Se
di norma sono in preda al panico i genitori degli alunni, così
detti, “normodotati”, figuriamoci quale possa essere lo stato
d'animo di quelli diversamente abili, quali ansie agitino le notti di
tutti i componenti del nucleo familiare, quali pensieri passano nelle
loro teste, quali sentimenti possa suscitare il contrasto sordo tra
le aspettative parentali e la triste realtà.
É
specifico compito della società
farsi carico dell'educazione dei nostri alunni diversamente abili,
per nulla figli di un Dio minore o alunni di serie B! Ci ricorda,
infatti, Nussbaum:
Bambini
e adulti con menomazioni mentali sono cittadini. Ogni società
decente deve dedicarsi ai loro bisogni di cura, di istruzione, di
rispetto di sé, di attività e di amicizia[1]
Negli
ultimi tempi, però, è in atto un vero e proprio processo di
revisione dei diritti soggettivi,
innanzi ai dogmi economici imposti dalla crisi degli ultimi anni, un
vero e proprio rullo compressore che abbatte idee e valori appena da
poco maggiorenni in nome di un bisogno, sempre meno percepito come
tale, di contenimento dello spesa
pubblica. Il
discorso sarebbe, per forza di cose, molto vasto e richiederebbe una
competenza che davvero non sento nelle mie corde. Pertanto, mi
limiterò a gettare qua e là soltanto alcune riflessioni
frammentarie, con la segreta speranza che chi legge, se c'è, possa
comprendere quel che davvero intendevo comunicare.
Contenere
la spesa pubblica, quando riguarda alunni diversamentre abili,
significa de-strutturare l'offerta formativa delle scuole,
presentando il tutto elegantemente quale de-statalizzazione
dell'istruzione, a tutto vantaggio di offerte formative più piccole
e private mirate alle richieste individualizzate delle famiglie.
I
teorici della de-statalizzazione dell'istruzione si pongo nelle
schiere di quanti, a vario titolo e con varia funzione sociale di
partenza, propugnano una revisione della spesa pubblica perché ormai
non più sostenibile. Si tratta, a ben guardare, di quegli stessi
attori i quali, però, difendono altre prerogative di privati
considerandole dei diritti
soggettivi.
Allora, sorge il problema: i diritti soggettivi, proprio in quanto
tali, sono finanziarmente insostenibili oppure il loro costo sociale
va comunque garantito? Il problema, così come il paradosso mostrato
dai teorici dell'ampliamento del privato, a scapito del pubblico,
indice di incoerenza nel procedere di questi difensori della sfera
privata, e demolitori della sfera pubblica, non è di poco conto. Da
un lato, abbiamo che i diritti soggettivi devono essere gratuiti per
quanto riguarda la loro fruizione, anche se per piccole entità di
popolazione, dall'altro lato, però, gli stessi hanno un costo che
ricade sull'intera popolazione. La Costituzione, ad esempio,
attribuisce alla Repubblica, ossia allo Stato, nelle sue declinazioni
istituzionali, la scuola, il compito di rimuovere tutti quegli
ostacoli materiali, ossia finanziari e sociali, che possano
costituire un nocumento al pieno e completo sviluppo delle persone.
Ora come va intesa, dunque, la revisione della spesa pubblica quando
impedisce tale finalità? Come va inteso il contenimento della spesa
pubblica quando di fatto impedisce il godimento (gratuito) di diritti
soggettivi? Probabilmente, i teorici del privato, e della sua
giustizia
commutatitva,
ossia tra pari,
solo in linea teorica, sono abbagliati dalle moderne teorie politiche
neocontrattualiste. Infatti, nota Nussbaum:
Il
fallimento nell'occuparsi adeguatamente dei bisogni dei cittadini con
menomazioni e disabilità è un grave difetto delle moderne teorie
che immaginano i principi politici di base come il risultato di un
contratto per il vantaggio reciproco[2]
Ma,
e qui sta il problema, per poter stipulare un contratto
valido è necessario che i due, o più, contraenti si trovino in una
posizione di assoluta parità e nel pieno godimento delle proprie
possibilità. É forse così nel caso di soggetti disabili?
Ovviamente, no. Allora, quale prototipo di persone
libere ed eguali
hanno in mente i teorici del privato? Sicuramente, un soggetto del
tutto astratto ed idealizzato, per nulla corrispondente alle
situazioni concrete, alle varietà esistenziali.
Il
problema, piuttosto, è voler approfittare della crisi economica per
contrarre i diritti soggettivi di alcuni ed estendere le proprie
possibilità lucrative in settori di conseguenza lasciati liberi dal
ritiro del pubblico, scuola e sanità in primo luogo. Di conseguenza,
non importa loro certo giustificare le premesse del ragionamento o
fornire giustificazioni per l'incoerenza mostrata in precedenza.
Infatti, quello dell'insostenibilità finanziaria per la promozione
di alcuni diritti soggettivi non è un argomento pensato per
giustificare il taglio della spesa, ma una mera pezza d'appoggio che
impedisca di fatto il libero confronto pubblico, che impedisca la
discussione pubblica, tagliando qualsiasi possibilità di replica a
quanti, con giusto sentore e cognizione di causa, avrebbero da
obiettare a siffatto modo di procedere.
Molte
istituzioni pubbliche sono in pericolo, esattamente come molti
diritti dei soggetti. Infatti, se viene meno il finanziamento
pubblico alla promozione di questi ultimi, chi dovrebbe farsene
carico? I privati? La riposta la sanno i venti, figuriamoci i privati
con il loro bisogno di utile!
E
così i diritti finiscono con il restare soli sulla carta in solenni
dichiarazioni, elencati in pomposi elenchi, del tutto abbandonati a
sé stessi, emarginati dal comune sentire e dal vivere civile.
E
soli restano anche tutti quei soggetti, fasce deboli della
popolazione, che nessuno, ma proprio nessuno, ha interesse di
sostenere, salvo, magari, parlare di loro, in termini del tutto
neutri e distanti, come di persone,
con toni compassionevoli, ma senza, nel contempo, prevedere per le
loro necessità speciali
alcun tipo di tutela o di finanziamento.
Vengono
in mente le parole di Chiesa e Zagrebelsky i quali descrivono un modo
di sentire quasi comune e secondo il quale:
Imparare
a scuola è uno strumento fondamentale per diventare adulti, per
raggiungere la formazione del pensiero e la cultura necessarie per
entrare in rapporto con i meccanismi complessi della società, per la
conquista di quei codici interpretativi che consentono di trovare i
nessi tra l'esperienza culturale dell'umanità e i bisogni di
identità dei giovani. Fin qui nessuno manifesta dubbi. Meno unanime
è la convinzione che imparare a scuola sia per tutti un diritto e
non l'opzione esclusiva per chi ha la «testa»
e la «voglia». Eppure è una condizione necessaria per non rimanere
emarginati[3]
La
scuola è un diritto per tutti o una possibilità per pochi? Questa
la questione. Ma si badi, non riguarda esclusivamente le persone
diversabili, riguarda potenzialmente ciascuno di noi. Infatti, in
base a quali standards
si può pensare che qualcuno abbia o meno testa per frequentare la
scuola?
E, non per ultimo, a quale funzione sociale ottempera una
scuola di tal genere?
(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/2/2b/Nussbaum_Martha2.jpg/220px-Nussbaum_Martha2.jpg)
Note
[1]
Cfr. M. Nussbaum, Le
nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità,
appartenenza di specie,
Il Mulino, Bologna, 2007, p. 115.
[2]
Ivi,
p. 116.
[3]
Cfr. D. Chiesa – C. T. Zagrebelsky, La
mia scuola. Chi insegna si racconta,
Einaudi, Torino, 2005, pp. 31 – 2.
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