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giovedì 9 febbraio 2012

Buio del postmoderno e avvenire prossimo venturo



L’ho già detto in altre occasioni, il postmoderno non mi è simpatico, ma siccome vario è il mondo e la bellezza consiste proprio nel fare i conti con la diversità, ecco che ritorno sull’argomento per commentare brevemente un testo di Bauman, recentemente edito per l’Aliberti editore.
Il presente testo è interessante non perché l’autore, intervistato, offra chissà quali nuove, ed innovative, interpretazioni, ma perché consente di illuminare ulteriori aspetti toccati dalla visione “postmoderna” della realtà.
In modo particolare, Bauman considera il mondo attuale «multicentrato» (p. 27), privo di un reale centro, e ciò fa sì che «non ci sentiamo  casa» (p. 30), «siamo spaventati da ciò che sta accadendo» (p. 30). In tempi recenti, e il famigerato, quanto inflazionato, “11 settembre” ne è l’esempio più lampante, e, forse, anche più conosciuto, siamo sempre più disposti a “contrarre”, a “ridurre”, a “limitare” nello spazio e nel tempo i nostri diritti in nome di (presunta maggiore) sicurezza. A tal punto, infatti, il mondo attuale ci spaventa, ci rende vulnerabili, ci espone ai rischi, solo immaginari, non reali, che una realtà globale, decentrata, priva di chiari e stabili punti di riferimento sembra arrecarci. Non v’è più un pericolo “esterno”, contro il quale combattere (metus ostili, per chiamarlo come Sallustio) o contro il quale prendere adeguate contromisure, ma v’è un pericolo “interno”, tanto vivido nella sua natura fantasmatica da essere percepito, e conseguentemente anche vissuto, come reale, più reale del mondo al cui interno dimoriamo.
Per Bauman, l’immigrazione, volto della crisi e del mutamento costante del paradigma della ricchezza, del benessere, ci porta notizie “da fuori”, notizie da altrove, e mette accanto a noi, accanto alle nostre case degli stranieri che, al contrario di quanto accadeva in passato, non si assimilano più a noi, non diventano più “come noi”. Ciò perché è venuto a mancare anche una gerarchia tra culture, tutte pari tra loro, senza così rendere possibile l’omologazione di una cultura ospite, inferiore, a quella autoctona, superiore. Gli immigrati così ci restano accanto come stranieri nei cui confronti appare impensabile «sviluppare relazioni personali» (p. 32). La stessa globalizzazione erode l’ambito di sovranità degli Stati nazionali rendendo ancora più insicura ed incerta la nostra reale percezione della realtà, offrendosi al timore di rischi, di attentati alla nostra integrità, fisica o culturale che sia. Pertanto, appaiono risibili anche le risposte attuali le quali, mostrando un certo carattere di “decisionismo”, di (apparente) forza, sembrano rincuorarci rispetto ai nostri timori, risposte sempre più xenofobe, discriminatrici, razzistiche. Si pensa, ed erroneamente, che «se solo potessi buttar fuori dal mio Paese i migranti, che sono la causa, tutto tornerebbe come prima» (p. 35). Un’illusione galoppata da un numero incerto di partitini, ma anche di partiti più grandi e di maggiore storia, che recentemente hanno guadagnato una buona visibilità agendo sul “ventre” di elettori spaesati, spaventati, timorosi di perdere il loro stesso stile di vita. E non importa che siano timori più immaginari che reali, e nemmeno che risposte di questo tipo siano solo ideologiche, fittizie, non capaci di incidere davvero sulla realtà. Infatti, chi può bloccare i flussi migratori? Quale Paese può davvero permetterselo? E quale Paese può sottrarsi alle movenze di un’economia priva di centri e sedi, il cui scenario d’azione è il mondo intero? Non viviamo affatto in un’Europa più pericolosa di cinquant’anni fa, ma questo certo non importa, «sono i sentimenti al riguardo che si sono invertiti, si cerca avidamente qualsiasi informazione che confermi le proprie aspettative di pericolo» (p. 37). Più che ricercare la verità delle cose, si va in cerca di conferme ai propri timori. Così, s’innesca un vero e proprio circolo vizioso: più siamo spaventati più cerchiamo notizie su pericoli che potrebbero spaventarci, ma ciò ci spaventa ancora di più così con ancora maggiore avidità andiamo in cerca di ulteriori conferme …
La sociologia della modernità potrebbe benissimo renderci edotti sulla natura “fluida e flessibile” (p. 47) del mondo, sulla perdita di centri, di unità, di stabilità, di certezze. Invece, proprio quest’atteggiamento, così naturale quanto abituale presso le comunità occidentali, e forse non solo, si volge in cerca di sicurezze. Queste ultimamente vengono trovate nelle religioni tradizionali, sempre ferme nelle loro posizioni. Ma quanto si cerca non è la religione, ma una sua controfigura in grado di esplicare una funzione rassicurante su queste psiche così provate e deboli. I fondamentalismi, infatti, vanno letti come altrettante manifestazioni, pur con accenti e sfumature diversi, di uno stesso fenomeno: assaporare il frutto immaginario della certezza delle religioni storiche, senza null’altro chiedere loro (p. 48 e sgg). In Italia, ad esempio, è ben noto il caso dei cosiddetti “atei devoti”, personalità dichiaratamente non credenti che recentemente hanno assunto posizioni spiccatamente fondamentaliste perché, a loro dire, la religione storica è un buon antidoto, un buon viatico nel mondo attuale globalizzato ed esposto ai pericoli di un’assenza di centro.
Infine, Bauman dedica alcune riflessioni sulle ripercussioni sociali della condizione postmoderna sulle generazioni più giovani, delineando uno scenario amaro e a tinte fosche. Infatti, per «la prima volta i giovani si confrontano oggi con i limiti dei loro sogni» (p. 54). La cosiddetta spirale progressista, la quale garantiva in passato, soprattutto in Italia (anche se francamente penso che si tratti di un fenomeno internazionale che solo recentemente ha toccato il nostro Paese), ai figli un avvenire migliore di quello dei genitori, non funziona più, i giovani sono destinati, nella migliore delle previsioni, così come delle ipotesi, a vivere un’esistenza peggiore di quella dei loro genitori. In passato si poteva sognare, oggi ciò non è più possibile, né un “posto fisso a vita” né un lavoro vicino casa. Senza entrare nell’attuale retorica pubblica, e nella competizione politica vera e propria, è una prospettiva sconfortante. Né una rivoluzione né una rivolta né una nuova “primavera” può risolvere la situazione (p. 56). Forse nessuno può farlo. Forse sarebbe più saggio modificare all’in giù il nostro stile di vita, accettando una decrescita globale. Siamo però in grado di farlo?
Ma allora cosa caratterizza davvero la società attuale? Cosa rende il mondo attuale quello che è? Il postmoderno non offre risposte né indicazioni di massima sul decorso dei fenomeni sociali. In quanto strumento euristico, consente solo di analizzare la realtà attuale, apprezzandone le proprietà e le particolarità. Su tutte: dobbiamo riconoscere la nostra uguaglianza nelle differenze perché «alla base dei diritti umani c’è il diritto a essere diversi, autentici: il diritto a essere fedeli a se stessi» (p. 57).
Nel “buio” del postmoderno questo è (solo) un nobile sogno o un tremendo incubo? Forse, sarebbe bene tornare a pensarci su, magari direttamente con la propria testa.

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