Scriveva Collodi nel 1881:
E rimase lì perplesso. A ogni
modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola o a sentire i
pifferi. - Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per
andare a scuola c'è sempre tempo – disse finalmente quel monello
facendo una spallucciata[1]
La
storia della letteratura per l'infanzia ha mostrato da subito la
profonda distanza tra il reale interesse delle giovani generazioni e
la concreta modalità della didattica istituzionale.
Da qui il
sostanziale rifiuto della conoscenza formale per la vivacità delle
concrete esperienze della vita. Ce lo
ribadisce Collodi: a cosa serve una scuola che non prenda sul serio i
bisogni formativi di generazioni tecnologicamente avanzate?
Ovviamente,
il riferimento a un romanzo per l'infanzia, così attardato sulle
difficoltà del Paese al termine del XIX secolo, è volutamente
provocatorio, al fine di far risaltare l'estrema difficoltà della
nostra scuola nell'intercettare l'interesse degli studenti facendone
il volano della loro realizzazione personale.
E questo di certo a
smascheramento della facilità con la quale oggi si etichetta la
nostra società con termini equivoci quali “società
dell'informazione” oppure “società della conoscenza”. Ma di
quale informazione si tratta? Di quale conoscenza si parla?
L'impressione finale è che l'una e l'altra siano solamente povere
espressione di contenuti limitati alla mera fruizione di esperienze
concrete. E tuttavia l'esperienza di per sé non è educativa, non
possiede in alcun modo nessuna valenza formativa. La didattica, ad
esempio, è l'esatto contrario: alla mera casualità dei processi che
costruiscono un'esperienza, singola o partecipata, s'instaura una
rigida causalità nella costruzione dell'esperienza, singola o
condivisa, che, per l'appunto, esclude qualsiasi casualità.
Una cosa è il mondo, che meramente accade, e un'altra cosa,
di per sé diversissima, è la scuola, pedagogicamente costruita,
pensata e, talvolta, anche mandata ad effetto, pur tra mille difficoltà.
Lo
scarto, comunque, tra mondo e
scuola, tra esperienza
e formazione, tra
tecnologia e
istruzione resta
inalterato, con l'aggiunta, se si preferisce dell'impossibilità per
la seconda di inseguire, di qualificarsi quale concorrente
accreditato nella rincorsa del consenso dei possibili utenti finali.
Da qui l'esigenza di pensare in maniera diversa lo scarto, la
differenza, le ragioni di una sconfitta in partenza, e di vedere così
il mondo non più come un nemico ma come un possibile alleato, la
tecnologia non come una concorrente, ma un utile strumento,
l'esperienza non un nemico della conoscenza, ma un suo valido socio
nella costruzione formativa dei soggetti.
A differenza delle fiabe, ad esempio, il romanzo citato possiede
un'indubbia autocoscienza storica e sociale propria, mettendo in
luce, in maniera esplicita, la natura reale della società che descrive, quella
“fiorentina”. Le fiabe, al contrario, svolgono la loro funzione
educativa solo per via analogica, dicendo e non dicendo. Come afferma
in merito Bettelheim:
Il
bambino non è cosciente dei propri processi interiori, ed è per
questo che essi sono esteriorizzati nella fiaba e simbolicamente
rappresentati da eroi che stanno ad indicare lotte interne ed esterne[2]
La
scrittura della fiaba rimanda ad un insieme di contenuti simbolici
che sono il portato di intere generazioni, rielaborato nel corso dei
secoli e trasfigurato in meri simboli apparentemente collocati in un
mondo non reale, o, se si preferisce, più reale
del mondo attuale. In quanto codici simbolici le fiabe interpellano
direttamente i bambini i quali ne traggono informazioni preziose alle
loro “mute” angosce esistenziali.
Una
data scuola storica ha anche cercato di scavare nel mito
espresso dalle fiabe alla ricerca di verità storiche o in funzione
storica. In merito, però, ci avverte Propp, autore della
fondamentale Morfologia della fiaba,
come
Riportare
il racconto alla realtà storica senza tener conto delle peculiarità
della fiaba in quanto tale conduce così a conclusioni false[3]
La
fiaba ci reca immagini, simboli, interpretazioni possibili della
realtà, ma in caratteri sempre trasfigurati, diversamente il romanzo
ci narra, in maniera più o meno realistica, come va il mondo.
Ultimamente
ci sono state propinate molte fiabe sulla scuola, è forse giunto il
momento di prendere sul serio i nostri alunni.
Quando diciamo “sul
serio” intendiamo dire che dobbiamo tornare a conoscere gli alunni
che abbiamo davanti, ad essere edotti sui loro interessi, sui loro
contesti familiari, sulle loro necessità, sui loro bisogni
formativi, sulle loro eventuali difficoltà, e così via. Se non si
fa questo, infatti, che scuola credibile si vuole realizzare? Ancora
quella dell'Abbecedario di Pinocchio?
L'intenzionalità
di conoscere, magari a fondo, la natura dei nostri alunni potrebbe
condurci a leggere con un occhio diverso le varie narrazioni
“realistiche” intorno agli utenti del sistema d'istruzione e alle
criticità di quest'ultimo nel mandare ad effetto la propria funzione
al crocevia di investimenti emotivi, provenienti dalla società
civile, di natura eterogenea rispetto alla funzione specifica e al
progressivo de-finanziamento del sistema stesso. Frequentare la
scuola non è, o magari non dovrebbe mai essere, una mera delega
educativa, come se le famiglie alienassero a totale favore della
scuola la funzione educativa dei propri figli.
Si dovrebbe parlare,
piuttosto, di compartecipazione, sia pure a livelli e funzioni
differenti, al medesima progetto educativo. Invece, sempre più le
famiglie risultano assenti, dileguano da qualsiasi incontro di
verifica e/o di comunicazione da parte della scuola, sia nella
normale prassi sia nelle eventuali convocazioni in vista di problemi
rilevanti. Come dicono Chiesa e Zagrebelsky:
Quanto
pesa la famiglia sul fare scuola oggi? Molto, secondo gli insegnanti.
E per lo più negativamente. Famiglie distratte, lassiste,
protettive. Famiglie che hanno rinunciato al loro ruolo educativo nei
confronti dei figli. O che si sono ridotte a semplice fonte di
sostentamento, trasformandosi, nel caso peggiore, «in un bancomat
domestico: il primo cellulare,
il secondo cellulare, il motorino, la moto, l'automobile, la festa di
compleanno (tipo banchetto nuziale), il vestito firmato, il gioiello
firmato ...»[4]
Le
famiglie risultano assenti
nel senso che pur essendoci, ed essendo travagliate da moltissimi
problemi, sconosciuti sino a poco tempo fa, non possono sprecare del
tempo dietro alle sollecitazioni da parte della scuola. Sono ben altre
le loro legittime occupazioni, e preoccupazioni. Che la scuola faccia
la scuola, finalmente! Questo è, in genere, lo sfogo di genitori
esasperati, come se la scuola non facesse, a loro modesto modo di
vedere, la scuola …
Aggiungono in merito ancora Chiesa e
Zagrebelsky:
é
indubbio che la latitanza delle famiglie nei confronti della scuola
dipenda in parte da una modificazione avvenuta nelle famiglie stesse.
Quella che è stata di recente definita la famiglia «postmoderna»
è fatta di adulti disorientati, che hanno smarrito «il senso della
storia […] e che non hanno elaborato visioni per il futuro»[5]
Le famiglie non sono parti estranee al travaglio
che, a a livello molto più generale, attraversa la società civile:
come quest'ultima, anche la famiglia ha smarrito il suo senso,
divenendo disincantata, cinica ma priva di speranza per il futuro, di
colpo incapace di pensarsi proiettata verso il domani, priva di
speranza. Famiglie disastrate, allargate, che si rompono e che si ri
– formano con nuovi attori, con figure genitoriali labili e
transitorie, con mille occupazioni e pensieri diversissimi da quelli
scolastici.
Cosa potrebbero, dunque, fare i nostri alunni in
situazioni simili? In questo modo, infatti,
Alla
scuola viene così data, più o meno consapevolmente, una delega
all'educazione (se non, addirittura, alla «buona educazione»). Ed è
paradossalmente su questo fronte, più ancora che su quello
dell'istruzione, che le famiglie nutrono nei confronti della scuola
le maggiori aspettative. Così come sembrano preoccuparsi in misura
considerevole del fatto che i propri figli «stiano bene a scuola»,
e, per contro, reputano marginale che gli stessi ricevano
un'istruzione complessivamente accurata e di buon livello[6]
Così si vive tutti assieme, come capita, come branchi allo stato brado ...
Il
senso stesso della didattica, però, consiste piuttosto nel non lasciare la crescita, umana e personale, degli
alunni al mero caso, esattamente come potrebbe accadere se li si
lasciasse soli a casa, liberi di passare casualmente dai disegni da
colorare alla televisione al computer al tappeto …
Ha ragione Paola
Mastrocola quando asserisce che la scuola «non sta più nelle nostre
vite»[7].
Il tempo
non basta più per vivere, figuriamoci se ci si può concedere il
lusso di perderne un poco per la scuola.
L’educazione
delle giovani generazioni è un compito difficile cui la scuola in
primo luogo,
e la società in secondo luogo,
non può abdicare, lasciare le giovani generazioni in una sorta di
anarchismo pedagogico è quanto di più dannoso si possa commettere.
Tuttavia,
è indubbio anche come proprio l’avere a che fare con generazioni
siffatte ponga questioni nuove alla stessa progettazione educativa,
alla stessa didattica. Oggi il docente è chiamato ad
essere un buon progettista, profondo conoscitore della realtà dei
propri alunni ed esperto utilizzatore degli stessi strumenti dei
propri alunni.
Ma in
che tempi viviamo? Sono appena passati i giorni della
globalizzazione, che ha calamitato l’interesse e i timori
per un buon decennio, viviamo adesso nel buio del postmoderno,
in un’epoca connotata in senso negativo e rispetto alla quale
sembrano non trasparire molti elementi rassicuranti circa il futuro e
dove le generazioni umane, dalle più piccole alle più anziane,
«devono combattere per qualcosa, e questo si chiama «insicurezza»»[8].
Viviamo,
cioè, in un'epoca nella quale la costanza è diventata la
transizione, e all'interno della quale non ha più alcun senso porsi
in un'ottica obiettiva, non si vede più l'inizio né il termine dei
processi sociali, tutto diventa instabile, permanentemente privo di
una forma stabile, l'innovazione stessa è soggetta a repentina
obsolescenza. E i nostri giovani sono i primi a farne le spese, i
primi a doverne pagare il conto, i primi a rischiare l'esclusione
sociale. Aggiunge, infatti, Bauman:
Per la prima volta i giovani si
confrontano oggi con i limiti dei loro sogni. Ancora fino a dieci
anni fa venivano pubblicati libri, nel mondo occidentale, su come i
giovani volessero tutto e lo inseguissero: questa era l'idea
predominante. È vero, forse oggi i giovani sono ancora abituati a
volere tutto, ma il problema è che non sanno dove andarlo a cercare.
Iniziano a sospettare che questa rincorsa non sia poi così
conveniente, poiché pensano che desideri e sogni siano fuori dalla
loro portata[9]
Così
smaliziati e così disincantati, i giovani sono meno alienati di
quanto non sembri, o non si voglia pensare, dal contesto sociale
entro il quale vivono e del quale “consumano” le medesime trame
culturali. D'altra parte, siamo tutti esseri simbolici nel senso che
viviamo condividendo gli stessi spazi, le medesime risorse, le stesse
potenzialità con altri. Siamo, in fondo, parti di medesime cornici.
Se la
società di appartenenza è tanto postmoderna, perché mai non
dovrebbero esserlo anche loro? Già al termine degli anni ’70
Lyotard diagnosticava i medesimi effetti sociali, una sostanziale
perplessità rispetto alla cultura ufficiale e della tradizione,
declinando in concreto una sostanziale assenza di investimento
affettivo nei confronti della realtà circostante, una sostanziale
«incredulità nei confronti delle meta narrazioni»[10].
Quei
tempi sembrano oggi maturi dato che la repentinità dei mutamenti
rendono impossibile la stabilità, dei sistemi e delle conoscenze.
Non a caso, infatti, si parla tanto oggi di condizione liquida, ad indicare, appunto, l’impossibilità di codificare una forma
stabile per i destini personali e le strutture sociali, siano essere
le istituzioni pubbliche o le istituzioni private.
Sono lontani oggi anche i tempi di Hegel con le sue distinzioni nette
e oggettivamente riconoscibili[11].
Per Bauman
Postmoderno
significa mancanza
di fiducia
in una possibilità del genere; “post” non nel senso di
“cronologico” […] ma in quanto implica (nella forma di
conclusione, o di semplice premonizione) che gli sforzi assiduamente
compiuti dalla modernità sono stati fuorvianti, compiuti su pretese
infondate e destinati, presto o tardi, a seguire il loro corso; che
sarà la stessa modernità, in altri termini, a dimostrare (se non lo
ha ancora dimostrato), oltre ogni ragionevole dubbio, la sua
impossibilità, la vanità delle sue speranze e la vacuità delle sue
realizzazioni[12]
La
sfiducia nei confronti delle forme di vita codificate dalla
modernità, lasciano il campo ad una congerie di liquefazioni
psicologiche, sociologiche, antropologiche. Oggi tutto è temporaneo,
in divenire, sfumato, indistinto … anche i nostri alunni.
Ma
chiediamoci, invece, cosa comporti ciò per il loro equilibrio, per
la loro formazione, per il loro futuro. Cosa possiamo fare per loro
come scuola? Il senso, come
polo unificante di tutte le esperienze dei soggetti, sociali e
familiari, informali e istituzionali, scompare adesso dal nostro
panorama, conoscitivo e valoriale, venendo a cadere sotto le spire
del paradosso colto
dal postmoderno. Come asserisce, infatti, Deleuze:
L'incertezza
personale non è infatti un dubbio esterno a ciò che accade, bensì
una struttura obiettiva dell'evento stesso, in quanto va sempre in
due sensi contemporaneamente, e dilania il soggetto secondo questa
duplice direzione. Il paradosso è innanzitutto ciò che distrugge il
buonsenso come senso unico, ma, anche, ciò che distrugge il senso
comune come assegnazione di identità fisse[13]
L'emergere
di un paradigma nuovo ed inquietante, quello della complessità,
impone nuove domande alla scuola, alle varie agenzie formative, alla
ricerca educativa. Non si tratta, beninteso, di una sorta di “guida”
dei processi umani che erodono sostanzialmente la dimensione
conoscitiva, ma di ri-pensare la pratica educativa al fine di
“salvare” le generazioni a venire dai rischi dell'oblio liquido,
dalla scomparsa dello sviluppo umano, dalle trappole del futuro
assente.
Questo scenario così triste, per molti aspetti, costituisce
però il banco di prova della scuola, se desidera essere credibile,
essere capace di intercettare gli interessi di una società nomade:
Le tecnologie hanno a tal punto
eroso la percezione del tempo e dello spazio che i navigatori
digitali vanno acquisendo caratteristiche sociali simili a quelle dei
primitivi popoli nomadi[14]
I
ragazzi di oggi “bivaccano”, realmente o virtualmente, la
differenza non mostra più alcuna differenza apprezzabile, qua o là,
prendendo sul momento ciò di cui avvertono bisogno, non differendo
più tra uno stimolo e una risposta, non avvertendo peraltro più la
necessità di una risposta che riposi su una ponderazione
intellettuale. Cosa trovano, prendono, senza troppi problemi, senza
pensarci sopra più di tanto.
É scomparsa dal loro orizzonte,
culturale, psichico, sociale, qualsiasi eventuale riferimento ad una
verità, ossia ad una costruzione che possa riposare su solidi
fondamenti e magari durare anche nel tempo. Siamo oggi distanti non
solamente dalla società narrata da Collodi,
per restare al XIX secolo, ma abbiamo pure preso congedo dalla
nozione di verità tanto cara ai filosofi, secondo la quale
sarebbe possibile produrre una scienza rigorosa[15].
Tutto
appare transitorio, provvisorio, non definitivo, non ultimativo,
figuriamoci se possiamo considerarlo anche fondato su solide
fondamenta.
L'insegnante
oggi, innanzi ad una società plurale, policentrica, con molti centri
ed altrettante periferie, al capezzale della famiglia, e davanti al
disagio, alla sfiducia, al disincanto nei confronti del mondo, deve
divenire sempre più un promotore di speranza, latore di un messaggio
di speranza per tutti, anche per il più emarginato, per colui che di
più versa in condizioni di svantaggio, di difficoltà. Insomma, per l'alunno medio della scuola di oggi, la stessa al termine della decadenza ...
Ma se la società chiede aiuto alle famiglie, e le famiglie, a loro volta, chiedono soccorso alla scuola, a chi potrà chiedere aiuto la scuola?
Suonerà per qualcuno domani ancora la campanella?
(imamgine tratta da: http://www.peacelink.it/pace/images/15315_a33474.gif)
Note
[1] Cfr. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio;
Mondadori, Milano, 2002, p. 33.
[2] Cfr. B. Bettelheim, Il mondo
incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe,
Feltrinelli, Milano, 200813,
p. 146.
[3] Cfr. V. J. Propp, Morfologia della fiaba – Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, 20032, p. 23.
[4] Cfr. D. Chiesa – C. T. Zagrebelsky, La mia
scuola. Chi insegna si racconta,
Einaudi, Torino, 2005, p. 5.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. D. Chiesa – C. T. Zagrebelsky, op.
cit., p. 6.
[7] Cfr. P. Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio
sulla libertà di non studiare, Guanda, Parma, 2011, p. 36.
[8] Cfr. Z. Bauman, Il buio del postmoderno,
Aliberti Editore, Roma, 2011, p. 52.
[9] Ivi, p. 54.
[10] Cfr. F. Lyotard, La condizione postmoderna,
Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[11] Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di
filosofia del diritto, Bompiani, Milano, 20102, p. 439
e sgg.
[12] Cfr. Z. Bauman, Le sfide dell'etica,
Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 16 – 7.
[13] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso,
Feltrinelli, Milano, 20073,
p. 11.
[14] Cfr. R. Buono, Conoscenza e inclusione
formativa, ESA, Pescara, 2010, p. 38.
[15] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza
rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
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