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mercoledì 22 ottobre 2014

Insegnanti di sostegno: buoni o cattivi!






(tratto da: P. Blum, Sopravvivere nelle classi difficili. Manuale per gli insegnanti Erickson, Trento, 2012, p. 60)

In attesa della sognata, oltre che campata per aria, evoluzione del docente di sostegno, come tutto quel che è borderline, nell'indistinta terra di mezzo, il docente di sostegno assume connotazioni ambivalenti: o "eroe" o "parassita". 


La verità, come spesso accade, sta nel mezzo: il docente di sostegno è una risorsa preziosa per la classe intera nella misura in cui è un elemento attivo che condivide con l'intero consiglio uno stesso progetto educativo con annesse prassi comuni di azione pedagogica e/o didattiche.


Se, invece, come più spesso accade, viene percepito dai colleghi curriculari alla stregua di un bodyguard o di un braccio (non)armato per sé oppure, peggio ancora, come una figura grigia cui delegare il proprio lavoro o l'onere educativo del proprio ruolo, allora - apriti cielo - cominciano i guai.


E lo stesso docente sarà "buono" se, e solo se, asseconderà, più supinamente possibile, i desiderata dei colleghi; sarà "cattivo" se, e solo se, inopinatamente si rifiuterà di assecondare i desiderata dei colleghi.


In entrambi i casi, però, lui stesso svolgerà un pessimo servizio pubblico dal momento che verrà meno alla sua stessa funzione, vale a dire alla regia discreta dei processi di integrazione delle risorse umane interne al gruppo classe, le quali, per definizione, includono non solamente gli utenti del servizio scolastico, ossia gli alunni, ma anche, e per loro giocoforza, i corrispettivi operatori, ossia gli stessi colleghi curriculari.

Rovesciamo, allora, la frittata e chiediamoci: quando sono "buoni" o "cattivi" i docenti curriculari?

venerdì 12 settembre 2014

L'arte di insegnare ...

Più riguardo a L'arte di insegnare

Il testo di Isabella Milani, pseudonimo di un’insegnante, dal titolo L’arte di insegnare. Consigli pratici per gli insegnanti di oggi, è interessante sotto molti punti di vista, in modo particolare per la tipologia di lavoro che svolgo, nei suoi alti come nei suoi bassi. Vista la sua mole, però, dovrò limitarmi a prenderne in esame solamente alcuni punti.



In primo luogo, un docente dovrebbe sapere che gli alunni in genere, e soprattutto quelli “difficili”, ci vedono come ci vediamo noi, vale a dire che «comunichiamo loro l’idea che abbiamo di noi stessi» (p. 21). Di conseguenza, avere una bassa autostima, ad esempio, esercita una profonda influenza negativa circa il nostro ruolo di insegnanti. Un insegnante con le idee confuse circa il proprio ruolo non saprà mai gestire in maniera efficace una classe. Non si dovrebbe mai farsi mancare di rispetto, così come dovrebbe esservi rispetto reciproco. Infine, un docente non dovrebbe mai fare l’«amicone», altrimenti salterebbe del tutto l’asimmetria del rapporto educativo.



Un altro elemento importante, da tenere in altissima considerazione, è la composizione del gruppo classe, vale a dire la complessità delle dinamiche interne alla stessa. Di conseguenza, ciascuna classe è diversa, non ne esistono due uguali. Ne deriva, ovviamente, che strategie efficaci in una classe possono non andare bene in altre. Gli alunni presi a solo sono diversi da come si presentano calati all’interno di un gruppo classe. Pur essendo tutti diversi, però, gli alunni sono simili, vale a dire che rientrano in determinate categorie o insiemi di categorie (p. 38). A ciascuna categoria corrisponde una tipologia di alunno, dal timido al demotivato, dal prevenuto al simpaticone, passando per i DSA, l’alunno straniero e l’alunno diversamente abile. L’estrema eterogeneità nel processo di composizione della classe si riverbera sull’estrema complessità delle dinamiche relazionali interne al gruppo classe In genere, però, se si riesce a gestire gli alunni “difficili” la difficoltà nel tenere la classe diminuisce in maniera considerevole. Il problema, infatti, è riuscire, pur nei numeri elevati, si parla di almeno trenta alunni per classe, ad instaurare un rapporto personale e diretto con ciascuno (p. 44).  Almeno ciò sarebbe quel che andrebbe fatto, ma non è possibile. Pertanto, la cosa migliore è dimostrare simpatia e reale interesse per ogni alunno.



Importante è anche la prima entrata in classe, in quel preciso istante si decidono i destini dell’anno scolastico. Infatti, bisogna dare l’impressione «di essere la persona che loro si aspettano come insegnante» (p. 49), preparata, che sa il fatto suo, che li capirà, che sarà divertente, che sarà giusta. L’entrata in classe per la prima volta è il momento durante il quale «si stabiliscono i ruoli» (p. 54) e nulla può essere lasciato al caso. Al contrario, bisogna avere tutta la classe sotto controllo, comunicare serenità e calma nell’imporre le regole del rapporto, sempre evitando che si manchi di rispetto. Bisogna, così, stabilire regole chiare e certe, pretendere un comportamento corretto ed evitare di generare l’impressione di essere aggressivi.



Un problema, sovente ignorato nella concreta pratica didattica, è la conoscenza del linguaggio del corpo. Infatti, se la voce è lo strumento principale della relazione con la classe, non si dovrebbe mai dimenticare che comunichiamo anche con il nostro corpo ed eventuali incoerenze tra quanto detto a voce e quanto espresso tramite il corpo abilita comportamenti scorretti da parte degli alunni. Se gli alunni capiscono quel che pensiamo di noi stessi, anche noi dovremmo essere capaci della stessa cosa ed anticipare i loro movimenti o le loro intenzioni. Se comunichiamo loro come ci sentiamo o ci vediamo, bisogna allora prestare la massima cura alla nostra immagine, dimostrando sempre tranquillità, fermezza, autorevolezza. Dunque, se al contrario, si hanno difficoltà con le classi, bisogna studiare la genesi di tale rapporto, come mai si è arrivati a questo esito, cosa non ha funzionato e ingegnarsi su come risolvere la situazione, ricercando quali correttivi siano possibili, come migliorare il proprio portamento o il proprio ruolo in cattedra.



Un insegnante capace è colui che appare come una guida, vale a dire una figura «che insegna e aiuta a crescere» (p. 101), in una progressiva costruzione di autorevolezza che si costruisce ogni giorno, anche perché sono gli alunni che danno autorità o, meglio, autorevolezza. La disciplina non si ottiene con la paura o con la promessa di ritorsioni, ma con la ferma imposizione di un ruolo docente chiaro e giusto. Anche perché gli alunni di oggi sono, per lo più, alunni educati male e vivono contesti di povertà educativa e culturale. Di conseguenza, se l’educazione non viene loro impartita almeno a scuola, dove altro possono incontrarla? Spesso, però, se scambiano la scuola per la pubblica piazza, la colpa è nostra, come classe docenti, e non loro. In tal caso, «non diamo la colpa ai ragazzi» (p. 115).


Spesso dimentichiamo anche, colpevolmente, che a scuola non si insegnano solamente contenuti, e che, invece, dovremmo insegnare loro un metodo di studio, quel che serve loro per «studiare in autonomia» (p. 118). La lezione, dunque, dovrebbe essere partecipata, costruita mediante la partecipazione attiva da parte degli alunni, i quali, quindi, vanno coinvolti, e non un’enorme quanto noiosa esposizione ad un megafono. I docenti dovrebbero essere «convincenti, interessanti e autorevoli» (p. 123). Altrimenti, si pretende forse che gli alunni studino senza merito da parte nostra? Senza impegno da parte nostra? Senza motivazione al compito da parte nostra? Rispetto alle aule di oggi, è solo nostalgia di un passato mitico, probabilmente mai verificatosi.



In ogni caso, i docenti devono mettersi in discussione e analizzare bene le proprie pratiche educative e didattiche. Al riguardo, è interessante il paragrafo dedicato alla motivazione degli studenti. Cosa si può fare per motivarli allo studio? La motivazione non è innata, ma va attivata e potenziata da parte del docente che ha chiaro in mente cosa vuole fare e cosa desidera ottenere dai suoi alunni, che combatte la noia, che non perde mai il controllo dell’attenzione della classe e che riesce a mostrare ai propri alunni come si studia e che chi non sa non riesce a scegliere.



Trovo illuminante il capitolo sulla disciplina ove l’autrice sfata il mito della diseducazione dei giovani alunni. Talvolta, a dire il vero piuttosto spesso, «ci sono colpe che i ragazzi non hanno» (p. 188). I ragazzi maleducati sono stati, molto più semplicemente, «educati male» (p. 189), e a nulla serve sperare che un giorno i ragazzi male educati scompaiono dalla circolazione. Semplicemente, non avverrà e classi con alunni simili vanno gestite, nonostante tutto. Come? Milani propone una road map fatta di alcuni passaggi fondamentali, In primo luogo, la lezione vera e propria non può cominciare se non si è gestita la classe e non si è ottenuto silenzio. Se la classe non ascolta, a cosa serve cominciare la lezione? Se l’attenzione non è attiva e rivolta al docente, a cosa serve tenere una lezione destinata a scivolare via? L’attenzione dovrebbe essere massima anche durante l’interrogazione alla quale, di buona norma, dovrebbe partecipare tutta la classe e non solamente i diretti interessati. Nel caso di classi difficili, poi, ci sono alcuni passi da compiere, sia prima di conoscerla davvero (informandosi con i colleghi e leggendo la presentazione della classe stilata dagli insegnanti che l’hanno avuta in precedenza) sia pianificando nel dettaglio il primo incontro con la classe. A questo punto, l’autrice stila un elenco di possibili situazioni concrete di classe difficile, suggerendo anche cosa fare, quali azioni compiere, quali strategie mettere in campo, sempre al fine di ristabilire i ruoli e l’autorevolezza. Bisogna saperla gestire, guadagnarsi la loro fiducia, resistere, modificare le nostre pratiche, aiutare i ragazzi svantaggiati, interessarci loro, a come vedono e vivono la scuola, ma, in ogni caso, non bisogna «tollerare comportamenti irrispettosi» (p. 203), nemmeno la minima «mancanza di rispetto» (p. 203). Allora, bisogna addestrare la propria mimica facciale, il tono vocale, ad avere le idee chiare su cosa fare e come. I docenti devono sapere che se un alunno «si comporta così, la colpa è anche nostra» (p. 207). La scuola deve sempre «recuperare e rieducare» (p. 207). Le punizioni, in genere, servono a poco, quasi sempre a incrudelire il rapporto. Invece, se «si riesce ad avere un buon rapporto con la classe e con gli alunni, non c’è bisogno di provvedimenti disciplinari» (p. 228).


L’ultimo capitolo è dedicato al rapporto con gli adulti, sia tra colleghi sia con il personale ATA sia con i genitori dei nostri alunni.




Si tratta di un volume che presenta una serie di suggerimenti pratici in vista di situazioni concrete e reali, a differenza, ad esempio, delle situazioni idilliache ma irreali della teoria pedagogica e/o didattica accademiche. Non un manuale di sopravvivenza nelle classi complesse di oggi, ma qualcosa che vi si avvicina e che mette in chiaro i difetti del ruolo docente ma anche cosa si potrebbe fare per invertire la china e per ribadire la centralità della scuola nella formazione ed educazione dei nostri giovani male educati e soverchiati da moltissimi modelli negativi enfatizzati dai social e mass media.


mercoledì 10 settembre 2014

Vademecum per un insegnante efficace

Gira sui social media la seguente immagine, graziosa in sé, per carità, su quali pratiche e quali comportamenti un docente dovrebbe assumere, sia in pubblico che in privato, per risultare alla fine un insegnante efficace. 


Un elenco, a suo modo "sintetico", di buone prassi capaci, forse di per sé sole, di rendere un insegnante un bravo insegnante, vale a dire un insegnante efficace, o, com'è facile e in voga dire oggi in Italia, meritevole.
Bene, quali sono questi 27 modi additati? Elenchiamoli di seguito:

1. Crea una prospettiva globale;
2. Incoraggia gli studenti a porre domande;
3. Non mascherare o coprire i dubbi degli studenti;
4. Garantisci agli studenti tutti gli strumenti per il loro successo;
5. Dormi sano e riposa bene;
6. Segui una dieta sana;
7. Non alzare la voce, keep the calm;
8. Supporta gli studenti a lungo;
9. Cresci assieme alla classe;
10. Keep the network con i migliori insegnanti;
11. Mantieni i contatti con le famiglie;
12. Informati sulle migliori strategie di insegnamento;
13. Garantisci sicurezza con le tue lezioni;
14. Mantieni alto il tuo livello di energia;
15. Scopri i talenti di ciascun alunno e coltivali;
16. Indaga sulle nuove scoperte con la classe;
17. Integra con la musica all'interno della classe;
18. Sfida i tuoi studenti un po' oltre le loro capacità;
19. Incoraggia l'esternazione del pensiero;
20. Consenti ai tuoi alunni di esprimersi con l'arte;
21. Lascia che gli alunni cancellino 'ieri' con un pulito e nuovo 'oggi';
22. Integra con i social media;
23. Premia i grandi tentativi;
24. Sperimenta con gli alunni;
25. Scarica una lezione per svolgere attività di gruppo;
26. Chatta in ambienti sicuri con gli alunni;
27. Consenti l'apprendimento tra pari.

Bene, cosa possiamo dire a questo punto dopo aver scorso l'elenco di ben 27 modi di insegnamento efficace? La prima impressione è che sia un elenco di desiderata scritto non da docenti o educatori, ma dagli alunni stessi. Infatti, se i modi (1) - (3), (11), (16), (18), (19), (21), (23) sono modalità già realizzate normalmente dal docente in classe, curiosi appaiono i modi (5) - (7) i quali entrano nella vita privata del docente pretendendo di dire cosa il docente dovrebbe fare a casa nel suo tempo libero. Piuttosto, eversivi appaiono, invece, i modi (4) - (9) in quanto sottomettono la funzione stessa dell'insegnante ai bisogni non formativi degli alunni, giustapponendo sullo stesso piano il docente e gli alunni, come se l'apprendimento e/o l'educazione non si collocassero, all'esatto opposto, su posizioni differenti. Il docente non è il compagnone o l'amicone o l'adolescente troppo cresciuto della classe, è un adulto investito di una precisa responsabilità, avere cura dei minori a lui affidati, e una precisa funzione, guidare nei processi formativi. Il rapporto tra il docente e la classe non è mai paritario, per definizione non può esserlo, è decisamente asimettrico, altrimenti non è più un rapporto formale e formativo, ma informale e "da passatempo".

Ma c'è di più. Infatti, i modi (10) - (14) esprimono critiche abilmente dissimulate allo stereotipo del professore: autoreferenziale; spocchioso; non disponibile al dialogo; arretrato; debole. Un insegnante da libro cuore, cioè, non i leoni oggi in cattedra. Forse anche per questo tanto invisi agli alunni, in quanto allergici alla loro omologazione a parti "cresciutelle" della classe.

Il modo (15) mi appare pleonastico, ma la sua elencazione esplicita mi dà da pensare. Forse, l'estensore di questi modi teme o pensa che il docente non faccia normalmente ciò? Delle due l'una: o è in mala fide o desidera un impossibile non meglio specificato.

I modi (17), (20) e (22) sono addirittura comici dal momento che prefigurano un idealtipo di docente che dovrebbe non utilizzare altri strumenti per meglio entrare in sintonia con i propri alunni, ma utilizzare questi ultimi tout court, come se l'insegnante efficace fosse quello che rappeggia in classe o che chatta con i social network o che accetta ed apprezza qualsiasi tentativo artistico dei propri alunni. Dov'è il fatto educativo in tutto ciò? Semplice, a mio modesto avviso, non c'è, e non può esserci perché questi modi rispondono al medesimo sogno proibito dell'alunno medio, vale a dire un docente meno docente e più immaturo, una figura meno adulta e più "spassosa", un educatore meno rompi e più "scialo". Noi non dobbiamo affatto abolire la distanza generazionale, anche perché non è nostro compito, peraltro nemmeno auspicabile, ma dobbiamo farcene carico in un'ottica di gestione degli effettivi bisogni formativi degli alunni. Solo all'interno di questa cornice, si potrebbe pensare ad un'integrazione complementare che integri i modi (17) e (22). Ed anche il modo (26).

I modi (24), (25) e (27) mi paiono mere repliche di attese espresse in precedenza sotto altra forma, e che rispecchiano appieno, oltre il più ragionevole dubbio, la mano adolescente che si cela dietro, e che vagheggia un superamento mitico, oltre che onirico, dello stesso fatto educativo.


Se poi mi sbaglio, ed è una mano adulta, le pongo le seguenti questioni:

1) come mai l'immagine di insegnante destinatario di questo elenco di 27 modi di insegnamento efficace è stereotipata oltre che fortemente monistica?
2) come mai questo elenco di 27 modi di insegnamento efficace dimentica colpevolmente la natura duale del rapporto d'insegnamento? Non basta, a mio modesto modo di vedere, e sulla base della mia seppur breve e fragile esperienza, mettere in campo da una sola parte uno soltanto o tutti assieme dei 27 modi qui elencati. Se la classe, fatta di alunni e insieme complesso di precise relazioni interpersonali, è refrattaria o demotivata o insensibile o estranea o interessata ad altro, l'insegnamento non sarà mai efficace.
3) perché l'insegnante deve essere efficace mentre l'alunno può restare quello che è? E non essere, a sua volta, un buon alunno? Un alunno educato? Uno studente efficace? Purtroppo, nel nostro Regno si dimentica con troppa facilità che gli studenti non sono tutti uguali e che la maggior parte è del tutto estranea alla formazione/educazione. Una classe di maleducati non sarà mai una classe di studenti efficaci. O una classe difficile non consentirà mai ad un insegnante di mettere in campo uno solo dei 27 modi qui indicati. Nemmeno quelli che spudoratamente pretendono di dire cosa l'insegnante deve mangiare o fare nel suo tempo libero. Anche l'alunno dovrebbe dormire e mangiare bene. Ah, questo non si può dire? E allora come mai si trascura bellamente il fatto che quello dell'insegnante è solamente un lavoro, beninteso bellissimo e nobilissimo, ma pur sempre un mestiere, e mai l'unica ragione di vita dei diretti interessati? E, invece, si continua a perpetuare la visione collettiva di questo lavoro come mission, vale a dire come professionalità povera ma che non termina mai, nemmeno quando la campanella segna la fine delle lezioni, anche a casa, anche a letto, anche quando per quelle ore non si è malamente retribuiti? Perché? Sarebbe bello, oltre che utopico, o distopico, rispondere a questa domanda.

Dopo aver letto questo elenco, mi rendo conto di quanti danni abbia fatto alla scuola Robin Williams, o il suo personaggio ne L'attimo fuggente. Il docente non è il compagno di classe degli alunni, se lo è siamo di fronte al fallimento professionale oltre che umano di quest'ultimo. 


Ai colleghi dico solo questo: resistiamo! Resistiamo! Resistiamo! Resistiamo! 


Anche a costo che ci tirino addosso gli zaini, le sedie o i banchi, anche a costo di finire al pronto soccorso ed essere considerati dei "bugiardi" dagli stessi responsabili, anche a costo di non essere ben visti dal dirigente, impegnato a far vedere quanto è bravo lui a dirigere sulla base dell'aumento delle iscrizioni (e che qualità s'iscrive!!!), e che ti dice "ma lei ha sbagliato! Doveva prevedere e prevenire la reazione!", anche a costo di non essere creduti dai colleghi, anche a costo di andare all'INAIL per espletare le pratiche di infortunio sul lavoro.

Resistere! Resistere! Resistere!

Sarebbe bello se al posto di asettiche e burocratiche linee guida, un ministro scendesse per un attimo, per un'ora, per una volta soltanto, in trincea, a toccare con mano di quante lacrime, sudore e sangue consta la nostra professione, inefficace il più delle volte perché l'utenza è quella che è, perché inefficace è appunto l'utenza, perché impossibile sovente è l'aria che si respira in classe. 


Lo so, non accadrà mai, altrimenti la politica dei tagli lineari non sarebbe più possibile, dato che, all'esatto contrario, bisognerebbe investire di più, molto di più, nella scuola, e nel personale, ma è comunque bello lasciarsi cullare da questo sogno!

E allora: resistiamo! Resistiamo! Resistiamo!