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lunedì 5 marzo 2012

...briciole di SSFO...0.3

Pitagora


(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/1/1a/Kapitolinischer_Pythagoras_adjusted.jpg/200px-Kapitolinischer_Pythagoras_adjusted.jpg)

Ed eccoci a Pitagora … il settario! Perché tale qualifica? È semplice: egli fondò, ed animò, una scuola che ebbe il carattere di congrega segreta, di setta. Ovviamente, come sovente accade in filosofia, questa chiusura culturale non equivale a limitazioni speculative degne di note, a parte ovviamente le rigide regole sociali, come ad esempio il divieto di nutrirsi di legumi … già, perché proprio i legumi? Culture che incontri, usanze che sperimenti, potremmo dire dato che tale divieto, per il quale Odifreddi parlerebbe senza mezzi termini di ‘superstizione’, volendo attualizzarlo, potremmo assimilarlo agli usi alimentari dei ‘vegani’: non nutrirsi con nulla che provenga, direttamente o meno, da animali … non è strano anche questo modo di fare? Non potrebbe sembrare superstizione? Eppure, in molti lo considerano un nobile comportamento (non sfruttare indebitamente gli animali), allora perché non fare altrettanto con gli usi della setta pitagorica (non sfruttare indebitamente alcuni vegetali)?
Ma mettiamo da parte le facezie e veniamo al dunque.
Il filosofo visse tra il 570 e il 496 a. C. e fu fondatore dell’omonima scuola che si colloca a metà strada tra la filosofia e la religione misterica (per intenderci: quella degli oracoli, delle pitie, delle orge rituali, etc. Insomma, cosucce così molto in voga al tempo). Una delle sue dottrine fondamentali, tanto per citarne una, fu quella della metempsicosi, ossia della trasmigrazione delle anime dopo la morte. Non vi ricorda nulla? Proprio nulla? A me sembra un concetto alquanto comune, anche per la nostra cultura.
Altra peculiare caratteristica della scuola fu il rigoroso ordine gerarchico in forza del quale nessuno poteva mettere in discussione l’autorità dei superiori, e di Pitagora in particolare. Da qui il detto ipse dixit, lui lo disse. Eppure si tramanda di un ex adepto che ebbe il coraggio, o la pavidezza – resta da stabilirlo – di divulgare presso i profani l’orrendo segreto proibito della scuola: la scoperta dei numeri irrazionali (cose del tipo: Ö2; Ö3; etc.)! E per questo, oltre ad essere bandito dalla setta, perì inghiottito dai flutti durante una tempesta! Ma a parte queste stranezze, la filosofia pitagorica è coerente con il suo tempo.
Ai pitagorici si deve certamente la creazione della matematica come scienza. Invece, la filosofia di Pitagora è diretta conseguenza della loro matematica. La tesi fondamentale è che il numero è la sostanza di tutte le cose (e non più come per i predecessori, un’origine lontana delle cose). Ciò significa che per i pitagorici il numero veniva considerato come un insieme di unità mentre quest’ultima era considerata identica al punto geometrico. In questo modo, affermare che tutte le cose sono fatte di numeri significa asserire che la vera natura del mondo, come delle singole cose, consiste in un ordinamento geometrico esprimibile (ossia: misurabile) in numeri. Idea rivoluzionaria per i tempi di Pitagora, ma gli antichi egizi ne sapevano già qualcosa quando, dopo ogni inondazione del Nilo dovevano ricomporre i confini territoriali e secoli dopo, ma solo dopo molti, Galilei espresse questa stessa idea nei termini di “lingua matematica con la quale è scritto il gran libro della natura” … o qualcosa del genere.
Se la sostanza delle cose è il numero, allora le opposizioni tra le cose si riducono alle opposizioni tra numeri. I numeri si distinguono in dispari e pari. Il primo è un’essenza limitata mentre i secondi sono un’essenza illimitata. A queste opposizioni, Piagora ne aggiunse altre: unità – molteplicità; destra – sinistra; maschio – femmina; quiete – movimento; retta – curva; luce – tenebra; bene – male; quadrato – rettangolo.
Il discorso potrebbe terminare qui, ma anca ancora un particolare curioso: la sacra figura di dieci punti! Sì, per i pitagorici il numero 10, considerato il numero perfetto, era rappresentato come un triangolo che ha il quattro per lato:

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E siccome questa rappresentazione lascia il tempo che trova, chi legge gradirà la seguente trasposizione (tratta da: A. Doxiaidis – H. Papadimitriou – A. Papadatos – A. Di Donna, Logicomix, Guanda, Milano, 2010, p. 227):


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