che ha
modellato in maniera umanistica la tradizione educativa occidentale.
Detto altrimenti, è l'insegnamento socratico che viene oggi messo in
questione dai vari sostenitori dell'educazione al profitto in luogo
di quella centrata sullo sviluppo umano delle persone. In effetti, fu
Socrate il primo a suggerire di pensare e ragionare autonomamente,
senza conformarsi automaticamente alla tradizione e all'autorità.
Oggi, però, la “capacità di pensare e argomentare da sé appare a
molti superflua, se tutto ciò che vogliamo sono risultati di natura
quantificabile in termini commerciali” (p. 65). nemmeno risulta
possibile valutare la capacità socratica sulla base di test
scolastici standardizzati. Al contrario, la cultura centrata sulla
crescita economica “ha una propensione per i test standardizzati e
non tollera pedagogia e contenuti che non siano rapidamente
valutabili in quel modo” (p. 66). Risulta, infine, che le “persone sono
facilmente ingannate dalla fama o dal prestigio dell'oratore, o anche
da ciò che la cultura dei pari impone” (p. 68) laddove, invece,
l'esame critico socratico è “radicalmente antiautoritario” (p.
68). Ne emerge appieno come il metodo socratico sia “importante per
qualsiasi democrazia” (p. 71), in modo particolare per le società
“che devono fare i conti con la presenza di persone diverse per
etnia, casta e religione” (p. 71). Esso non è un contenuto di
apprendere, o da mandare a memoria, ma lo sviluppo di un'abilità dal
momento che è “una pratica sociale” (p. 72), un habitus
da mandare ad effetto in qualsiasi circostanza di vita. Non a caso,
infatti, tale modello educativo è stato incorporato, sia pure con
differenze, anche profonde, da caso a caso, in pedagogia, da parte di
Rousseau, di Pestalozzi, di Frbel. Si vedeva la possibilità di
abituare i bambini ad essere persone pensanti, autonome nel cercare
soluzioni ai problemi. Per questo motivo, il modello socratico viene
osteggiato ai nostri giorni “perché i bambini sono sempre più
indotti ad assorbire conoscenze, sempre più precocemente, spesso
perdendo la possibilità di apprendere tramite la serenità del
gioco” (pp. 77 – 8). Le società moderne plasmano oramai i
bambini sempre più precocemente, facendo più dei consumatori che
delle persone. Queste idee, comunque, si sono rivelate feconde nel
tempo, giungendo anche a Dewey secondo il quale “i bambini hanno
bisogno di imparare a pensare da soli e a relazionarsi all'esterno
con curiosità e spirito critico” (pp. 80 – 1). Dewey visse,
chiosa Nussbaum, in una fiorente democrazia e poté porre come suo
obiettivo principale “la produzione di cittadini attivi, curiosi,
critici e reciprocamente rispettosi” (p. 81). Idee simili vennero
fatte proprie in India da Tagore. Il confronto con il sistema
educativo indiano è fondamentale per la Nussbaum al fine di validare
la sua ipotesi di fondo, e dalla quale muove. Infatti, questa
digressione “ci ha confermato la vitalità di una certa tradizione
che utilizza i valori socratici per produrre un certo tipo di
cittadino: attivo, critico, curioso, capace di resistere alla
pressione dell'autorità e dei pari” (p. 87). Questo è quel che è
stato fatto in passato, però, non “cosa dobbiamo o possiamo fare
qui e ora, nelle scuole primarie e secondarie di oggi” (p. 87).
Questo è il problema che si profila all'orizzonte: quali opzioni
pedagogiche assicurare? Quali opzioni assiologiche mandare ad
effetto? Continuare con il buon esempio del passato o cedere alle
seducenti lusinghe della logica del “profitto”? È ancora
attuale, per dirla altrimenti, il modello scoratico di educazione?
Per l'autrice, l'aspirazione “a rendere scoratiche le scuole
primarie e secondarie non è utopistica, né richiede doti
eccezionali” (p. 91). Al contrario, è “alla portata d qualsiasi
comunità che rispetti l'intelligenza dei suoi giovani e le esigenze
di una democrazia vitale” (p. 91). Ma non è, purtroppo, quanto sta
succedendo oggi, “in tanti paesi Socrate non è mai stato di moda
oppure non lo è più da tempo” (p. 91). In India, ad esempio, le
scuole pubbliche sono “luoghi deprimenti dove si apprende in modo
meccanico e ripetitivo, impermeabile agli insegnamenti di Tagore e
dei suoi colleghi socratici” (p. 91). Negli USA la situazione è un
po' differente dal momento che è ivi operante l'autorità
dell'attivismo di Dewey. Tuttavia, “le cose stanno cambiando
rapidamente” (p. 92). Siamo ormai prossimi al collasso del modello
socratico, e, con esso, delle attuali democrazie? Per l'autrice, le
“democrazie di tutto il mondo stanno sottovalutando, e di
conseguenza trascurando, i saperi e le capacità di cui abbiamo
disperatamente bisogno per mantenere vitale, rispettosa e
responsabile la democrazia stessa” (p. 92).
Il
mondo di oggi è certamente più plurale, più pluricentrato, più
complesso che in passato. I problemi non sono più limitatamente
locali, ma “di portata mondiale” (p. 95), non risultando più
possibile risolverli senza una cooperazione transnazionale. Da un
lato, l'economia globale lega i destini di “vite lontane” (p.
96), dall'altro lato, però, scuola e università hanno “un compito
urgente e prioritario: devono sviluppare negli studenti la capacità
di vedere se stessi come membri di una nazione eterogenea (come sono
tutte le nazioni contemporanee) e di un mondo ancora più
eterogeneo, e di comprendere qualcosa della storia e del carattere
dei differenti gruppi che lo abitano” (p. 96). Occorre, cioè, che
gli scolari “apprendano il prima possibile a relazionarsi in
maniera diversa con gli altri, cioé in una maniera mediata da
conoscenze corrette e da una curiosità rispettosa” (p. 97).
Bisogna sviluppare una humanitas in forza della quale ciascuno
di noi sia capace di comprendere sia le differenze, che rendono
difficile la reciprocità, sia gli interessi condivisibili che
rendono “la comprensione essenziale, se si vuole arrivare a una
soluzione dei problemi comuni” (p. 97). Solo genti capaci di
muoversi accortamente sul crinale della differenza e della
condivisione potranno vivere rispettosamente nel mondo di oggi.
L'obiettivo dell'educazione dev'essere la cittadinanza globale:
uomini capaci di scorgere e comprendere sia differenze globali sia
interessi comuni. Ma, e questo il problema serio che affligge le
democrazie occidentali (ma non solo): la “cittadinanza globale
davvero richiede studi umanistici?” (p. 108), laddove qualcuno
potrebbe sostenere che sarebbe sufficiente, al contrario, “un'ampia
conoscenza fattuale, concreta, che gli studenti potrebbero acquisire
senza un'istruzione umanistica” (p. 108). In verità, la
cittadinanza democratica richiede molto di più, “la capacità di
valutare i dati storici, di utilizzare e pensare criticamente i
principi economici, di riconoscere la giustizia sociale, di
padroneggiare una lingua straniera, di apprezzare la complessità
delle grandi religioni mondiali” (p. 108). Di per sé, infatti, la
parte fattuale, pur meritoria in ordine alla conoscenza in generale,
è priva di effetti cognitivi e pratici dal momento che “un elenco
di fatti, senza la capacità di valutarli, e di capire come una
narrazione venga organizzata in base ai dati disponibili, è
deleterio quasi quanto l'ignoranza, perché l'allievo non sarà
purtroppo in grado di distinguere gli stereotipi più triti,
spacciati da leader e ideologici politici come verità, o le
affermazioni false da quelle valide” (pp. 108 – 9). Ne emerge,
quindi, come la comprensione storica ed economica del mondo “dovrà
essere umanistica e critica per risultare utile alla formazione di
cittadini del mondo consapevoli, e andrà raggiunta insieme allo
studio delle religioni e delle teorie filosofiche della giustizia”
(p. 108). Infatti, solo così tale comprensione “costituirà un
utile fondamento delle discussioni pubbliche che dovremo affrontare
se vorremo cooperare nella soluzione dei grandi problemi
dell'umanità” (p. 109).
D'altro
canto, si può anche considerare l'intero processo educativo delle
giovani generazioni come il progressivo affinamento della competenza
di “vedere l'altro non come una cosa, ma come una persona a tutto
tondo” (p. 112), il che non è affatto un evento automatico, ma, al
contrario, “un traguardo che richiede il superamento di parecchi
ostacoli” (p. 112), siano essi individuali siano essi sociali. In
altri termini, bisogna educare le persone ad essere persone, ad agire
da persone, a pensare, ragionare e vivere da persone. La storia del
pensiero pedagogico ha molto riflettuto su questo problema,
elaborando nel contempo anche delle strategie e delle metodologie.
Winnicott, ad esempio, ha concepito il processo educativo come
l'azione del gioco simbolico il quale “insegna alle persone a
vivere con gli altri senza controlli; esso collega le esperienze di
vulnerabilità e sorpresa alla curiosità e allo stupore, anziché a
una paralizzante apprensione” (p. 116). Mediante il gioco, le
persone “maturano” nel senso che si aprono all'altro, al
confronto con altri, accettano la diversità, la differenza,
l'alterità intersoggettiva. Ma “giocare” richiede anche il
contemporaneo sviluppo di una facoltà umana del tutto peculiare,
ossia la creatività.
L'enfasi posta su quest'ultima, è sintomo
dell'importanza avvertita dai più di tale facoltà nel processo di
sviluppo delle persone umane. Infatti, “l'attività immaginativa di
esplorazione di un'altra vita interiore, anche se non è sufficiente
da sola, a determinare una sana relazione morale con gli altri, ne è
sicuramente un ingrediente necessario” (p. 124); essa, inoltre,
possiede “l'antidoto alla paura autoconservativa che è tanto
spesso legata alle pulsioni egocentriche di controllo” (p. 124),
responsabili in misura rilevante di tutte le tendenze di mancato
rispetto degli altri, considerati, a vario titolo, delle minacce, il
più delle volte, ovviamente, solo simboliche. La coltivazione della
sensibilità, della creatività, dell'immaginazione è così parte
integrante del processo di sviluppo delle giovani generazioni,
antidoti naturali ai nemici della democrazia. Ciò spinge Nussbaum ad
asserire che “anche se il nostro unico obiettivo fosse la pura
crescita economica nazionale, dovremmo difendere l'istruzione
progressista basata sulle materie umanistiche e sulle arti, mentre
oggi […] le materie letterarie e artistiche sono sotto attacco
nelle scuole di tutto il mondo” (p. 126). Finanziare un tipo di
educazione che incentivi la creatività degli alunni non è affatto
costoso, come in genere si pensa e si sostiene pubblicamente, ma è
addirittura poco costoso e inoltre si ripaga nel tempo dal momento
che “riduce i costi poiché limita l'anomia e la perdita di tempo
che in genere accompagnano la mancanza di slancio personale” (p.
133).
La
situazione mondiale, però, non è allegra e va in genere in senso
contrario a quanto sostenuto e delineato dalla Nussbaum. Dovremmo
“raddoppiare il nostro impegno sugli aspetti dell'istruzione che
mantengono vitale la democrazia” (p. 135), ma non lo facciamo.
Anzi, la tendenza è quella di “tagliare”, di contrarre la spesa
nel settore dell'istruzione, ai suoi vari livelli, dalla scuola
d'infanzia alla formazione universitaria. Il problema è che se si
vedono le materie umanistiche come non essenziali, allora “sembra
naturale il loro ridimensionamento e addirittura la soppressione di
certi dipartimenti” (p. 137). I tagli, anche quando non comportano
la soppressione de facto
di un dipartimento, ad esempio, comunque comportano la qualità del
servizio erogato. Ma ciò ha un altro effetto proprio sulle materie
umanistiche. Infatti, nella “misura in cui le università non
conseguono gli obiettivi che io propongo, diventa molto più facile
per gli esterni svalutare gli studi umanistici” (p. 137). Così, si sono contratti i finanziamenti, sino
ad orientare la stessa ricerca accademica in maniera quasi pressante.
Infatti, i “cultori delle materie umanistiche temono, non a torto,
che il sistema di richiesta di fondi mirati, se può funzionare per i
progetti scientifici, non è opportuno per quelli umanistici e anzi
tende ad alterare la vocazione stessa della ricerca” (p. 143).
Ma
senza le materie umanistiche, appare “molto carente in qualsiasi
paese” (p. 145) l'educazione alla cittadinanza, e paradossalmente
proprio a ridosso degli “anni cruciali della vita dei giovani”
(p. 145), in genere i primi dodici, perché “le esigenze del
mercato globale inducono tutti a considerare le conoscenze tecniche e
scientifiche come le
competenze chiave, mentre le lettere, la filosofia e l'arte sono
sempre più percepite come inutili fronzoli da tagliare per garantire
al paese (sia l'India sia gli Stati Uniti) l'auspicabile
competitività” (p. 146). In questo modo, queste ultime materie
vengono valutate alla stregua delle materie tecniche e scientifiche,
ossia tramite “test a risposta multipla” (p. 146) mentre “le
competenze critiche e inventive che ne costituiscono il nucleo sono
messe da parte” (p. 146). Il caso italiano è, da questa
prospettiva, illuminante e tristemente veritativo di quanto asserito
dall'autrice. Infatti, stiamo progressivamente passando “da un
insegnamento che cercava di promuovere la riflessione e la
responsabilità individuali a un indottrinamento forzato ai fini di
un buon punteggio al test” (p. 147). La Nussbaum non sostiene
affatto che non sia possibile valutare gli apprendimenti per le
materia umanistiche, ma solo che un sistema di valutazione buono per
queste ultime, a differenza di quello per le materie tecniche e
scientifiche, “sarà molto più costoso di quello standardizzato”
(p. 148) oltre a richiedere “esaminatori all'altezza e di pagarli
bene” (p. 148), cose che, a ben guardare, “nessuno attualmente si
sogna nemmeno di ipotizzare” (p. 148).
Eppure,
basterebbe fermarsi e compiere un semplice confronto con quei valori
ai quali, almeno nominalmente, ci riferiamo in genere. Come sostiene,
infatti, l'autrice, “Oggi possiamo ancora dire che ci piacciono la
democrazia e la partecipazione politica, e ci piacciono anche la
libertà di parola, il rispetto della differenza e della comprensione
dell'altro. Formalmente rispettiamo questi valori, ma non pensiamo
abbastanza a ciò che dovremmo fare per trasmetterli alla generazione
futura e per garantirne la sopravvivenza. Distratti dall'obiettivo
del benessere, chiediamo sempre più alle nostre scuole di insegnare
cose utili per diventare uomini d'affari piuttosto che cittadini
responsabili. Sotto la pressione del taglio dei costi, sfoltiamo
proprio quelle parti dello sforzo formativo che sono essenziali per
una società sana” (p. 153). La direzione che immediatamente è
ipotizzabile se si persegue questo sentiero è nazioni “abitate da
persone addestrate tecnicamente che non hanno imparato ad essere
critiche nei confronti dell'autorità, gente capace di fare profitti
ma priva di fantasia” (p. 153). Certamente, al contrario, le
democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di immaginazione,
ma sussistono alcuni rischi: “scarsa capacità di ragionamento,
provincialismo, fretta, inerzia, egoismo e povertà di spirito” (p.
154). L'istruzione, volta esclusivamente al tornaconto del mercato
globale, “esalta queste carenze, producendo un'ottusa grettezza e
una docilità […] che minacciano la vita stessa della democrazia, e
che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale”
(p. 154). Detto altrimenti, se “non insistiamo sul valore
fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno messe
accantonate, perché non producono denaro” (p. 154), ma esse
servono a qualcosa di ben più prezioso, “a costruire un mondo
degno di essere vissuto, con persone che siano in grado di vedere gli
altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e
sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con
nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore
del confronto simpatetico e improntato alla ragione” (p. 154).
(immagine tratta da: http://cas.uchicago.edu/workshops/practicalphilosophy/files/2010/06/Martha-Nussbaum.jpg)
Alessandro Pizzo
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