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mercoledì 7 agosto 2013

Paralipomena a "Prodotti culturali" ...


(immagine tratta da: http://img2.libreriauniversitaria.it/BIT/240/892/9788870188929.jpg)

Dopo una seria reprimenda ed uno scrupoloso e conseguente esame di coscienza, credo di dover rettificare la recensione al volume presente nella maniera che segue:

Il presente volume intende presentarsi come “contro-altare” al Manifesto di Maurizio Ferraris, discutendo il “basso” profilo filosofico scelto ed indicando alcune delle gravi conseguenze, etiche e politiche, che fanno seguito all'appello alla realtà. L'intento appare chiaro sin dalle prime pagine ove Di Cesare accusa direttamente Ferraris di essersi creato un brand, ossia un “marchio” (p. 9), di aver cioé inventato di sana pianta, e a tavolino, l'operazione “nuovo realismo” al fine di “emergere nel panorama complessivo e frastalgiato della filosofia contemporanea” (p. 9). Sempre Di Cesare indica una caratteristica precisa dell'etichetta scelta dal Ferraris, “un prodotto tutto nostrano” (p. 9), ossia la tristemente nota proprietà della provincialità. Da nessun'altra parte del mondo, infatti, si parlerebbe, benché io abbia notizie di segno contrario, di new realism. Questa notazione consente alla Di Cesare per insinuare, a mio modesto modo di vedere, sapientemente il dubbio: se altrove si parla d'altro, di tutto tranne che di “nuovo realismo”, può essere solo un caso? Sfrondando il lessico allusivo dell'autrice del primo saggio del presente volume, sembra d'intuire come si stia cercando di far passare il seguente messaggio: il nuovo realismo è ben poca cosa. D'altra parte, come spiegarsi altrimenti tale marginalità alle discussioni internazionali tra philosophes? Il Nuovo realismo va “preso sul serio – non come filosofia, bensì come antifilosofia” (p. 13), come uno strumento che avvicina tanto grossolanamente quanto malamente il vasto pubblico alla filosofia, ma che evita di scendere in profondità nelle discussioni. Per l'autrice questo elemento è rivelativo. Il suo pubblico, infatti, è fatto di gente che ha “difficoltà con i testi dei filosofi” (p. 13) al quale offre “poche pagine, pochi pensieri” (p. 13) ma anche grandi “certezze” (p. 13). Cosa offre, dunque, Ferraris al grande pubblico, digiuno e allergico all'astrattezza filosofica? Per Di Cesare “a poco prezzo, realtà e verità” (p. 13). Detto altrimenti, non richiede sforzi e ricompensa con il richiamo a due sole certezze, sempre promesse mai mantenute, si premura di precisare per inciso l'autrice presente. Questo perché il nuovo realista “non dialoga con il pubblico dei suoi lettori, trattati piuttosto come spettatori il cui ruolo è limitato al plauso” (p. 14). In un mondo sempre più provvisorio ed ansiogeno, il nuovo realista, alla stregua di un qualunque altro populista, strappa applausi da un pubblico poco esigente e superficiale cui importano esclusivamente appigli saldi e certezze. Così Ferraris urla a squarciagola “Bentornata realtà!” e di conseguenza “l'intento populistico è raggiunto, il plauso assicurato” (p. 14). A fronte delle inquietudine che si sommano ed aumentano esponenzialmente, il nuovo realismo “intercetta il bisogno di certezze” (p. 14), e piuttosto di sottoporre a critica la testimonianza dell'esperienza, difende quest'ultima occultadola sotto la coltre impenetrabile della realtà. Questo perché Ferraris imporrebbe una sostanziale “sudditanza alla realtà” (p. 20), mostrando così il suo volto reazionario: non distinguere “tra illusione e immaginazione” (p. 21). D'altra parte, “cerca di inchiodare l'avversario al fatto” (p. 23), “mitizza il reale” (p. 23), facendone un idolo e “dietro questa idolatria si trincera facendone il suo baluardo” (p. 23). Ecco che negando qualsiasi possibilità al dialogo, Ferraris “non ha nulla di filosofico” (p. 24). Quali sono allora le conseguenze pratiche del nuovo realismo? La risposta è agile e succinta: le sue fantasticherie sviano “dai temi urgenti” (p. 24), “distraggono dalle grandi questioni filosofiche, etiche, politiche” (p. 24).
Il secondo saggio, a firma di Fabio Milazzo. Dopo una rapida difesa delle esigenze genealogiche del postmodernismo, vilipeso dal Manifesto di Ferraris, l'autore presente sostiene come il fondatore del nuovo realismo si lasci sfuggire la concretezza dei temi e degli autori contro i quali polemizza. In realtà, infatti, il postmodernismo, che fa da sfondo polemico al Manifesto è una “maschera carnevalesca” (p. 29), “una sorta di bufala” (p. 29), peraltro costruita “a tavolino” (p. 29). Il tono di Milazzo è severo e non parco di giudizi taglienti. Non pago, aggiunge come “solo la reificazione del postmoderno in qualcosa di più che una semplice presa di distanza dalle esaltazioni del razionalismo moderno, fa sentire il bisogno di rinnovate e ingenue forme di doxa” (p. 30). L'appello all'esperienza viene inteso come un appello alla scienza laddove, al contrario, correttamente si dovrebbe riconoscere, e senza difficoltà, che “ci sono sicuramente fatti, ma ci sono soprattutto le interpretazioni” (p. 31). Milazzo sembra identificare nelle pagine del Manifesto, ossia nella visione propria del Ferraris, “il riconoscimento della verità nella forma unica della teoria della corrispondenza” (p. 31). Si tratta di un riferimento generico e vago, a volerla dire tutta. L'autore presente si sforza anche di decostruire l'esempio della ciabbatta, addotto dal Ferraris per spiegare la sua nozione di inemendabilità del reale, al fine di ricostruire due dei caratteri che ritiene di poter desumere dalla visione di Ferraris: 1) attenzione per il mondo esterno, indipendentemente dagli schemi conoscitivi del soggetto conoscente; e, 2) la coincidenza tra realismo ed ontologia. Senza alcuna possibilità di riscontro oggettivo nel testo, si dice succintamente che il realismo di Ferraris equivale ad un'ontologia. Si tratta di un'interpretazione che, a certe condizioni, potrebbe starci. Ma in questo passaggio è vaga. Infatti, sarebbe lecito chiedersi: quale esattamente? Milazzo non lo dice, propendendo per una sua sola versione. L'autore sostiene, infatti, che l'ontologia consista nel predisporre “un catalogo universale di tutti gli enti esistenti” (p. 32). Ritengo che l'autore intenda ribaltare la distinzione realista tra fatti e interpretazioni, e mostrare come queste ultime, sia pure messe alla porta, rientrino di straforo dalla finestra. Infatti, si distingue, e, quindi, s'include o si esclude, tra enti solo dopo aver proceduto ad interpretare la conoscenza conseguita. Questo basterebbe di per sé a screditare il discorso realista, ma Milazzo non si ferma certo qui. Pertanto, si prodiga nel mostrare come dietro ad ogni nostra conoscenza vi sia un apparato potente di valutazione che partecipa attivamente al medesimo processo conoscitivo. Ragion per cui, non vi sarebbe più alcuna conoscenza. Il mondo, pertanto, non va assunto com'è, ma bisogna indagnarne “le condizioni di esistenza, le esigenze inconsce a cui rispondono” (p. 39). Più che di verità cosale, l'autore in questione ritiene che i fatti siano tali “alla luce di una certa interpretazione prospettica” (p. 39). La ciabatta di Ferraris è così solo un'oscena fantasia ingenua, effetto di “un'illusione costituente, di una retroprioezione paradossale, di una ricerca sempre fallita” (p. 40). In soldoni, una follia consistente “nella presunzione che questa immagine dogmatica sia quella della sostanza “ciabatta”, quella naturale” (p. 40). A questo punto, l'autore conclude il suo saggio additando, a suo modesto modo di vedere, le conseguenze pratiche del new realism: “un delirio totalitario che si serve di una pericolosa alleanza, quella tra il senso comune e una presunta natura retta del pensiero” (p. 40).
Il terzo autore del volume, Laura Cervellione, intende smascherare Ferraris, mostrando come sotto la maschera del neorealista si nasconda il “caro vecchio pragmatista” (p. 41). Anche nel caso presente, si fornisce un'immagine icastica della filosofia neorealista, e, segnatamente, del Ferraris dopo la Kehre. Così, dovendo condensare in uno slogan efficace, l'autrice definisce il neorealismo “una filosofia Polaroid” (p. 42). Detto in breve, Ferraris metterebbe in scena una filosofia delle istantanee in forza delle quali, ma in realtà con un canone occulto, distinguere tra quanto è reale e quanto no. Per Cervellione, par di capire, il nuovo realismo è una filosofia vintage, che ripropone idee e concetti “vecchi”. Così, individua tre differenti, ma non anche irrelati, ritorni al passato: 1) “il vecchio corrispondentismo di tomistica memoria” (p. 43); 2) “la riabilitazione dell'esperienza” (p. 43); e, dulcis in fundo, 3) Cartesio, e cartesianesimi di varia natura. Sul primo elemento, penso che tutti gli autori collettanei presenti abbiano omologato il richiamo alla realtà, inteso anche come assunzione di responsabilità veridica per i propri pensieri, le proprie esperienze ed anche le proprie enunciazioni, all'adeguazione tomista. In che termini, poi, quest'ultima venga riportata esattamente, non è dato sapere. L'elemento (2), invece, è più interessante perché consente a Cervellione di cogliere una contraddizione in Ferraris: la correzione della percezione ha luogo se, e solo se, “sono inserite in un assetto teorico” (p. 43). Al riguardo, trovo la prospettiva di Ferraris molto debole, e facilmente criticabile. Tuttavia, mi pare arbitrario porre una tale inserzione in forza della quale, appunto, riesce la confutazione di Ferraris. Veniamo, ora, all'elemento (3), a mio sommesso parere, il meno originale. Ferraris sarebbe reo, a suo dire, di “andare a cercare certezze nelle nostre autoconoscenze” (p. 44), collocando proprio il fondamento saldo di ogni certezza nell'ontologia. La mia impressione è che Cervellione pensi più a ironizzare sul Ferraris che a porre a critica il rimando ontico di Ferraris. Certo per trovare la “realtà” non è certo sufficiente richiamare ad essa né tantomeno darle il “bentornato”. Come dice l'autrice, “a trovarla questa realtà” (p. 45). Se Ferraris non dice nulla, ma proprio nulla, su cosa dovrebbe appunto essere tale realtà, il suo richiamo, esattamente ciò in cui consiste il new realism, si trasforma in una banalità, in un truismo, ossia in un riferimento generico alla nostra comune realtà, senza alcun davvero impegno conoscitivo ulteriore. Peraltro, se così è, l'oggetto del nuovo realismo, la pretesa realtà, sarebbe un “atteggiamento, non realtà” (p. 45). Esattamente come nessuno può negare che la realtà esista, parimenti nessuno può limitarsi a questa semplice, e banale, verità. A questo punto, l'autrice intende rovesciare l'accusa che Ferraris muove al postmodernismo, e secondo la quale il “populismo”, anche quello che attanaglia i nostri destini nazionali, è il degno figlio del postmoderno, addossando infine al Ferraris stesso la paternità di questo stato, ossia di giustificare appunto il populismo. Peraltro, ritengo sia vero che Ferraris ecceda nei suoi sconfinamenti in terra straniera, per cui, in certa qual misura, credo che Cervellione sia nel giusto quando afferma che il nuovo realismo sovrastimi “la potenza delle attività cerebrali” (p. 51), nel senso che davvero è difficile accettare l'idea che la mente possa produrre realtà e dominare per intero quest'ultima.
Il saggio di Ocone è, a mio modesto modo di vedere, quello più attrezzato da un punto di vista teorico. Nell'incipit si chiede l'autore presente: e “se il nuovo realismo non fosse altro che l'ultima e più compiuta forma di postmodernismo, o meglio di “pensiero debole”?” (p. 55). Questo è vero, e non negato nemmeno da Ferraris. Il punto, però, è un altro: voler confutare l'intento propositivo dell'autore del Manifesto al fine di far collassare l'intero progetto neorealista. Infatti, se il nuovo realismo è una variante del postmodernismo, con che coraggio si propone come alternativo a quest'ultimo? La stringatezza delle pagine in cui Ocone argomenta al riguardo, però, tradiscono subito l'interesse che suscitano. L'autore passa velocemente alla trattazione della sua idea fondamentale, ossia che Ferraris “manipoli” la storia della filosofia in maniera da far apparire vincente il suo “paradigma” (p. 56). Ocone aggiunge anche che “pur negandolo, il pensiero di Ferraris ha molti legami con certa filosofia medievale, in primo luogo con quella di Tommaso d'Aquino” (p. 57). Egli ritiene, infatti, che “ripristina non solo una rigida distinzione fra pensiero ed essere, ma anche e soprattutto quella logica tomistica che concepisce la verità come adaequatio rei et intellectus” (pp. 57 – 8). A mio modo di vedere, risulta apprezzabile il rilievo critico che Ocone solleva in merito al rimando ontologico di Ferraris. Infatti, “sull'idea che non possa esistere una realtà separata dal pensiero, e viceversa, si può anche essere in disaccordo […] tuttavia, glissare sul fatto che comunque vi sia un problema di pensabilità del presupposto oggettivante […] è veramente, in senso descrittivo e non vlautativo, non filosofico” (p. 59). In merito, l'autore presente ha certamente ragione. D'altra parte, la natura non argomentativa del Manifesto non consente di giustificare appieno le proprie presupposizioni e teorie. Non basta rimandare alla realtà, intesa, e vissuta, come separata dal pensiero, bisogna anche porsi il problema di come giustificare la pensabilità della prima da parte della seconda, e proprio a causa della separazione dell'una e dell'altra. Non ponendosi la questione, Ferraris compie un atto non filosofico dal momento che esclude, peraltro arbitrariamente, dalla discussione alcuni elementi portanti del suo edificio speculativo. Ma la mancanza di tale approccio critico è fatale nel voler prendere sul serio l'impresa di Ferraris. Infatti, un realista che non riflette davvero sui limiti della propria azione è un realista solo di facciata. Questo è, per Ocone, sintomo di una discutibile maniera di procedere in forza della quale Ferraris “piega” la storia della filosofia a suo piacimento. Un difetto, a ben guardare, che rende non credibile la sua critica alle manipolazioni operate dai postmoderni dal momento che “anche quelle dei “nuovo realisti” sono a dir poco spregiudicate” (p. 64).
Lorenzo Magnani è il quinto autore del presente volume. La sua chiarezza espositiva oltre che il suo rigore analitico sono a dir poco apprezzabili. In modo particolare, è degna di nota la scoperta di una fallacia nascosta tra le righe del Manifesto, la cd. fallacia ad Hitlerum. Infatti, i neorealisti dicono “se non si sottoscrive la posizione del realismo ingenuo […], allora vinceranno sempre i Berlusconi, i Bush” (p. 71). Si tratta, a ben guardare, di una retorica “che designa una strategia comunicativa che mira a squalificare qualcosa (in questo caso il postmoderno) comparandolo ad Adolf Hitler (nel nostro caso al populismo e al declino dell'Occidente)” (p. 71). Sebbene, veemente a prima vista, si tratta di un'argomentazione “frolla, astratta e velleitaria” (p. 71). Per Magnani, infatti, la prospettiva neorealista provoca scetticismo dal momento che del tutto pretestuosa appare la polemica con il postmodernismo rispetto al quale, al contrario, tutti noi dovremmo essere grati per aver reso disponibili all'analisi filosofica “molti aspetti della realtà umana” (p. 67). Benché l'autore ritenga comunque utile il discorso neorealistico, tuttavia “molti suoi obiettivi sembrano mancati” (p. 77). Anzi, proprio attraverso la querelle postmodernismo – neorealismo “non si intacca minimamente il populismo, e la filosofia rischia veramente alla fin fine di essere caricaturizzata e/o banalmente ostracizzata” (pp. 78 – 9).
Simone Regazzoni è l'ultimo autore del presente volume collettaneo e si propone di decostruire il nuovo realismo. I suoi elementi fondamentali sarebbero, a detta sua, solamente due: a) il ritorno di “una certa idea di realtà” (p. 83), peraltro nemmeno nuovissima o originale; e, b) la ripresa del paradigma corrispondentista di verità. Elementi “sapientemente incorniciati in una potente operazione mediatica ed editoriale” (p. 83). Sulla potenza mediatica dell'operazione, credo di poter concordare. A causa della sua vena profondamente anti-filosofica, però, il nuovo realismo “è un'ontologia che sogna di cancellarsi come discorso teorico e filosofico per diventare, magicamente, “ciò che c'è”: la realtà stessa, senza discorso” (p. 84). In questo modo, Regazzoni affonda il colpo finale sostenendo che si tratta di un movimento interessante ma non per le tesi che sostitene, quanto, piuttosto, per il “modo in cui è stato sapientemente incorniciato in una potente narrazione mediatica ed editoriale” (p. 85). Un giudizio severo e, sotto molti aspetti, liquidatorio. In effetti il nuovo realismo è anche questo. Ma Regazzoni si riserva ancora un'ulteriore stoccata: “il primo caso di mockumentary filosofico […] che si presenta come una fotografia di un ritorno della realtà che in verità produce” (p. 86). Essendo ben poca cosa, sia da un punto di vista teorico che storico, il nuovo realismo può esistere solo nella misura in cui racconta “un sacco di storie” (p. 88) e il suo mentore si professa “in missione per conto di Dio” (p. 90). Secondo Regazzoni, quel che emerge soprattutto nel new realism è “l'ossessione per la realtà” (p. 89), “una questione di fede” (p. 89), di cui Ferraris si fa carico “per il bene di tutti” (p. 89). Se così stanno le cose, come mai tanta visibilità? Per il presente autore, il successo mediatico si deve all'aver sapientemente intercettato un bisogno editoriale. Infatti, in fin dei conti, il nuovo realismo è “una filosofia giornalistica, una filosofia che incorpora il modello critico di un certo giornalismo di inchiesta che evoca in modo ingenuo i fatti e che negli ultimi anni, in Italia, è stato l'unico discorso […] a partire dal cui si è pensato di poter criticare il fenomeno del berlusconismo come discorso menzognero” (p. 92). Non grandi mete né alte vette, ma una misera “filosofia giornalistica cresciuta all'ombra del berlusconismo” (p. 93) del quale Ferraris ha assunto su di sé l'onere, oltre che l'onore, di tradurre filosoficamente l'opera del giornalista Travaglio.
Terminato il resoconto, di per sé inevitabilmente parziale ed educolcorante, del volume presente, penso di poter spendere alcune riflessioni ulteriori a commento. In modo particolare, ammetto di rimanere perplesso. Trovo ingenuo giudicare come ingenua l'operazione di Ferraris, che ha le sue pecche, per carità, ma non tali da giustificare un simile giudizio. In più, mi sembra infondata anche la concezione di verità che (quasi) tutti gli autori presenti muovono all'autore del Manifesto. A mia memoria, non mi risulta che Ferraris sostenga la concezione tomista di verità secondo la quale la verità sarebbe un luogo terzo a partire dal quale poter giudicare della prossimità tra cose e intelletto. Ancora, ritengo ingenerosa l'obiezione rivolta in vario modo dagli autori presenti, di ridurre la realtà ad ontologia. Anche al riguardo non credo vi siano conferme di tale giudizio nel testo del Ferraris. Sono propenso, piuttosto, a credere che sia un'interpretazione decontestualizzata. Infine, nutro una obiezione radicale che penso possa riassumersi brevemente nella forma seguente: se il nuovo realismo è poca cosa, perché spendere così tanto in tempo e risorse per dirlo?
Concludendo, penso si sia persa un'occasione per far germinare un sano dibattito filosofico, limitandosi solamente a collocarsi in uno dei due termini della polarità nuovo realismo – contro il nuovo realismo.

(versione precedente qui)


lunedì 5 agosto 2013

Verbosità del filosofo ... due!


(tratto da: V. Cerami - S. Ziche, Olimpo s.p.a., Einaudi, Torino, 2000, p. 74)

Ecco, Giove sta per risolvere i nostri (e suoi) problemi, proprio grazie ad uno di quei famosissimi "passaggi in televisione", tanto importanti per la contesa politica di un buon decennio fa, e inopportunamente quello sconsiderato di Morfeo irrompe con la sua verbosità a tediare i poveri mortali (ed anche gli dei) ...

Ecco cosa sembra la filosofia faccia molto spesso: una meritevole opera di lotta all'insonnia generale!

Grazie, Morfeo!

Grazie, filosofi di tutti i tempi!

(qui la precedente puntata)

giovedì 1 agosto 2013

Logica deontica. FAQ2

Paradossi? Cosa sono quelli che capitano alla logica deontica?

Si tratta di mere contraddizioni che derivano dall'apparato formale del calcolo deontico stesso. Insomma, delle derivazioni inaspettate ma indesiderate[1], delle conseguenze logiche che però contraddicono o un assioma o un teorema della logica deontica stessa. Ne esistono un gran numero e per alcuni è indice di inadeguatezza formale[2] oppure ancora della necessità di un completamente del linguaggio formale prescelto[3].

Ma in cosa si distinguerebbero quelli deontici dai normali paradossi logici?

Nel loro caso l'insidia logica comportata dalla presenza di una contraddizione è ancora più grave. Non si tratta di un semplice, per così dire, autoriferimento semantico, una delle principali cause di contraddizione logica, come per esempio nel caso del paradosso del mentitore, ma un più marcato ed ostico malfunzionamento del linguaggio formale prescelto per formalizzare il comportamento dei concetti normativi. Se si verifica un paradosso deontico, è l'intero calcolo che suo malgrado lo ospita che decade a causa della sua incoerenza.

E come hanno luogo i paradossi deontici?

Secondo Hansson[4], esiste un significato particolare, e specifico, delle nozioni deontiche che non può venir rappresentato in maniera adeguata dal linguaggio simbolico scelto. Ragion per cui la dontraddizione che può essere derivata non è un esito comunque rifiutabile dal sistema logico di partenza, ma un'antinomia o una contraddizione interna al calcolo stesso.

É un problema di linguaggio?

Sì, perché von Wright stesso decise di costruire l'insieme di assiomi e tesi fondamentali della logica deontica, ossia la struttura entro il quale cercare di catturare il significato logico dei concetti normativi, sul linguaggio della logica proposizionale, rendendo così davvero difficile, quanto non del tutto impossibile, render conto di particolari fenomeni I quali, infatti, danno luogo a contraddizioni.

Quali fenomeni?

Partendo dal fatto che I paradossi deontici sono, in genere, o il risultato dell'interazione tra un operatore e una variabile oppure anche l'effetto di un'interazione tra una tesi generale e un caso particolare, in ogni caso si deve convenire sulla natura “rigida”, e poco flessibile, del linguaggio logico, incapace così di rispondere in maniera adeguata ad alcune particolari sollecitazioni. Per Feldman[5], la maniera più semplice per emendare la logica deontica, qualsiasi calcolo di logica deontica, è modificare il linguaggio enunciativo normalmente adoperato e rendere così conto di alcune circostanze non rappresentabili in maniera adeguata nei sistemi deontici. In breve, la logica deontica non appare in grado di render conto adeguatamente delle seguenti circostanze:

(1) relazioni di causalità tra modali deontici;
(2) relazioni di condizionalità (primaria e secondaria) tra proposizioni deontiche;
(3) iterazione di modali deontici;
(4) iterazione modale (modalità miste);
(5) difettibilità, e relativa apertura a tempi, agenti e contenuti differenti, delle proposizioni deontiche;
(6) vincoli di coerenza basati sul principio di contraddizione.

Per Brown[6], ad esempio, proprio la possibilità di distinguere tra tipologie differenti di obblighi, primari e secondari, o, in qualche modo anche, tra differenti tipi di condizionalità tra obbligo generale e sua declinazione singola, consente di superare gran parte delle difficoltà in cui si dibatte la disciplina.

Sembra di capire che il problema di base della logica deontica sia la sua eccesisva rigidità, giusto?

Sì, è così. Il linguaggio monadico, che consente l'assunzione di una sola variabile da parte di un singolo operatore, e una semantica molto povera, assunto dalla disciplina partire dal saggio pioniere di von Wright, non consente di cogliere la multiforme realtà deontica nella sua eterogeneità di singolarità e di coordinazione tra tesi generali e casi particolari. Dello stesso paere appare anche Feldman[7].

Senza una modifica in tal senso, la logica deontica è destinata a restare sostanzialmente impresentabile data la sua natura problematica?

Per Artosi[8], la situazione è sostanzialmente così. E, francamente, anch'io la penso così.

Ma è possibile fornire qualche esempio di paradosso deontico al fine di percepire meglio la natura particolare di tali contraddizioni?

Certamente. Possiamo elencare nella maniera che segue I principali paradossi che la letteratura deontica ci tramanda:

1) il paradosso dell'obbligo derivato;
2) il paradosso di Ross;
3) il paradosso del Buon Samaritano;
4) il paradosso della vittima;
5) il paradosso del ladro;
6) il paradosso di Platone;
7) il paradosso di Sartre;
8) il paradosso dell'Imperativo contrario al Dovere;
9) il paradosso del dovere epistemico.

Ora, pur essendo formule correttamente derivate entro il proprio sistema logico, sono quantomeno controintuitive una volta interpretate in senso normativo[9]. Vediamoli adesso singolarmente. Il paradosso dell'obbligo derivato fa riferimento ad un principio base della logica deontica, segnatamente il principio dell'obbligo derivato, secondo il quale «l’esecuzione dell’atto p obbliga (moralmente) l’agente ad eseguire l’atto q»[10]. Siccome, però, il concetto di obbligo è interdefinibile sulla base di uno degli altri concetti deontici, tale obbligo conduce all'esito paradossale secondo il quale «il fare un atto vietato ci obbliga a fare qualsiasi altra cosa. Per cui, ad esempio, ammesso che il furto sia un atto proibito, il compierlo ci obbliga a commettere un altro atto, ad esempio l’omicidio»[11]. Come a dire che, e in maniera del tutto insensata, «the doing of what is forbidden commits us to the doing whatsoever»[12]. Si tratta di una conclusione del tutto inaspettata ma indesiderata e che pone un serio dubbio sulla consistenza del sistema deontico stesso dal momento che è una contraddizione difficilmente refutabile senza comportare un rigetto anche del principio base. Per von Wright, si tratta di un analogo deontico del paradosso dell'mplicazione stretta[13].

Ora diventa più chiara la difficoltà posta in essere dai paradossi deontici. Ma cos'altro possiamo dire al riguardo e su tutti gli altri?

Il paradosso di Ross è un vero e proprio esempio di antiquariato deontico nel senso che p stato formulato da Alf Ross, lo stesso del dilemma di Jørgensen prima ancora che la logica deontica quale disciplina nascesse storicamente[14]. Comunque, anch'esso coinvolge direttamente uno dei principi fondamentali della logica deontica, ossia il principio secondo il quale devono darsi le conseguenze di cosa è il caso che si dia[15]. Ora se abbiamo l'obbligo di compiere una data azione, per esempio 'p', ciò comporta dover accettare che tale obbligo corrisponda all'obbligo equivalente di compiere l'azione 'p' oppure l'azione 'q'. Il problema sorge una volta che tale formula viene interpretata, per cui possiamo incorrere nella contraddizione seguente: è obbligatorio imbucare la lettera oppure bruciarla[16]. Il che è del tutto contraddittorio: com'è possibile che dall'obbligo ad imbucare una lettera segua naturalmente che sia obbligatorio imbucarla o bruciarla?

É una contraddizione notevole oltre che preoccupante. Accade la stessa cosa con gli altri paradossi?

Il meccanismo di genesi della contraddizione è, più o meno, lo stesso: vige un principio base del sistema il quale non funziona più quando deve declinarsi nel caso concreto. Ad esempio, prendiamo ora in considerazione il paradosso del Buon Samaritano. Quest'ultimo prende le mosse, come conseguenza paradossale, dal principio [P] secondo il quale «whatever implies what is forbidden is itself forbidden»[17]. Pertanto, seguiamo il discorso di Poli: «un fondamentale principio della logica deontica è: (P) Se un atto A implica un atto B, allora: (1) L’obbligatorietà di A implica l’obbligatorietà di B; (2) La proibizione di B implica la proibizione di A. se, in sintonia con un’opinione diffusa, intendiamo «atto A» come «affermazione o stato di cose tale che qualche agente esegue A», il principio (P) si trasforma in: (P) Se una persona a esegue l’atto A implica che una persona b esegue l’atto B, allora: (1) che la persona a è obbligata a fare A implica che la persona b è obbligata a fare B; (2) che la persona b ha la proibizione di fare B implica che la persona a ha la proibizione di fare A. (P) però non è equivalente a (P). Esso conduce anzi ad autocontraddizioni»[18]. Facciamo un esempio, se il Buon Samaritano aiuta Giorgio che è stato derubato, allora possiamo dire che Giorgio è stato derubato; ma è vietato che Giorgio venga derubato. In tal caso, allora, essendo che il Buon Samaritano aiuta Giorgio perché quest'ultimo è stato derubato, è vietato pure che il Buon Samaritano aiuti Giorgio. Questo risultato è del tutto paradossale[19].

(continua)

Note

[1] Cfr. E. J. Lemmon – P. H. Nowell Smith, Escapism: The Logical Basis for the Ethics, “Mind”, 69, 1960, p. 290: «this is not a logician’s paradox, like Russell’s class of paradox; it reveals no logical antinomy or contradiction within the calculus. It is simply that theorem 54, which is obtained by substitution from a truth of logic, gives, when interpreted, a result which is not only surprising, but unpalatable».
[2] Cfr. G. Sartor, Informatica giuridica. Un’introduzione, Giuffré, Milano, 1996, p. 87: la logica deontica manca «di solide fondamenta logiche e filosofiche».
[3] Cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffré, Milano, 1969, p. 612: la logica deontica è «non ancora sistemizzata completamente».
[4] Cfr. B. Hansson, An Analysis of Some Deontic Logics, “Noûs”, 4, 1969, p. 373: «The “paradoxes” which arise in these logics seem to indicate that the axioms reflect only some special sense of the words “obligation” and “permission”».
[5] Cfr. F. Feldman, A Simplex Solution to the Paradoxes of Deontic Logic, “Philosophical Perspective. Action Theory and Philosophy of Mind”, 4, 1990, p. 309: «Some of deontic logic’s stickiest problems are revealed by the so-called “paradoxes of deontic logic”. None of these is, strictly speaking, a paradox – no one purports to derive a contradiction from a bunch of seemingly uncontroversial premises. Instead, the general form is this: some system of deontic logic has been proposed. A critic then describes a possible situation and produces a set of ordinary language sentences. The sentences would presumably be true if the situation were occur. The critic next indicates the systematic representations of these sentences. He points out that the systematic representations do not have the logical features of the ordinary language sentences they are intended to represent. In the most typical case, the problem is that the original set of sentences is consistent, whereas the representations are inconsistent».
[6] Cfr., M. A. Brown, Conditional and Unconditional Obligation for Agents in Time, in M. Zakharyaschev – K. Segerberg – M. De Rijke – H. Wansing (eds.), Advances in Modal Logic. Volume 2, CSLI, Stanford, 2001, p. 121: «It is widely recognized that any full development of deontic logic must provide a way in which to represent and reason about conditional as well as unconditional obligation. Traditional discussions of deontic logic have, for the most part, set aside various sorts of complications, aiming to provide a simple core theory of unconditional obligation and/or of conditional obligation which might later (it was hoped) be adjusted and elaborated, to take account of various subtleties. The result has been a series of accounts of obligation which have been unsatisfying in various ways, not least of which is the fact that they have been beset by a variety of “paradoxes”».
[7] Cfr. F. Feldman, op. cit., p. 336: «it seemd to me that the solutions to the paradoxes require a system that has the following features: (a) it must be able to express some sort of conditional obligation for which factual detachment fails; (b) it must be able to express the idea that something may be obligatory as of one time, but non-obligatory at some other time; (c) it must be able to express the idea that something may be obligatory for one person, but not for others».
[8] Cfr. A. Artosi, il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 69: «la logica deontica è una fonte insidiosa e inesauribile di paradossi».
[9] Ivi, p. 69 e sg.: «formule perfettamente valide dal punto di vista logico (cioè teoremi del Sistema Standard) che, quando interpretate, hanno, per così dire, un sapore fortemente controintuitivo».
[10] Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I), “Verifiche”, 3, 1982, p. 335.
[11] Ivi, p. 336.
[12] Cfr. A. N. Prior, The Paradoxes of Derived Obligation, “Mind”, 63, 1954, p. 64.
[13] G. H. von Wright, A Note on Deontic Logic and Derived Obligation, “Mind”, 260, 1956, p. 508: «The “paradox” under consideration is an analogue to a wellknown Paradox of Strict Implication in modal logic (…) that then an impossible proposition would entail any arbitrary proposition».
[14] Cfr. N. Grana, op. cit., p. 25: «nel ’41 Ross ne ha formulato uno, diventato in seguito famoso (paradosso di Ross). Lo possiamo esprimere nel modo seguente: OAO(AB). Esso ci dice che se un’azione è obbligatoria, allora è obbligatoria quell’azione o qualsiasi altra azione. L’esempio emblematico dello stesso Ross è il seguente: «Se qualcuno deve imbucare una lettera, allora egli deve imbucare la lettera o bruciarla»».
[15] Cfr. Al – Hibri Cox, Deontic Logic. A Comprehensive Appraisal and a New Proposal, University Press of America, Washington, 1978, p. 16.
[16] Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 89 e sgg. Cfr. R. Poli, op. cit., p. 336: «Il paradosso di Ross si può simbolizzare nei due modi seguenti: (i) OpO(pq); (ii) Pp(pq). dalle due formulazioni indicate deriva che (i) se devo spedire una lettera, allora devo spedirla o bruciarla; (ii) se ho il permesso di guidare l’automobile, allora ho il permesso di guidarla o di uccidere».
[17] Cfr. Al – Hibri Cox, cit., pp. 17 – 18.
[18] Cfr. Cfr. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, p. 460.
[19] Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 72: «il Buon Samaritano dal momento che se è vietato aggredire e derubare i viandanti, allora è vietato aggredirli e derubarli e anche soccorrerli quando vengano aggrediti e derubati. Così, andando in soccorso della vitima di una aggressione, il Buon Samaritano compie paradossalmente un’azione proibita. Di qui il nome di Paradosso del Buon Samaritano».


(immagine tratta da: http://journals.cambridge.org/fulltext_content/DIA/DIA25_04/S0012217300049684_eqnU1.gif)