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mercoledì 15 febbraio 2012

Logo e non - logo nella filosofia contemporanea



1. Cosa fa la filosofia?

È oggi cosa difficile dire con precisione cosa faccia la filosofia, la disciplina che, diretta filiazione di un preciso modo di pensare nato più di due millenni fa in ambiente greco, ha la pretesa di penetrare nel fondo delle cose attingendo alle loro stesse ragioni d’essere, di ostendere il fondamento del reale, render conto delle «ragioni» dell’essere. Al riguardo, sentiamo di dover convenire con Husserl:

Sin dai suoi primi inizi la filosofia ha avanzato la pretesa di essere scienza rigorosa e, precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenze teoretiche e di rendere possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali[1]

Com’è chiaro, si tratta di una precisa, quanto ineludibile, istanza teoretica che fa il paio con la natura propria della filosofia.
In realtà, è più facile dire cosa faceva in passato piuttosto che dire cosa faccia nel tempo presente. Questo perché l’intero ambito conoscitivo, la stessa materia del sapere, ha assunto forme a tal punto multiverse da rendere arduo dire con certezza, con chiarezza, con precisione, con esattezza, di cosa s’occupi la filosofia, quale sia adesso il suo ruolo nell’ambito del sapere.
Sia che la si consideri un «amore della sapienza»[2] sia che la si consideri un «lògos», la sua natura appare strettamente connessa con quanto sostiene Savater:

Forse lo strano compito della filosofia è quello di mettere in discussione, ogni tanto, le nostre convinzioni […] e cercare di sostituirle con idee suffragate da argomentazioni. Per questo, Aristotele disse che al principio della filosofia è lo stupore, cioè la capacità di meravigliarsi di fronte a tutto ciò che tutti gli altri danno per scontato[3]

Un compito certo «strano» ma coincidente con il vagliare criticamente il nostro sapere, anche quello che, magari, reputiamo maggiormente stabile, al riparo da dubbi e/o errori. Un compito «strano» forse perché, come afferma Lyotard, la cultura umana ha assunto una forma che, in qualche modo, nega tale stesso ruolo alla filosofia, mettendo di fronte ad una incredulità di fondo non appena ci si avvicini a qualcosa di «culturale».

2. Il «logo» filosofico: la teoria.

Tuttavia, prima di giungere a tali esiti, la storia della filosofia ha mostrato le movenze di una disciplina intenta a porsi una domanda fondamentale alla quale ha offerto innumerevoli risposte «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?»[4]. Tale questione, con molta probabilità “la” domanda filosofica par excellence, ha posto stuoli di pensatori davanti alla necessità di indagare il “senso” della realtà di cui essi stessi fanno parte. Oggi la disincantata antropologia mette in questione tale tensione conoscitiva affermando che

[la domanda filosofica fondamentale “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?”] non è, come pretende di essere, una domanda ontologica, ma una domanda spiccatamente antropologica, che l’uomo si pone quando avverte la contingenza del tutto, l’assoluta casualità del suo esserci, il suo non rientrare in alcun disegno[5]

Allo stupore aristotelico ha così fatto seguito il disincanto coevo. Tuttavia, nel suo impegno costante e originario la filosofia è giunta al fondo delle cose, trovandovi (o credendo di trovarvi) le loro ragioni ultime. Così, essa ha messo capo ad un logo in grado di spiegare il corso delle cose, il loro esistere, il loro avere luogo, di comprendere cioè, penetrandolo, il significato della realtà. E contemplando tale significato, ha compiuto una teoria dell’essere.
Non  a caso, infatti, la filosofia ha fatto capolino in seno alla cultura greca. Infatti, asserisce Berti come essa proceda di pari passo con la dialettica¸ ossia con l’«arte del discutere chiedendo e rendendo ragione di quel che si dice»[6]. La filosofia ha così ricercato il lògos della realtà, facendone un vero e proprio discorso articolato per il mezzo di parole, di verba. Come dice ancora Colli:

i sapenti di questa età arcaica […] intendevano la ragione come un «discorso» su qualcos’altro, un «logos» che appunto «dice» soltanto, esprime una cosa differente, eterogenea[7]

Quanto Colli sostiene è valido anche per il discorso presente. Infatti, il «discorso» teoretico è un insieme di parole tese a dar conto di una realtà ad esse estranea, un «fuori» eterogeneo alla stessa enunciazione.
Trovare un logo del reale, è equivalso così ad asserire una proposizione fondamentale, e rivelativa di un’intera modalità di «fare filosofia», riassumibile, grosso modo, nella celebre affermazione parmenidea «E’ necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare»[8]. Il “dire” e il “pensare” impongo alla riflessione una direzione obbligata: prendere in considerazione l’essere, quanto esiste, e dirne “come” esiste. Questo perché sempre in Parmenide «lo stesso è pensare ed essere»[9]. In ogni caso restano valide le parole di Calogero:

Parmenide è appunto il fondatore del logo antico, in quanto per primo pone come reale una legge, senza pensare che questa possa distinguersi dal reale: in quanto per primo impone al reale una norma di validità assolutamente intrinseca, che è quella della sua pura pensabilità[10]

E lo stesso aggiunge:

lo scopritore dell’identità e di conseguenza dell’alterità come puro essere, e l’iniziatore di tutti i complicati e distinti problemi che si svilupperanno poi intorno a quella che si dirà questione del principio dell’identità e della contraddizione[11]

Ma è in Aristotele che troviamo la prima compiuta formulazione della “conoscenza” (filosofica): non più l’essere che è, ma l’essere in quanto essere. Non più una generica considerazione del reale in quanto esistente, contrapposto al non – essere, ma una considerazione dell’essere in quanto tale.
Se la filosofia delle origini ha così inteso la trama dei rapporti tra “pensiero” ed “essere”, la stessa modalità di pensiero si è mantenuta pressoché intatta nei secoli, almeno sino al cogito cartesiano, trovando però definitiva messa in questione con la cosiddetta “rivoluzione kantiana”, ossia con la presa di coscienza dello scarto incolmabile tra “pensiero” e “realtà”, tra un “dentro” e un “esterno”, tra un “soggetto” (conoscente) e un “oggetto” (conosciuto), tra “parole” atte a render conto di una realtà ad esse esterne e una “realtà” comunque altra dalle parole usate per discuterne. E tuttavia la filosofia ha continuato a mantenere in essere la sua strutturazione originaria: andare in cerca del logo del reale.

3. Il «logo» postfilosofico: il depotenziamento teoretico.

In modo assertorico, Rossi sostiene che

I postmoderni pensano l’intera storia dell’Occidente […] come un tutto unitario. Hanno una spiccata preferenza per le sistemazioni unilineari. Vedono il postmoderno come la negazione del moderno e si appagano spesso di asserzioni definite solo per negazione […] Il postmoderno […] è davvero privo di un’idea centrale e si configura come un repêchage, un assemblaggio di parti che furono di altre epoche[12]

Il giudizio di Rossi è duro, ma rende in maniera abbastanza efficace l’impressione che si può avere del postmoderno, sebbene questa categoria possa suggerire l’immagine erronea di un fronte monolitico, senza alcuna differenza da autore ad autore, da tradizione geografica a tradizione geografica.
Tuttavia, l’idea “forte” alla base della presente ricognizione è che i vari autori siano accomunati da una certa tensione (ideale) associabile al cosiddetto postmoderno, e che, proprio in considerazione di ciò, lo si è sostituito con il lemma di postpensiero, ad indicare icasticamente una modalità operativa della filosofia inversa a quella usuale, una sorta di trasformazione della filosofia da contemplazione disinteressata delle cause del reale (teoria) al depotenziamento della teoria stessa. È pur sempre un’etichetta onnicomprensiva, e per ciò stessa alla fin fine edulcorante, e tuttavia non si ritiene di poter fare di più, le diversità vanno infatti compresse a fini esplicativi.
Sia come sia, scriveva Lyotard in un passo assai noto «possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle meta narrazioni»[13]. In altri termini, il “pensiero postmoderno” non crede più al valore delle grandi narrazioni umane (storiche; religiose; della tradizione; ideologiche) finendo con il volgersi verso una considerazione più dimessa e senza alcuna pretesa di universalità e/o necessità. In altre parole, «la società che ne deriva dipende meno da un’antropologia newtoniana […] e più da una pragmatica delle particelle linguistiche»[14]. La vita umana diventa, così, l’interazione contingente di azioni linguistiche, tanti giochi linguistici ciascuno dei quali con regole non esterne allo stesso, ma interne. Sempre Lyotard aggiunge:

Esistono molti giochi linguistici differenti, che costituiscono l’eterogeneità degli elementi, ed i giochi possono generare istituzioni solo attraverso un reticolo di piastrine, che costituisce il determinismo locale[15]

La nozione wittgensteiniana di “gioco linguistico” viene così modificata completamente ed adeguata alle finalità postmoderne, ammesso, e non concesso, ovviamente, che per quest’ultimo valga la stessa nozione di finalità.
Mediante tali interazioni linguistiche gli attori possono costruire istituzioni, “possono” nel senso che non esiste alcuna necessità, ciò avviene solo se la particolare direzione locale assunta dalla loro interazione va in tal senso. Sempre Lyotard aggiunge:

la forma narrativa, a differenza del sapere in forme discorsive sviluppate, accoglie una pluralità di giochi linguistici: nel racconto sono tranquillamente ammessi enunciati denotativi, fondati per esempio sugli eventi del cielo, delle stagioni, della flora e della fauna; enunciati deontici che prescrivono ciò che deve essere fatto in relazione ai medesimi referenti oppure alla parentela, alla differenza fra i sessi, ai bambini, ai vicini, agli stranieri, ecc.; enunciati interrogativi che sono per esempio legati agli episodi di sfida […]; enunciati valutativi, ecc. [16]

Nella sua diagnosi sullo stato della cultura, il filosofo francese trae le estreme conseguenze dello sviluppo umano moderno secondo il quale ogni forma di sapere ed ogni pratica umana hanno il medesimo valore, sino ad “ibridarsi” tra loro, dando luogo a «giochi linguistici» particolari e a narrazioni differenti. Il cosiddetto postmoderno ha messo in luce come la modalità di pensiero, altrimenti detta filosofia, ha sempre avuto condizionamenti storici. Se le cose stanno così, allora i suoi oggetti storici (p. e. l’«essere»; la «realtà»; la «scienza»; etc.) appaiono essere dei simulacri, ossia degli oggetti privi di senso in sé stessi. Si tratta, allora, solo di referenti linguistici (in senso amplissimo) privi di significati, di metafore utili nella misura in cui consentono ai giocatori le loro interazioni comunicative. In questo modo, l’autore francese caratterizza la (nostra) fine della modernità come una critica delle grandi narrazioni sul mondo. In un’altra sede, Lyotard afferma:

Il postmoderno sarebbe ciò che nel moderno mette avanti l’impresentabile nella presentazione stessa; ciò che si sottrae alla consolazione delle buone forme, al consenso di un gusto che permetterebbe di provare in comune nostalgia dell’impossibile[17]

E ancora:

Un artista, uno scrittore postmoderno è nella situazione di un filosofo: il testo che egli scrive, l’opera che porta a compimento non sono in linea di massima retti da regole prestabilite e non possono esser giudicati attraverso un giudizio determinante, attraverso l’applicazione di categorie comuni […] Deve essere chiaro infine che il nostro compito non è quello di fornire realtà, ma di inventare allusioni al concepibile che non può essere presentato[18]

Il pensatore postmoderno, detto altrimenti, non descrive realtà, ma si limita ad inventare metafore atte ad alludere a quanto non può essere presentato all’interno del linguaggio. Questa affermazione non può che avere effetti importanti, se non devastanti, sull’assetto stesso della filosofia, sulla sua stessa natura.

4. La proposizione fondamentale della teoretica.

Se il logo filosofico è coinciso, grosso modo, con l’asserto parmenideo, asserente l’esistenza di una realtà e la possibilità da parte del pensiero di catturarla entro una forma discorsiva, allora è possibile adesso schematizzare la proposizione fondamentale di siffatta curvatura teoretica. Come sostiene Tarca «Il nostro discorso si è basato sulla nozione di apofansi, e cioè nell’opposizione tra discorso vero e discorso falso»[19]. Da Aristotele in poi, riprendendo così riflessioni eleatiche e platoniche, la filosofia ha sintetizzato la propria modalità di fare teoria del reale come distinzione tra discorsi veri e discorsi falsi. La distinzione ha luogo a partire dal classico topos dello stagirita «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; mentre dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è, è vero»[20]. Dire come? In Aristotele, e più in generale nella concezione teoretica antica, l’essere è nella misura in cui si presta a venir rappresentato all’interno del linguaggio umano. Così, il compito della filosofia è consistito nel tematizzare proprio tale rapporto. Pertanto, è centrale nella riflessione aristotelica la nozione di apophansis, di «discorso significativo». Aristotele stesso, infatti, ravvisa come «Il discorso, d’altro canto, è suono della voce, significativo»[21].
La qualifica di “significativo” vuol dire che l’enunciazione linguistica è capace di render conto della realtà esterna cui tende e che intende rappresentare. Da questo punto di vista, il linguaggio è naturaliter capace, per lo stagirita, di rappresentare il reale, di dire “come stanno le cose”. Il linguaggio umano è, cioè, naturalmente in grado di essere significativo. Nelle parole di Husserl «noi stabiliamo nello stesso tempo l’universalità della coincidenza di linguaggio e pensiero»[22]. Ma Aristotele si sente pertanto in obbligo di precisare come «Dichiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa»[23]. I discorsi sono significativi nella misura in cui rendono conto della realtà, e, e solo se, accettano il confronto con il reale. Pertanto: se dicono qualcosa di diverso dalla realtà, sono falsi; se concordano esattamente con la realtà, sono veri. In questo modo, appare adesso possibile indicare quella che si ritiene la proposizione fondamentale di tale modo di «fare filosofia»:

(P) l’essere è

Della stessa, è desumibile il principio di verità:

(V) la proposizione (P) è vera se, e solo se, l’essere è

Nelle parole di Husserl si legge infatti «al centro della logica formale, nella forma che essa ha storicamente assunto, sta il concetto del giudizio predicativo, della apophansis. Il nucleo della logica formale è la logica apofantica, dottrina del giudizio e delle sue “forme”»[24]. Se il discorso intende rappresentare la realtà, lo stesso si presta ad una verifica. Nelle parole di Borzacchini «il principio di verità come corrispondenza ci dice che una frase è vera nel suo complesso se asserisce un fatto: “p” è una proposizione vera se e solo se p»[25]. Mentre per Marconi «ogni asserzione che riguardi il mondo è o vera (se le cose stanno come l’asserzione dice che stanno) o falsa (se non stanno così)»[26].
Sull’importanza di (P) e (V) diremo subito dopo aver messo in luce i corrispettivi per il postpensiero.

5. La proposizione fondamentale del postpensiero.

Se così stanno le cose, allora si comprende la reale portata dell’attuale rivoluzione epistemica del sapere, e, dunque, anche della filosofia. Sostiene, infatti, ancora Tarca che «La filosofia contemporanea pone un contenuto che è in contraddizione con la forma del dire filosofico. Infatti, il contenuto della filosofia contemporanea comprende l’affermazione che non è possibile alcun discorso definitivo, ultimo ed irrevocabile»[27]. Quanto siamo andati dicendo nella presente ricognizione, diventa adesso chiaro: la filosofia contemporanea s’è posta in chiara contraddizione rispetto a sé stessa. Infatti, pur continuando ad adoperare il lessico tradizionale, quello apofantico per intenderci, essa lo utilizza in un senso diverso, non più per fondare, ma per negare, non più per definire, ma per contaminare, non più per ultimare, ma per provvisare, non più per rendere irrevocabile, ma per revocare costantemente. In altri termini,

il pensiero di oggi è caratterizzato in maniera sempre più esplicita e radicale dall’abbandono di ogni pretesa di conseguire una giustificazione conclusiva o una fondazione ultima di un discorso, qualunque esso sia. Con ciò viene naturalmente messo fuori gioco pure qualsiasi presunzione di attingere ad un fondamento conclusivo del sapere e, conseguentemente, risultano infondate od inaccettabili tutte le pretese di stabilire una verità definitiva[28]

In ciò è presente una seria, e “forte”, critica nei confronti della filosofia, diciamo così, tradizionale:

L’immagine del filosofo, sia popolare, sia scientifica, sembra essere stata fissata dal platonismo: un essere delle ascensioni che esce dalla caverna, si eleva e purifica nella misura in cui si eleva […] L’operazione del filosofo è allora determinata come ascesa, come conversione, cioè come movimento del volgersi verso il principio dell’alto da cui esso procede e di determinarsi, di riempirsi e di conoscersi in base a tale mozione[29]

La lunga citazione delueziana ha un duplice pregio: (1) in tanto, consente di valutare l’immagine della filosofia posseduta dal postpensiero; (2) in quanto, è possibile, al tempo stesso, apprezzare la prosa densa di tale filone contemporaneo del logo filosofico. Infatti, pur prendendosela segnatamente con il “platonismo” (idealismo), il suo giudizio raffigura la filosofia come una tensione conoscitiva volta ad “astrarre” dal reale “ascendendo” sino ad elevarsi ad un “principio”, vertice di qualsiasi operazione e possibilità conoscitiva, canone gnoseologico ed etico. Su questa descrizione, pur con le dovute cautele, si può concordare. A lasciar perplessi, invece, è lo stile della prosa attraverso la quale concretamente si narra tale descrizione. Infatti, vi abbandonano termini “mistici” i quali possono, se ci si limita ad una considerazione superficiale, veicolare un’immagine edulcorata della filosofia: come se si trattasse di un sapere mistico o, quantomeno, “sapienziale”. Si tratta di una scelta estetica, beninteso, ed ha la sua ragion d’essere all’interno di un filone per il quale son venute meno le grandi narrazioni, tuttavia possiede una forza evocativa, suggestiva, che potrebbe distogliere da una piena, ed adeguata, comprensione.
Così stando le cose, la proposizione fondamentale del postpensiero appare essere la seguente:

(PP) ammesso che l’essere sia, ne sono possibili infinite narrazioni tutte ugualmente importanti

Di conseguenza, ancora, il suo principio di verità appare il seguente:

(PV) la seguente proposizione è vera: non esiste verità

La natura paradossale, e, quindi, contraddittoria, di tale principio risiede nel fatto che tale è se considerata alla luce della nozione classica di logica: scienza del lògos. D’altra parte, com’è (PV)? Vera o falsa?
Come asserisce Gargani, in riferimento a Wittgenstein:

La logica […] rappresenta l’immagine speculare del mondo nel senso che ne rispecchia le proprietà formali alle quali sono simmetricamente coordinati i termini e le strutture del simbolismo[30]

Ma il postmoderno rovescia tale presupposto, mettendo in questione la stessa dimensione della logica. Non a caso, avverte Tarca:

se c’è una disciplina scientifica che meglio e più direttamente di ogni altra esprime il proprio carattere meta discorsivo, questa è appunto la logica, la cui eccezionale importanza all’interno della filosofia occidentale è connessa almeno in gran parte proprio col fatto di essere stata vissuta come un luogo il cui privilegio non poteva essere messo in discussione all’interno di un’ottica che volesse considerarsi in qualche modo razionale[31]

Forse più che la filosofia, è la logica a risentire della presente curvatura postmoderna del pensiero dato che viene messa in questione la sua pretesa di “normalizzare” la funzione razionale. Coerentemente al resto della conoscenza filosofia, la logica viene ora considerata una meta-narrazione, non più vera o non più falsa del genere letterario filosofico stesso.
Come avverte in merito Rorty:

dire che la verità non è là fuori equivale a dire, semplicemente, che dove non ci sono enunciati non c’è verità, che gli enunciati sono componenti dei linguaggi umani, e che i linguaggi umani sono creazioni umane. La verità non può essere là fuori – non può esistere indipendentemente dalla mente umana – perché non lo possono gli enunciati. Il mondo è là fuori, ma le descrizioni del mondo non lo sono. Solo le descrizioni del mondo possono essere vere o false. Il mondo di per sé […] non può esserlo[32]

Ma questa, a ben vedere, non è una negazione del principio di verità postulato dalla teoria filosofica. Quel che, invece, vorrebbe sostenere è che non è possibile una metafisica della verità, dimenticando, forse, che la metafisica è solo una parte del ben più vasto discorso filosofico. Ciò è più chiaro nel proseguo:

Il mondo non parla. Solo noi parliamo. Il mondo può solo, dopo che noi ci siamo già programmati ad usare un dato linguaggio, essere la causa di alcune nostre credenze. Ma non può proporci il linguaggio da parlare. Solo altri esseri umani lo possono fare. La constatazione che il mondo non ci dice quali giochi linguistici giocare non dovrebbe indurci, tuttavia, ad affermare che la decisione di quale gioco giocare è arbitraria, o che è l’espressione di qualcosa di profondo dentro di noi[33]

In questo caso, allora, si potrebbe dire che in fondo l’operazione postmoderna consiste nel trarre le dovute conseguenze dell’immanentismo moderno. In altre parole, è solo a seguito del possesso di un linguaggio artificiale che è possibile narrare il mondo, ma quest’ultimo non impone in alcun modo quale gioco linguistico si debba giocare. Tutto sommato sembra che la posizione di Rorty sia postmodernamente moderata. Più estrema, invece, la posizione di Deleuze il quale, commentando Foucault, afferma:

non si tratta né di parole né di cose. Ma nemmeno d’oggetto o di soggetto. Né di frasi o di proposizioni, d’analisi grammaticale, logica o semantica. Gli enunciati, lungi dall’essere sintesi di parole e di cose, lungi dall’essere composti di frasi e di proposizioni, precedono, al contrario, le frasi e le proposizioni che li presuppongono implicitamente, formano parole e oggetti[34]

Delle metafore adoperate per alludere a qualcosa di trascendente il linguaggio stesso? E se così fosse, che fine farebbe la ragione nel discorso umano? Si tratta di questioni aperte, non affrontate direttamente dagli autori postmoderni, e per motivi che è facile immaginare.

6. E’ possibile una ragione priva di ragione?

Sosteneva Volpi come

Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro[35]

L’ospite inquietante, che si aggira oggi presso le coscienze, è rivelativo di quell’atteggiamento generale di cui si discute in questa sede: un indebolimento generale della ragione.
Palumbo sostiene come «[Deleuze] sottolinea come il pensiero di Nietzsche è un pensiero che pensa esplicitamente contro la ragione»[36]. Nel postpensiero non si rappresentano più oggetti, ma ci si interroga sui costruenti contingenti (storici; sociali; psicologici; culturali; etc.) che conducono alle varie narrazioni, mai concluse, ma sempre in fieri. In questo senso, infatti, si parla di genealogia o di archeologia della conoscenza, del sapere umano. Come sostiene Rovatti «Il “pensiero debole” avrebbe la pretesa di intaccare completamente l’atto del conoscere, tanto dal lato di chi conosce quanto da quello del cosa p conosciuto […] Il “pensiero debole” chiede una modificazione tanto dell’oggetto della conoscenza quanto del soggetto del conoscere»[37]. Seguendo Derrida, si afferma una distanza incolmabile tra “pensiero” e “realtà”, operando, non solo de facto, ma anche e soprattutto de jure, un “parmenicidio” dato che, come visto, fu proprio Parmenide a formulare gli asserti fondamentali della filosofia, proprio quelli messi in evidenza in questa sede.
A questo punto risultano interessanti le parole di Negri:

Tutti i «pensieri» sono «deboli», sì; ma, poi, ce n’è sempre uno meno «debole» o più «forte» degli altri. Ed uno di questi «pensieri», si può ritenere, è proprio quello attraverso il quale, anche contraddittoriamente, si assicura, per dir così, l’insicurezza di ogni affermazione, di ogni azione; e, soprattutto, l’instabilità o, addirittura, la nullità di ogni cosa […] È chiaro, poi, che, in questa «sicurezza», o in questa «forza», tutto sommato dogmatica del «pensiero debole», è possibile leggere […] una precisa opzione ideologica[38]

Detto altrimenti, Negri afferma risolutamente, con un tono volutamente provocatorio, che il cosiddetto pensiero debole, il postpensiero nella presente ricognizione, da un punto di vista squisitamente teoretico, non avrebbe alcuna reale differenza con il «pensiero», sino a manifestarsi in una forma, neanche tanto velatamente, ideologica.
Palumbo invece aggiunge che la

domanda filosofica per eccellenza, la domanda socratica “che cos’è?”, viene sostituita dalla domanda “chi?”, che implica un metodo diverso frutto di “un’arte empiristica e pluralistica” […] e che significa “data una cosa, quali sono le forze che se impadroniscono, da quale volontà è posseduta? Che si esprime, si manifesta e insieme si nasconde in essa?”[39]

In questo modo, la trasformazione del “discorso filosofico” in gioco fa venir meno la natura propria della filosofia, inibendo la teoria  e la “potenza”, se così può dirsi, della teoretica. Quel che il pensiero postmoderno, allora, fa è inibire la teoria, ossia il carattere proprio e precipuo del «discorso filosofico». Nonostante ciò, Agazzi rileva come «La filosofia non può fare a meno di presentarsi come una rivendicazione del ruolo della ragione, non già in funzione puramente corrosiva, ma anche col compito di comprendere e orientare»[40]. Pur aprendo cautamente agli sviluppi coevi della filosofia, Agazzi rivendica ancora un compito “forte” per il pensiero, facendo giustizia dei vari apolegeti del debolismo. Tuttavia, Gargani rincara la dose asserendo che

in realtà quella relazione tra mondo e linguaggio è una relazione fittizia, magica. Ci si comincia a rendere conto che il mondo che conosciamo non è un insieme di oggetti precostituiti, che si auto identificano, bensì che noi conosciamo un mondo che è sempre dato sotto una nostra descrizione, e che analogamente non ci sono fatti come tali, contro i quali andiamo a sbattere la testa, ma che qualcosa viene riconosciuto come un fatto solo relativamente ad uno schema concettuale, ad un criterio di decidibilità razionale[41]

Preso atto di ciò, la

Filosofia non dovrà perseguire quella ricerca di fondamenti ultimi di verità che nasce dall’idealizzazione paranoide suscitata dai deliri di onnipotenza; essa non dovrà, e non servirebbe d’altronde più, aspirare a produrre fondamenti, né argomentazioni logicizzanti, ma potrà narrare le condizioni per le quali e nelle quali pezzi, segmenti del discorso scientifico e degli altri testi e procedure discorsive sono risposte possibili per un mondo che accade insieme a noi che lo interpretiamo[42]

Uno dei presupposti, tra i tanti, del postpensiero è che non esistono «fatti», ma solo «interpretazioni». In merito, è interessante quanto asserisce Pareyson:

L’interpretazione, si dice, non è interpretazione di qualcosa: non esistono cose o fatti o verità da interpretare, ma solo interpretazioni e interpretazioni di interpretazioni. Penso che ciò non sia conforme al concetto di interpretazione, la quale o è interpretazione di qualcosa o non lo è: l’interpretazione che dissolve in sé stessa ciò ch’essa ha da interpretare, e che quindi vi si sostituisce, cessa con ciò stesso d’essere interpretazione[43]

Pareyson, dunque, critica l’aspetto ermeneutico del postpensiero laddove, invece, il suo allievo Vattimo sostiene che:

Quella che si può chiamare la koiné filosofica dei nostri anni […] è una ermeneutica largamente venata di pragmatismo, che si presenta come una composizione (sintesi, sarebbe dire troppo) di elementi della eredità di Heidegger con elementi caratteristici invece della tradizione anglosassone (da James a Peirce a Dewey fino all’ultimo Wittgenstein[44]

Ed ancora

Una filosofia che […] concentra l’attenzione sul rapporto tra linguaggio ed essere, e sulla situazione «interpretativa» caratteristica di tutta l’esistenza. Esistere, in questa prospettiva, vuol dire stare in rapporto a un mondo; ma tale rapporto è insieme condizionato e reso possibile dal fatto che si «dispone» di un linguaggio[45]

Quasi rispondendo a Pareyson, Vattimo sostiene allora che

Da questa concezione del rapporto tra essere e linguaggio […] derivano alcune implicazioni; principalmente una definizione del pensiero in termini ermeneutici e non «epistemici» (pensare è interpretare più che «sapere» scientificamente); una concezione «indebolita» dell’essere, e anzi una filosofia dell’indebolimento e della secolarizzazione[46]

Per Vattimo, sembra di capire, il postpensiero è una conseguenza della cultura coeva, diretta, in qualche modo, a “naturalizzare” la ragione, a “immanentizzare” le ragioni filosofiche, ad adeguare al “secolo” la ragione.
La direzione assunta dalla filosofia contemporanea è così inversa a quella di origine, al punto che la stessa mostra la pretesa di non fondare razionalmente qualcosa, ma addirittura di fare a meno della stessa «ragione», di procedere sine ratione, di rifiutare questo stesso concetto.
Il tempo dirà se è una strada percorribile, per intanto ne prendiamo atto cogliendo, però, come molti di questi temi, e lo spirito di fondo, fossero già presenti nella critica rivolta alla metafisica da un pensatore schellingiano come Rosenzweig il quale, in tempi non sospetti, ma comunque pure dopo i lavori dei «maestri del sospetto», aveva scritto

La filosofia, proprio in quanto nega l’oscuro presupposto di ogni vita, cioè non consente che la morte valga come un qualcosa e la riduce ad un nulla, suscita per sé l’apparenza di essere priva di presupposti[47]

In merito, aggiunge Vitiello:

Uno dei grandi libri del ‘900, La stella della redenzione di Franz Rosenzweig […] ci mette sulla strada di una possibile risposta. Pensare, pensare nel suo significato essenziale, è anzitutto esperienza del limite[48]

Un limite storico, sociale culturale, umano, e così via. Ma, come sostiene Quinzio «Le radici ebraiche del «nuovo pensiero» di Rosenzweig conducono anche la filosofia a fare conti radicali con il tempo storico, con il prima e con il dopo»[49]. Detto altrimenti, secondo il filosofo tedesco, colui che, a nostro sommesso parere, più di altri ha ispirato la critica alla metafisica occidentale heideggeriana, il sapere filosofico ha da sempre assunto una forma duplice: (1) in tanto è stata una conoscenza indeterminata (poiché ha negato la presenza stessa di suoi presupposti); (2) in quanto ha ridotto l’alterità costitutiva delle cose al medesimo del concetto, prendendo in prestito forme espressive care a Lévinas. In questo modo, si è configurata da sempre come un sapere assoluto, indeterminato, razionale, pur non accettando di fare i conti sino in fondo con i suoi presupposti contingenti. Ma così facendo essa si è mostrata come violenza, stando alla posizione del suddetto Lèvinas e del suo allievo Derrida. Nella sua critica alla metafisica, infatti, sostiene come «Il concetto presuppone una anticipazione, un orizzonte in cui l’alterità si estingue quando si preannuncia e si lascia prevedere. L’infinitamente-altro non si collega in un concetto, non si pensa a cominciare da un orizzonte che è sempre orizzonte dello stesso»[50].
Come si vede, non si dispone di una risposta alla domanda contingente della presente sezione. È tuttavia chiaro come le determinazioni assunte dal postpensiero siano a tal punto paradossali da porre in questione la sua forma stessa. In altri termini, una teoria a-teorica continua ad essere una teoria? O piuttosto non è forse qualcos’altro? Detto altrimenti, non è che si continua a chiamare con il nome di “filosofia” qualcosa che filosofia non è? Ai posteri, forse, l’ardua sentenza.

Postfazione

Si ringrazia Fabio Milazzo per aver discusso con l’autore alcune parti rilevanti del presente scritto, in modo particolare sui confini e sul senso stesso del postmoderno.

Bibliografia

E. Agazzi, I compiti della ragione, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, pp. 3 – 9.
Aristotele, Dell’espressione, in Aristotele, Organon, Adelphi, Milano, 2003.
Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000.
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L. Borzacchini, Il computer di Platone. Alle origini del pensiero logico e matematico, Dedalo, Bari, 2005.
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[1] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
[2] Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 200419, p. 13.
[3] Cfr. F. Savater, Le domande della vita, Laterza, Roma – Bari, 20065, p. 39.
[4] Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722, p. 13.
[5] Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 20032, p. 701.
[6] Cfr. E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. 173.
[7] Cfr. G. Colli, op. cit., p. 97.
[8] Cfr. Parmenide, Sulla natura, Bompiani, Milano, 2001, p. 49 (fr. 6).
[9] Ivi, p. 45 (fr. 3).
[10] Cfr. G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze, 1977, pp. 64 – 5.
[11] Ivi, p. 66.
[12] Cfr. P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 16.
[13] Cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 40.
[17] Cfr. J. F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 23.
[18] Ivi, p. 24.
[19] Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 251.
[20] Cfr. Aristotele, Metafisica, G 7, 1011b.
[21] Cfr. Aristotele, Dell’espressione…op. cit., p. 59.
[22] Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari, 1966, p. 30.
[23] Ivi, p. 60.
[24] Cfr. E. Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano, 1995, p. 11.
[25] Cfr. L. Borzacchini, Il computer di Platone, Dedalo, Bari, 2005, p. 59.
[26] Cfr. D. Marconi, op. cit., p. 6.
[27] Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 237.
[28] Ivi, p. 22.
[29] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 20073, p. 116.
[30] Cfr. A. G. Gargani, Wittgenstein, Laterza, Roma – Bari, 1996, p. 36.
[31] Cfr. L. V. Tarca, op. cit., p. 78.
[32] Cfr. R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma – Bari, 2001, p. 10.
[33] Ivi, p. 13.
[34] Cfr. G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 23.
[35] Cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma – Bari, 2004 p. 178.
[36] Cfr. P. Palumbo, Cura della finitezza e inibizione della teoria nella filosofia del Novecento, Edizioni della Fondazione Nazionale «Vito Fazio-Allmayer», 2005, p. 15.
[37] Cfr. P. A. Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, in G. Vattimo – P. A. Rovatti (eds.), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 19886, p. 43.
[38] Cfr. A. Negri, Una filosofia farsa, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p.131.
[39] Cfr. P. Palumbo op. cit., pp. 15 – 6.
[40] Cfr. E. Agazzi, I compiti della ragione, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p. 6.
[41] Cfr. A. G. Gargani, Una conversazione solidale, in j. Jacobelli, op. cit., p. 76.
[42] Ivi, pp. 79 – 80.
[43] Cfr. L. Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, pp. 136 – 137.
[44] Cfr. G. Vattimo, Perché «debole», in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p. 187.
[45] Ivi, p. 188.
[46] Ivi, p. 189.
[47] Cfr. F. Rosenzweig, La stella redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 5.
[48] Cfr. V. Vitiello, Il dubbio e l’interrogazione, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, pp. 213 – 214.
[49] Cfr. S Quinzio, Debolezza in positivo, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma – Bari, 1986, p. 149.
[50] Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica, in J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971, p. 120.

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