Quella che segue è una recensione pubblicata alcuni anni fa sulla rivista telematica "Dialegesthai" e che ripropongo in questa sede per la crucialità dell'argomento trattato.
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Recensione a Ermanno Bencivenga, La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede
Ermanno Bencivenga, La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede, Mondadori, Milano, 2009, € 17.00.
Il presente testo, che riprende alcuni spunti già trattati in Dio in gioco. Logica e sovversione in Anselmo d'Aosta, intende esaminare, e criticare di volta in volta, i vari tipi di ragionamento adoperati nelle dimostrazioni dell'esistenza di Dio.
Bencivenga ritiene che i vari autori prendano le mosse da un atteggiamento di fondo secondo il quale «Una persona religiosa è legata al suo Dio dalla fede, che spesso costituisce il fondamento esistenziale ed emotivo della sua vita» (p. 7). L'atteggiamento del fedele, cioè, consisterebbe in «un totale abbandono a un Altro dal quale ci si aspetta di ricevere la salvezza» (p. 7). Ma, come sovente la storia della filosofia, ha mostrato, esiste uno scarto, probabilmente incommensurabile, tra la fides e la ratio. Così, quel che appare «ragionevole» secondo la fede potrebbe non esserlo per la ragione; e, parimenti, quel che appare «razionale» secondo la ragione potrebbe non esserlo per la fede. Dei due possibili sentieri, dunque, che si aprono davanti agli uomini, quale sarebbe preferibile seguire? Ciascun uomo fa la sua scelta e la segue, più o meno, coerentemente. Il problema, però, è dato dalla necessità di trovare un accordo tra le due differenti strade, tra i due distinti modi d'intendere la realtà, l'insieme delle proprie esperienze. In molti hanno cercato di ovviare a tale difficoltà, dando seguito alla necessità, che si avverte, di superamento delladivisione, della composizione, perlomeno di principio, se non fattuale, dello iato. Secondo l'autore, però, anche questi tentativi sono andati incontro a difficoltà precise, spesso insormontabili. Scopo del presente testo è, infatti, quello di render conto di come la filosofia abbia cercato, a cavallo dei secoli, di comprendere la fede. Quest'ultima «mette in scacco la ragione, la contraddice» (p. 7). Tuttavia, «se la ragione non incontrasse mai la fede, non potrebbe esserne sconfitta; se ci fosse tra le due una pacifica divisione dei compiti, non avrebbe senso parlare di contraddizione e di scacco» (p. 7). Quest'ultima, infatti, permea qualsiasi fibra dell'essere umano, al punto che egli tenti «comunque di farsi una ragione di ogni sua esperienza» (p. 8). Proprio in quanto messa in questione dalle prove della fede, allora, la ragione dovrà sottoporre a vaglio critico, secondo i criteri e le regole che le competono, qualsiasi prova addotta dalla fede. In questo modo, non è possibile non stupirsi del numero impressionante di tentativi di provare le verità di fede, la «loro esistenza è sbalorditiva» (p. 9). La posizione di Bencivenga è chiarissima sin dall'inizio: egli non concede nulla, dal punto di vista razionale, ai risultati raggiunti dalle prove, e tuttavia mostra rispetto per l'intero significato espresso da simili tentativi. Scrive, infatti: «per quanto fallaci, le loro prove sono costruzioni ammirevoli» (p. 9). La ragione è semplice: «parlare di Dio, inoltre, li ha portati con naturalezza a interrogarsi sull'infinito, sulla struttura dell'universo, sui rapporti fra pensiero ed essere, sul fondamento della morale, cioè su tutti i temi cruciali della filosofia» (p. 9). In questo senso, appare corretto affermare come la vivacità, ed anche attualità, sotto una certa considerazione, delle prove per dimostrare l'esistenza di Dio siano una conseguenza dell'esigenza tutta umana di ancorare la propria vita ad un fondamento da cui possa irradiarsi il senso complessivo dell'essere, generale e speciale, singolo e universale, spirituale emateriale.
Sulla base di tali premesse, insieme antropologiche e psicologiche, complessivamente umane, l'umanità ha elaborato un insieme articolato di prove che possono, brevemente, essere raggruppate nell'elenco seguente:
(a) Prove a priori;
(b) Prove a posteriori.
Con il punto (a) dell'elenco, s'intendono tutte quelle argomentazioni le quali intendono derivare l'esistenza di Dio a partire da un concetto, o idea o nozione o definizione. Invece, con il punto (b) del medesimo elenco, s'intendono tutte quelle argomentazioni le quali intendono derivare l'esistenza di Dio a partire da esperienze empiricamente verificabili. In questo modo, le prove a priori nulla concedono all'esperienza umana, visto che intendono come continue realtà di pensiero e realtà di fatto, rispettivamente: pensiero ed essere. Le prove a posteriori, al contrario, poco o nulla concedono alla logica dei concetti, visto che mantengono separate teoria e realtà, consentendo di poter giungere, a partire da dati di esperienza, alla realtà divina.
Questa distinzione, però, non illumina le caratteristiche salienti dei due differenti tipi di prove. In questo modo, la si può benissimo sostituire con il presente elenco, comprensivo della suddetta distinzione la quale viene integrata con la presa in carico di ulteriori caratteristiche:
(i) Prove ontologiche;
(ii) Prove cosmologiche;
(iii) Prove teleologiche.
Con il punto (i), ci si riferisce all'insieme di argomentazioni a priori le quali intendono derivare l'esistenza fattuale di Dio a partire da un concetto o da un'idea o da una definizione data. Con il punto (ii), ci si riferisce all'insieme di argomentazioni a posteriori le quali intendono derivare l'esistenza fattuale di Dio a partire da un insieme ben preciso e ben articolato di esperienze. Infine, last but not least, con il punto (iii), ci si riferisce all'insieme di argomentazioni a posteriori le quali intendono derivare l'esistenza attuale di Dio a partire da un insieme di presupposizioni legate ad una meta finale cui tenderebbero tutte le umane esperienze (tèlos).
Bencivenga, dunque, intende render conto di come la filosofia possa recepire suddette prove, di come abbia cercato, nel corso dei secoli, di comprendere i sensi delle stesse e di cogliere l'esigenza antropologica sulla quale le stesse riposano. Ovviamente, essa ha fatto ciò a partire dalle sue esigenze e secondo le sue regole.
Vediamo, allora, come l'autore affronti partitamente le tre tipologie principali di prove dell'esistenza di Dio.
Il problema dal quale si dovrebbe partire è il seguente: è possibile dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio? Questa problematica è la radice dei differenti tipi di prove adoperate. Scrive Bencivenga: «la cui natura [di Dio] è per noi incomprensibile e ineffabile» (p. 12). Pur non avendone un'esperienza chiara e pregnante, davvero non se ne può sapere nulla? In genere, a tale ente si attribuiscono alcune proprietà precise, come p. e. la perfezione oppure l'immortalità, e così via. In altri termini, di Dio è possibile dare alcune definizioni. Ora, l'impresa audace, ed ardita, è proprio quella di derivarne logicamente l'esistenza prendendo le mosse da una sua definizione assunta a primitiva. La sua struttura elementare può essere condensata nella maniera seguente:
(1) Se Dio è perfetto, allora esiste;
(2) Ma Dio è perfetto;
(3) Dunque, Dio esiste.
Tale argomentazione di fondo, che presenta nel corso dei secoli molteplici varianti e diverse sfumature, forse per effetto delle presupposizioni metafisiche di fondo diverse nei vari autori, accomuna tutte le prove a priori in quanto appaiono dei tentativi di dimostrare l'esistenza oggettiva di Dio come effetto dell'assunzione di una sua definizione, o idea o nozione.
La stessa argomentazione, poi, descrive l'intera evoluzione della prova a priori da Anselmo d'Aosta, colui che per primo l'ha ideata, sino a Leibniz, passando per Cartesio. In realtà, la sua struttura reale è leggermente diversa dalle presentazioni disponibili e può essere espressa nella maniera seguente:
(x) Se Dio è perfetto, allora non può non esistere;
(xx) Ma Dio, in quanto tale, non può non essere perfetto;
(xxx) Dunque, Dio non può che esistere.
In questa presentazione, infatti, si mette in luce il carattere esigenziale alla base della formulazione ontologica: accettata una definizione di base della divinità, che Dio sia perfetto, se ne deve accettare una conseguenza derivata, in quanto l'essere perfetto non può che esistere.
I suoi critici hanno subito messo in questione non tanto, e non solo, l'arbitrarietà del passaggio dal pensieroall'essere, ma la medesima probabilità che consenta di includere all'interno della proprietà della perfezione la medesima esistenza. In altri termini, quel che la suddetta prova dimostrerebbe, non sarebbe il fatto che Dio esista attualmente, ma soltanto che potrebbe esistere, venendo a mancare alla sua intenzionalità esplicita. Inoltre, essa si fonda su una presupposizione metafisica che, difficilmente, i vari autori hanno messo in chiaro: che l'essere sia meglio del non essere; ossia, detto altrimenti, che esistere sia migliore, in termini ontici, del non esistere. Così, in tanto Dio è l'essere perfetto in quanto non può che esistere.
Scrive l'autore: «la posta in palio nella prova ontologica non è la coerenza del concetto di Dio ma l'esistenza di Dio. E, se qualcuno ci convince che, coerente o meno che sia quel concetto, la prova non potrà dimostrare l'esistenza di alcunché, l'intera operazione appare futile, ai credenti come agli atei» (p. 16). In effetti, «l'esistenza può essere applicata ad un concetto solo dall'esterno» (p. 16). Ma su questa limitazione s'inserisce la critica kantiana: «per stabilire se qualcosa esiste, devo prima sapere che cos'è; per cercare qualcosa, devo sapere che cosa sto cercando» (p. 17). Il concetto di Dio dirà, allora, cosa si sta cercando, ma resta comunque il compito improbo di associare un'esistenza reale a tale concetto. Cosicché, «concetti ed esistenza sembrano quindi eterogenei; sembra che l'esistenza possa valere per un concetto, ma non farne parte» (p. 17). Dunque, «se aggiungessimo «esistente» alla specificazione di un concetto, non staremmo davvero aggiungendovi nulla» (p. 17). Ciò vuol dire che le conclusioni (3) e (xxx) altro non dicono che questo: Dio esiste in quanto, concettualmente parlando, non può che esistere. Solo che tale esistenza è, e resta, un'esistenza meramente concettuale, ideale, non reale, non fattuale. È come se alla fine si esprimesse una mera tautologia: data la definizione di Dio quale essere perfetto, segue immancabilmente chedeve esistere. Si giunge, pertanto, al seguente risultato: esiste il concetto di Dio, ma nulla si sa se esista anche l'enteDio.
In questo modo, il tentativo di Anselmo non aggiunge nulla all'ontologia umana: il concetto di Dio esiste, altrimenti non sarebbe un concetto, ma esso non dice nulla sull'ente Dio, ammesso che esista. Per Bencivenga, quel «che Anselmo vorrebbe è una singola formula dalla quale esistenza e attributi divini seguano immediatamente, in cui per così dire li si possa cogliere con un singolo colpo d'occhio» (p. 19). La nota esigenza anselmiana, alla base del processo di approfondimento delle esigenze spirituali e culturali dopo la stesura del Monologion, espressa nell'opera successiva, il Proslogion, intende coniugare le opposte esigenze della certezza e dell'evidenza di ragione e fede in un unico argomento che fondi l'esistenza di Dio sulla base della sua stessa concezione teologica. Ragion per cui, la prova in oggetto assume la seguente consistenza:
(a) La nozione teologica di Dio è la seguente: Dio è l'essere perfetto;
(b) La perfezione di Dio si declina in termini ontici: Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore;
(c) Se in natura esistesse qualcosa di più grande di Dio, allora Egli non sarebbe l'essere perfetto;
(d) Ma Dio è l'essere perfetto;
(e) Dunque, Dio, perché l'essere perfetto, ossia l'ente più grande di tutti gli altri, reali e possibili, non può che esistere.
Com'è noto, e come, forse, è possibile anche notare, il «ragionamento di Anselmo procede per assurdo, cioè assumendo che Dio non esista [...] e derivandone una conclusione impossibile (o assurda)» (pp. 19 -- 20). La schematizzazione della precedente formulazione evidenzia proprio questo aspetto:
(i) Dio è W;
(ii) Essere W vuol dire godere della proprietà;
(iii) Se Dio non è W, allora non gli appartiene la proprietà;
(iv) Così, non può essere vero che Dio non sia W;
(v) Dunque, Dio non può che essere W;
(vi) Ergo, Dio è W.
La riduzione all'assurdo cui si fa cenno, consiste nel ridurre all'assurdo la posizione dell'insipiens, ossia di colui il quale afferma inopinatamente che Deus non est. Così, l'argomentazione anselmiana consiste nel prendere le mosse dalla posizione dell'insipiente, negare l'essere W a Dio, per mostrare come si giunga ad una contraddizione, il non appartenergli la proprietà, tale da dimostrare l'inconsistenza della stessa posizione dell'insipiente. E, indirettamente, dimostrare la propria posizione, ossia che Dio esiste, che Dio è W.
Ovviamente, si tratta di un tipo di ragionamento molto usuale, ad esempio, in matematica per la quale è vero che è impossibile, ossia assurdo, che due enunciati contraddittori siano entrambi veri. La qual cosa, da un certo punto di vista, sarebbe vera anche per il senso comune. Ma, nel rigore espressivo delle scienze questa presupposizione (cognitiva) della conoscenza, tale limitazione è molto forte, ed espressa in maniera compiuta come il divieto di attribuire a due proposizioni reciprocamente contraddittorie il medesimo valore di verità. Così, con le parole dell'autore: «poiché è impossibile che due enunciati contraddittori siano entrambi veri, l'ipotesi è ridotta all'assurdo e l'ipotesi opposta [...] risulta dimostrata» (p. 20). Pertanto, se si considera Dio come l'essere di cui non si può pensare nulla di più grande, risulta non possibile attribuire tale proprietà ad un altro ente, che dunque sarebbe più «grande». Nelle parole di Bencivenga: «Ciò di cui non si può pensare nulla di più grande non è tale che se ne possa pensare nulla di più grande» (p. 21). Sicché, «l'ipotesi che Dio non esista è ridotta all'assurdo e l'ipotesi opposta, che Dio esista, risulta dimostrata» (p. 21). Ma per l'autore, mentre in matematica due proposizioni possono davvero considerarsi contraddittorie, nel ragionamento anselmiano l'espressione presente, «Ciò di cui non si può pensare nulla di più grande non è tale che se ne possa pensare nulla di più grande», non può considerarsi appieno un esempio di contraddizione, e le sue conseguenze, dunque, non mettono capo all'autoconfutazione dell'ipotesi opposta, che Dio non esista. Infatti, in realtà, Anselmo confuterebbe soltanto il «Principio di autopredicazione» (p. 21). Dunque, la conclusione raggiunta non è affatto esente da difficoltà né tantomeno mette del tutto al riparo Dio dai suoi negatori. Celeberrimo, e giustamente, è l'esempio di Gaunilone. L'anziano monaco pone tre questioni ad Anselmo: (1) «abbiamo davvero bisogno di una dimostrazione dell'esistenza di Dio?» (p. 23); (2) «Che cosa ci aspettiamo di ottenere da una prova del genere?» (p. 23); (3) ci garantisce qualcosa dalla distinzione tra pensiero e realtà? La questione (1) conduce alla seguente conclusione: «Se l'ipotesi che Dio non esista si rivela non soltanto falsa ma assurda, allora l'ipotesi opposta, che Dio esista, dovrebbe essere del tutto ovvia e l'intero armamentario della prova anselmiana [...] è inutile» (p. 23). La seconda questione chiede, in fin dei conti: «se Dio è [...] incomprensibile e ineffabile, che cosa ci aspettiamo di capire su di lui mettendo insieme ragionamenti che comunque non potranno mai rivelarne la natura?» (pp. 23 -- 4). La risposta di Anselmo fu chiara: «non c'è bisogno di capire Dio, dice, basta capire le parole che usiamo nel parlarne» (p. 24). Il giudizio dell'autore è netto al riguardo: «se Dio è tanto ineffabile e incomprensibile al termine della prova quanto lo era all'inizio, che effettivo contributo dà la prova?» (p. 24). Certamente, tuttavia, la questione (3) è la più nota in quanto racchiude il nocciolo dell'obiezione fondamentale a qualsiasi argomento ontologico. Infatti, ammesso che la prova in questione funzioni, ne segue che, almeno in linea di principio, noi si sia in grado, allora, di costruire «con uguale successo, infinite prove analoghe per dimostrare l'esistenza di cose di cui sappiamo che non esistono; quindi l'ipotesi iniziale va respinta» (p. 25). Ragionando, in termini analoghi, con la cosiddetta isola felice non si può non far esperienza di qualcosa di strano nel ragionamento anselmiano. Infatti, deve esserci qualcosa di sbagliato «nel metodo dimostrativo usato nella prova ontologica» (p. 26). Non è possibile dire cosa esso sia, ma «tanto basterebbe per invalidare la prova» (p. 26). La risposta del monaco di Aosta è nota: «Dio è l'unico ente per cui possa valere questo tipo di prova» (p. 30). Ma Bencivenga insiste, riesumando la ben nota critica kantiana al presente discorso anselmiano. Dunque, prendendo atto dell'effettiva distinzione tra pensiero ed essere, è bene tener in conto che «pensare un oggetto sia una cosa e trovare quell'oggetto nel mondo reale sia un'altra cosa, molto diversa» (p. 32). In ciò risiederebbe, allora, l'errore presente nella derivazione di un reale da un essere: limitarsi a caratterizzare un concetto senza prendersi la briga di sapere se esista davvero.
Nelle parole di Bencivenga: «neppure l'esistenza con cui abbiamo caratterizzato un oggetto vale per quell'oggetto se questo non esiste; e per sapere che esiste non basta caratterizzarlo in un certo modo» (p. 36). Dunque, Anselmo avrebbe dovuto compiere «una ricognizione fra gli oggetti concepibili e quel che avrebbe dovuto verificare è che c'èfra essi un elemento massimale, non fra gli oggetti esistenti» (p. 37). Pertanto, la sfida di Anselmo resta aperta. Infatti, «una definizione è sempre e soltanto una scommessa, che sarà vinta solo quando si sarà trovato,fisicamente trovato, un oggetto che le corrisponde» (p. 39).
L'argomento ontologico non è certo l'unico tentativo di associare fides e ratio nell'obiettivo comune di comprendersi reciprocamente. Esso è, infatti, un tipo d'argomentazione a priori, ma la storia della filosofia presenta molteplici esempi di natura diversa, pur accomunati dal medesimo intento. Accanto alle cosiddette prove a priori, esistono anche delle prove a posteriori, le quali appaiono un po'più fondate delle sorelle a priori, ma presentano, comunque, delle difficoltà ulteriori.
Le prove a posteriori si basano sulla nozione di causalità: un evento X è causa di un evento Y nella misura in cui l'evento X precede cronologicamente l'evento Y che causa. L'evento X è chiamato causa di Y mentre l'evento Y è chiamato conseguenza di X. Quel che l'evento X fa è di configurarsi quale causa efficiente nei confronti dell'evento Y. Se l'evento Y si presenta sotto forma dinamica, ossia come un moto, l'evento X si presenta come la sua causa. Solo che anche X è un evento, ossia un movimento e deve, dunque, avere, a sua volta, una causa, ossia un altro evento, si ponga W, che lo ha causato. A sua volta, poi, anche W deve essere stato causato da un altro evento, ancora cronologicamente precedente a lui, e così via. Si giunge, così, ad un arresto nelle derivazioni causalistiche. Si deve, cioè, risalire ad una causa del movimento universale che sia, a sua volta, non mossa da altro, il che equivale a dire che: esiste una causa incausata da altro, ossia causa sui, che muove senza esser mossa. Senza, «il regresso alle cause sarebbe infinito, e ogni causa sarebbe [...] capace di trasmettere il movimento che ha ricevuto ma incapace digenerarlo» (p. 45). Tale primo motore immobile può benissimo chiamarsi Dio benché, ovviamente, è «un Dio molto filosofico e piuttosto diverso da quello personale» (p. 46) del cristianesimo. Ciononostante, la fisica aristotelica è diventata la base della filosofia tomista per la quale gli argomenti a posteriori apparivano più rigorosi di quelli a priori. Volendo schematizzare, si potrebbe anche far risalire questa distinzione a due origini differenti: mentre Anselmo si richiama ad Agostino, ossia al platonismo, Tommaso d'Aquino si richiama ad Aristotele. È il diverso ruolo in entrambi svolto dai due massimi autori antichi ad indirizzare nella specifica scelta di quale tipo di argomentazione adoperare per conseguire la finalità agognata: conciliare ragione e rivelazione.
Il ragionamento tomista, pertanto, dà luogo ad una prova cosmologica dell'esistenza di Dio: «l'esistenza di Dio non segue qui dal puro pensiero ma da un'altra esistenza» (p. 49). In realtà, a dispetto dell'impressione iniziale, e della correlativa fortuna storiografica incontrata nei secoli, per Bencivenga la prova cosmologica «ha ben poco di empirico» (p. 53). L'autore intende dire che il ricorso alla causa efficiente poteva andare bene per la fisica conosciuta al tempo di Aristotele, ma non si reggerebbe nel confronto con quella attuale. Tale causa iniziale è Dio? Come sostiene Bencivenga: «Ciò che la prova dimostrerebbe è che esiste una causa dell'universo, o di qualcosa nell'universo; e tale causa potrebbe essere molto diversa da ogni comune concezione di Dio» (p. 55). Parafrasando Pascal, si potrebbe dire che il confronto tra il sentimento religioso e l'esperienza concreta del singolo mette capo a «vertigini» nel momento in cui si osservano i silenzi degli spazi siderali. Questo riconduce alla difficoltà di fondo presente anche in Anselmo: l'ente di cui si parla è ciò di cui non si pensare nulla di maggiore, ed è causa dell'universo, ma è il Dio della tradizione religiosa? In merito non aiuta l'innatismo cartesiano in quanto non risolve una difficoltà ulteriore: «quale può essere la causa ultima dell'esistenza in me dell'idea di Dio?» (p. 58). Sembra, pertanto, che il bilancio finale per entrambe le prove sia estremamente infausto: (a) la prova ontologica, «se dimostrava qualcosa, poteva solo dimostrare l'esistenza di Dio» (p. 68); mentre, (b) la prova cosmologica se «pure dimostra qualcosa [...] non dimostra l'esistenza di Dio» (p. 68).
Consapevole di queste difficoltà, l'autore invita ad abbandonare il piano ideale e il piano limitato del moto degli enti, per volgersi al solo piano empirico, cercando di coglierne il senso complessivo.
Se le prove a priori sono, in genere, argomentazioni che si basano esclusivamente sulle nozioni possedute dai soggetti (sola ratione) e se le prove a posteriori sono, in genere, argomentazioni che si basano su connessioni empiriche tra fatti (nozione di causalità), ricercare il senso del cosmo in generale vuol dire produrre argomentazioni teleologiche le quali non concepiscono gli eventi nel loro essere causati da altro, ma gli eventi realizzantesi in vista di un fine ulteriore. Così, le prove tomiste hanno avuto successo in quanto pongono in evidenza il problema del significato da attribuire alle cose del cosmo. Ma, a loro volta, riposavano sulla domanda ontologica fondamentale da cui prendeva le mosse lo stesso Anselmo: «Perché c'è qualcosa piuttosto che niente?» (p. 72). Anzi, secondo l'autore, è proprio l'espressione di questa esigenza fondamentale a spiegare l'avvicinamento trateologi e filosofi, tra fede e ragione.
Il nocciolo delle argomentazioni teologiche è il seguente: tutto ciò che avviene è razionale nella misura in cui è «costituito nel modo più adeguato per realizzare certi scopi» (p. 74), e il tutto è «effetto di un piano a sua volta razionale» (p. 74). Per far ciò, però, ci si deve basare su ragionamenti analogici per i quali, cioè, esiste una stretta analogia tra gli enti di cui tratta. Nel caso della prova teleologica, tuttavia, questa «analogia è la più vaga possibile» (p. 78). In effetti, da un lato si hanno orologi e dall'altro l'intero universo: come poter pensare ad un'analogia stretta tra di essi? Anche perché si dovrebbe sapere dell'universo molto più di quanto, invece, se ne sappia. Come sostiene Bencivenga, «un ragionamento per analogia (che cioè usa l'analogia come strumento di deduzione) risulterà persuasivo nella misura in cui siamo persuasi della presenza dell'analogia, e con la prova teleologica tale presenza è assai incerta» (p. 79). Per poter pensare teleologicamente l'universo, sarebbe necessario disporre della certezza circa la sua razionalità, avendo a che fare con un piano superiore di ordine. Ma ciò non accade. Anzi, le scienze ci rammentano costantemente come l'apparente ordine percepito altro non sia che disordine e le leggi naturali, che ci sembra di poter cogliere nelle cose, non sono espressione di razionalità, ma, semmai, di casualità, frutto del libero, ed arbitrario, caso. Così, alla fine si rovescia lo stesso assunto alla base dell'esigenza di dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio: spiegare il senso delle cose. Ma se viene meno il concetto di causa, cosa resta a legare gli eventi tra loro? Nelle parole di Bencivenga: «La prova teleologica è basata su un'analogia, che si propone come preziosa risorsa ma si trasforma presto in una fonte d'imbarazzo» (p. 97). Esiste, anzi, una ragione antropologica in essa: «comprendere cose nuove e sconosciute alla luce di quanto ci è noto e familiare» (p. 97). L'analogia così altro non sarebbe che l'estremo tentativo, dopo quelli a priori e cosmologico, di passare dal noto all'ignoto, estendendo a quest'ultimo l'evidenza del primo. Ovvio, pertanto, che appaia adesso come un'illusione: ragionare in termini analoghi non garantisce la cogenza del procedimento. Dunque, per l'autore ogni tentativo compiuto nella direzione di dimostrare l'esistenza di Dio si conclude in uno scacco: dover ammettere il proprio fallimento. O, se si preferisce, la propria non conclusività.
La ricerca di una fondazione nell'esistenza divina, in altri termini, svolge la necessità di «spiegare qual è l'esigenza che Dio rappresenta per noi» (p. 98). Lo scarto della fede, rispetto alla ragione, richiede, pertanto, una diversa fondazione per la morale. E questa è la strada, normalmente seguita dai filosofi moderni, a cominciare dallo stesso Cartesio per giungere a Kant. D'altro canto, se Dio viene considerato la summa della moralità, il problema di dimostrarne l'esistenza è tutt'altro che marginale. Eppure, rimane sempre la difficoltà, peraltro evidenziata nel corso del presente volume, di escogitare un argomento razionale davvero probante. Il sottofondo antropologico di tale procedere è il seguente: verificare che esista una «realtà assoluta» (p. 105) da cui derivano le massime per l'azione umana. Affascinante sarebbe, a questo punto, dimostrare l'esistenza di Dio facendo appello ad una sorta di prova morale:
(i) La morale non può ridursi a pure impressioni soggettive;
(ii) Nessuna spiegazione dell'oggettività della morale è tanto plausibile quanto quella basata sull'esistenza e sul volere di Dio;
(iii) Quindi, Dio esiste.
Oppure, anche:
(j) A ogni violazione dei comandi morali devono corrispondere sanzioni appropriate;
(k) Nessun ente che non sia Dio ha poteri e volontà sufficienti per osservare ogni violazione dei comandi morali e amministrare le sanzioni appropriate;
(l) Quindi, Dio esiste.
Si tratta di prove cogenti? Sostiene Bencivenga: «La cogenza di prove simili dipende in modo essenziale dalla ragionevolezza della seconda premessa» (p. 106). Dio potrebbe essere considerato il fondamento della morale in quanto garante dell'oggettività morale. Difficile appare, a questo punto, trovare un altro candidato a tale ruolo. In questo modo, «Quando agisce in modo razionale, l'essere razionale che è l'uomo è tanto autonomo quanto lo sarebbe Dio: quel che fa esprime la sua natura» (p. 115). Analogamente, «Come Dio, allora, l'uomo, se e in quanto è autonomo, è libero: non perché può fare altrimenti, ma perché in quel che fa è autore della sua legge» (p. 115). Dunque, un essere umano «è libero solo quando è razionale» (p. 116). Come per Kant, allora, la razionalità «coincide con la moralità» (p. 116). Ciò, però, conduce molto oltre alla nozione di Dio tanto cara ad Anselmo, Tommaso et alii. Infatti, per l'autore, al termine dello sviluppo moderno dei rapporti tra fides e ratio, Dio non è più l'Ente trascendente divino, ma il simbolo stesso della razionalità umana. Così, l'autore può concludere affermando che «quel che la ragione stava cercando, nei meandri di tali speculazioni, era se stessa» (p. 125).
Copyright © 2009 Alessandro Pizzo
Alessandro Pizzo. «Recensione a Ermanno Bencivenga, La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 11 (2009) [inserito il 20 dicembre 2009], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [31 KB], ISSN 1128-5478.
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