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martedì 23 dicembre 2014

Non contraddizione aristotelica? Una replica!

Non è mia abitudine, ma stavolta lo faccio: il presente post è la risposta ad un commento che recentemente ho ricevuto al mio post da titolo Aristotele ... l'ingannatore!, e che trovate anche nella stessa sede come risposta.


(url immagine: http://www.gazebos.it/wp-content/uploads/20111007101103.jpg)


La ripropongo qui perché la trovo particolarmente "illuminante", e non me ne vogliamo i miei telchini!

Marco ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Aristotele ... l'ingannatore! Dialettica nell'elen...": 

E' il PdNC che fonda il Pensiero o il Pensiero che è il fondamento del PdNC?

Oppure la distinzione Pensiero / Incontraddittorietà è essa stessa una distinzione contraddittoria, in quanto pensare è pensare-incontraddittoriamente o non è pensare (ossia sono un medesimo: e distinguere un medesimo, come tu fai, è assurdo perché impossibile).

Ma un altro aspetto:
"L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere, passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC)."
Intendendo qui PdNC quale dimostrazione della innegabilità dell'incontraddittorio, chiedo:
la negazione del principio è reale o no?
Se è reale, allora il principio è realmete negato (e non è affatto riaffermato, ma appunto è invalidato);
se invece non è reale la sua negazione, allora non è reale nemmeno la sua riaffermazione elenctica.

Come ne esci?

Caro Kumpel Marco, innanzitutto ti ringrazio per il tuo commento: vuol dire che il post, benché pessimo, è stato oggetto di lettura, peraltro attenta, da parte di qualcuno.
Ma veniamo a noi, dato che non è affatto mia intenzione ignorare le obiezioni di terzi, oltre a non essere mia abitudine farlo.
Mi chiedi: “E' il PdNC che fonda il Pensiero o il Pensiero che è il fondamento del PdNC?”. Trovo che sia una reduplicazione, di per sé inutile, del problema. Infatti, potremmo, e provocatoriamente, riformulare il quesito nella forma seguente: il pensiero – con la ‘p’ minuscola – fonda il PDNC oppure è fondato dal PDNC? Così posta la problematica non ne usciamo. Infatti, qual è, se vi è, la distinzione tra pensiero e PDNC? Il pensiero è pensiero se, e solo se, funziona in conformità al PDNC, altrimenti abbiamo altro che non sia pensiero, ossia poesia, mito, narrativa, etc. Ma se il pensiero incorpora il PDNC, viene meno l’obiezione: non è che il PDNC fondi il pensiero e/o il pensiero sia fondamento del PDNC. No?
Ma passiamo alla seconda obiezione, di per sé, più interessante. Citando un mio passo, argomenti: “Intendendo qui PdNC quale dimostrazione della innegabilità dell'incontraddittorio, chiedo:
la negazione del principio è reale o no?”. Bene. Assumiamo che la negazione sia reale, di conseguenza, dici, il PDNC sarebbe realmente negato, e, quindi, invalidato. Problema: negare non equivale ad invalidare. La negazione, proprio in quanto tale, deve essere dimostrata, cioè reggere l’onere della prova. Onere che lo svolgimento stesso del movimento elenctico in Aristotele esclude in partenza. Detto altrimenti, per quale motivo ammesso, e non concesso, che la negazione del PDNC sia reale, dovremmo concludere che sia inutile proseguire il discorso dato che il PDNC verrebbe meno? E, per di più, chi o cosa ci assicura che così procedendo noi non si stia adoperando propriamente il PDNC che si nega e che vorremmo non più valido? Di conseguenza, la negazione del PDNC dovrebbe essere ipotetica. Ma, sostieni tu, “se invece non è reale la sua negazione, allora non è reale nemmeno la sua riaffermazione elenctica”. E per quale motivo, che possa dirsi sensato? Peraltro, mi pare che tu stia equivocando tra dimostrazione elenctica e sussistenza del PDNC iuxta propria principia. Intendo dire: Aristotele ha l’ardire di dire l’indicibile, vale a dire elevare alla dimensione di parola quanto quest’ultima, per virtù, presuppone. In altri termini, il logos non può parlare di sé stesso, pena o l’equivoco o il fraintendimento o l’errore o il girare a vuoto … la parola non può parlare dei presupposti o fondamenti della parola stessa! Tant’è che lo stagirita, infatti, evita questo problema partendo dal negatore del PDNC, senza in prima persona assumere l’onere dell’inevitabile prova che, in caso contrario, gli verrebbe, e giustamente, richiesta (parli del PDNC, bene dimostralo!). Ora, la dimostrazione elenctica nega la posizione del negatore del PDNC. Ci troviamo, cioè, in una posizione derivata e indiretta di confronto sul PDNC, oggetto al di fuori della portata stessa della parola o logos … Ma concediamo che la tua obiezione sia fattibile, ecco come ne esco: non è forse vero che per poter distinguere, e in maniera sensata, tra le due alternative, e per cogliere anche la presenza stessa di eventuali contraddizioni e incoerenze, non necessitiamo appunto del PDNC? Dunque, ti chiedo: possiamo davvero uscire dallo spazio di parola concessoci dal PDNC?

Chiusa finale: il gioco retorico di Aristotele è chiaramente una finzione, ma è drammaticamente efficace non tanto per la confutazione del confutatore del PDNC, il quale, a rigore, manco potrebbe sognarsi di costituirsi in quanto tale, dato che, a sua volta, dovrebbe proprio far uso del PDNC; ossia di quel che vorrebbe negare, ma nel momento iniziale del movimento elenctico, vale a dire quando pone l’unica condizione essenziale per lo spazio del discorso: dire cose che abbiano senso e per me e per te, pena il silenzio delle piante.



martedì 2 aprile 2013

Dialettica

"L'interrogante propone una domanda in forma alternativa, presentando cioè i due corni di una contraddizione. Il rispondente fa suo uno dei due corni, ossia afferma con la sua risposta che questo è vero, fa una scelta. Questa risposta iniziale è chiamata la tesi della discussione: il compito dell'interrogante è dimostrare, dedurre la proposizione che contraddice la tesi. In tal modo raggiunge la vittoria poiché, provando come vera la proposizione che contraddice la tesi, dimostra al tempo stesso la falsità della tesi, ossia confuta l'affermazione dell'avversario, che si era espressa nella risposta iniziale. Per giungere alla vittoria occorre dunque sviluppare la dimostrazione, ma questa non è enunciata unilateralmente dall'interrogante, bensì si articola attraverso una serie lunga e complessa di domande, le cui risposte costituiscono i singoli anelli della dimostrazione […] Nella dialettica non occorrono giudici che decidano chi è il vincitore: la vittoria dell'interrogante risulta dalla discussione stessa, poiché è il rispondente che prima afferma la tesi e poi la confuta. Si ha invece la vittoria del rispondente, quando egli riesce a impedire la confutazione della tesi"

(G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 200419, pp. 66 - 67)


Così Colli per spiegare la genesi del discorso filosofico a partire dalla sapienza arcaica.


La stessa dinamica verrà adoperata da Aristotele per fornire la sua giustamente nota dimostrazione indiretta, o per confutazione, del principio di non contraddizione.



Solo una difficoltà: se davvero si tratta di un principio notissimo, com'è possibile che vi sia chi non lo (ri)conosce come tale? Non dovrebbe essere di per sé auto-evidente?



Forse ha ragione Łukasiewicz quando osserva che fu vincente al tempo la formulazione di Aristotele piuttosto che le concorrenti idee.



(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/d/d2/Jan_%C5%81ukasiewicz.jpg/185px-Jan_%C5%81ukasiewicz.jpg)


mercoledì 12 settembre 2012

Si fa presto a dire “elenchòs”!




Recentemente, mi sono occupato della natura dialettica della dimostrazione indiretta del principio di non contraddizione. Vorrei riprendere in questa sede solamente l'opinione di Donà non adeguatamente messa in luce in quella occasione.


Quella aristotelica appare una dimostrazione convicente. Tuttavia, non è dello stesso avviso Donà. D'altra parte, anche il più sfegatato estimatore dovrà riconoscere come, ad una lettura attenta, la dimostrazione elenctica lascia aperte alcune perplessità, che vertono non tanto sulla validità del principio in questione, quanto sull'efficacia della dimostrazione stessa.


Scrive Donà che il divenire elenctico, descritto da Aristotele

garantirebbe appunto l'originarietà del principio in questione, facendo leva sulla dimostrazione dell'impossibilità della sua 'negazione' […] chiunque tentasse di negare un tale principio negherebbe se stesso (perché, per negare quel principio, dovrebbe presupporne la verità), ossia, per dirla con Aristotele, si costituirebbe come un semplice tronco … e le sue parole non sarebbero tali, ma puro flatus vocis […] a ben vedere, i conti non tornano proprio[1]

Dietro l'apparente evidenza della dimostrazione elenctica, una vera e propria dimostrazione indiretta, per auto-confutazione del negatore del principio di non contraddizion, si nasconde un non – detto, non rimosso, ma negato. Secondo Donà:

la presupposizione della ultimatività di quello stesso principio. Come a dire che si può dimostrare che quello è il principio ultimo solo presupponendo già, e 'del tutto ingiustificatamente', la sua ultimatività [2]

Pertanto, allora,

la potenza dell'argomentazione aristotelica dipende tutta dalla disponibilità dell'obiettore a riconoscere il suo costituirsi come 'negatore' e non come 'sostenitore' del principio di non contraddizione[3]

Come detto, infatti, Aristotele risulta vincente proprio per la maniera con la quale viene costruita la dialettica elenctica. Ma perché è così centrale questa presupposizione di fondo? Proprio la clausola aristotelica del 'dire qualcosa di significativo e per lui e per gli altri'? Donà ha le idee chiare quando esplicita il significato di questa determinazione:

dal suo accettare di farsi definire proprio in conformità alla forma del principio di non contraddizione. Un principio che egli sembrava invece di voler destituire di ogni primato. Insomma, il negatore di Aristotele è un negatore apparente. Ché, la sua negazione sarebbe vera negazione solo in quanto fosse disposta a costituirsi, insieme, come “negazione ed affermazione” del principio in questione[4]



Per Donà, sembra di poter capire, la dimostrazione elenctica aristoelica sarebbe solamente un gioco retorico, privo però di consistenza concreta. Infatti, il negatore ivi presente sarebbe soltanto una metafora, e non un contraddittore vero e proprio. Questo basterebbe da solo a svalutare la portata teorica dell'elenchòs.


Tuttavia, anche l'argomentazione di Donà lascia perplessi: ammesso, e non concesso, che le cose stiano come detto, questo è sufficiente per porre in questione la natura essenziale del principio per ciascun dire e pensare che voglia definirsi sensato? La mia impressione è che ciò non basti, anche se pone in evidenza la natura dialettica della dimostrazione aristotelica, costruita appositamente per vincere la contesa.


Peraltro, è lo stesso Aristotele, nello scorrere del suo discorso preparatorio alla dimostrazione stessa, ad affermare la natura “ipotetica” della dimostrazione. Il ragionamento seguito è, grosso modo, il seguente: “il principio di non contraddizione, per via della sua specifica natura, non è dimostrabile, ma possiamo anche far finta di volerlo dimostrare”. In questo modo, se le cose stanno così, appare risibile la perplessità che la stessa suscita: non si tratta di una prova atta a convincere tutti della bontà del principio, ma di una prova atta a mostrare in azione il carattere ultimativo, quanto fondativo di ciascun dire e pensare, dello stesso. Così, Aristotele fa finta di negoziare una contesa con un negatore passivo che accetta tutte le limitazioni imposte dallo stagirita, sorprendendosi magari, ma solo alla fine, che si trova lui in contraddizione, e, dunque, decadendo dalla sua stessa posizione di negatore del principio.


(immagine tratta da: http://profile.ak.fbcdn.net/hprofile-ak-snc4/203487_222872721063181_5695934_n.jpg)


Note


[1] Cfr. m. donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano, 2004, p. 47.
[2] Ibidem.
[3] ivi, pp. 47 – 48.
[4] Ibidem.