(immagine tratta da: http://www.oasidellibro.it/wp-content/uploads/2011/02/La-Questione-Morale-Copertina-libro.jpg)
Il recente testo della De Monticelli affronta da un punto di vista teorico un argomento che, a proposito o, molto probabilmente, a sproposito, ha riguardato lo spazio pubblico delle retoriche della comunità nazionale negli ultimi anni.
Ne prendo spunto, però, non per ripresentare la recensione fattane in altra sede, ma per condurre alcune riflessioni sulla moralità generale degli italiani.
Piuttosto, appare davvero difficile rispondere alla questione seguente: cos’è la questione morale? Infatti, lo spettacolo pubblico che ci viene offerto, e quasi brandito, è di un tema utile ai più, per non dire a tutti. C’è chi lo utilizza contro gli avversari politici, chi, invece, ne fa una ragione di vita; chi, ancora, lo adopera quale instrumentum regni, come strumento per continuare a prosperare, chi invece lo intende in maniera molto “larga”, comprendendovi elementi del tutto estranei.
Succintamente, allora, possiamo dire che, in maniera molto confusa sul suo reale significato, gli uni lo usano contro gli altri per affermare una loro (presunta) superiorità morale; gli altri lo utilizzano, a loro volta, a fini livellatori contro gli uni; gli uni lo adoperano per unire (contro un nemico comune), gli altri, invece, per dividere. La questione morale diventa così mero strumento retorico alla stessa stregua di un altro argomento cult di questi anni: la casta (ma qual è davvero una casta? La politica? Prospettiva davvero riduttiva, per non dire risibile rispetto alla concentrazione di poteri in mano a pochi altri …).
La storia repubblicana degli ultimi vent’anni è percorsa da segnali preoccupanti di retoriche divisioniste, v’è persino un partito politico che ne fa ampio uso anche in senso chiaramente eversivo senza che un movimento di reprimenda si sia fatto vivo sinora, l’argomento della cosiddetta questione morale sembra rientrare in tale logica di potere o, se si preferisce, di “lotta per il potere”.
La De Monticelli se la prende con un costume italico che può vantare una ben precisa eredità vetusta e pesante, ma, a mio sommesso parere, il punto saliente non sarebbe neanche questo in quanto non sussiste, credo, alcuna struttura, alcuna istituzione di per sé votata ad agire non moralmente. Piuttosto, ritengo che il problema non sia nemmeno di mentalità, ma di volontà ai vertici e di strumenti di controllo e, se è il caso, anche di sanzione. Se davvero vogliamo esagerare, e pensare di conseguenza, che un malcostume sia davvero così generalizzato da meritare l’appellativo di “questione morale”, è bene concentrarsi piuttosto sulle sue cause, non si può far finta di nulla. Dalle mie parti si dice “senza il gatto i topi ballano”, lo stesso motto può essere traslato in chiave platonica e chiedersi “che fine hanno fatto i guardiani della Repubblica”? e non penso affatto agli intellettuali i quali, al massimo, possono solo limitarsi a meditare sulla situazione presente, senza però offrire alcuna proposta di soluzione né tantomeno un intervento diretto di soluzione del problema.
Insomma, penso che il problema stia tutto nella scomparsa degli organi di controllo, di vigilanza, di tutela. In loro assenza, ciascun s’ingegna più o meno come può: il piccolo nel piccolo, il grande nel grande. Così, lungi dal realizzarsi la metafora smithiana dell’autogoverno della società, si realizza la metafora negativa di Hobbes: homo homini lupus! Vale a dire che, ad esempio, e lo considero l’unico esempio davvero approssimabile all’argomento in questione di una vera e propria questione morale, se il fisco omette di controllare, di verificare, di indagare, perché il piccolo esercente dovrebbe pagare tutto quel che sarebbe dovuto? Chi lo costringe a non risparmiare almeno un po’? E il grande industriale perché dovrebbe pagare per intero quanto dovuto se può risparmiare, magari per la vecchiaia? Così, la scomparsa dei controllori, e dei relativi controlli, ha come effetto di sanzionare positivamente le differenze di nascita che dividono i membri di una società affatto orizzontale, ma verticale, ossia gerarchica, per elezione. In questo modo, i più forti diventano solo più forti, e i più deboli ancora più deboli. Poi però tra i più deboli ci sono comunque i più forti, e allora, a cascata, questi ultimi prevaricheranno a loro volta sui i più deboli, e così via.
Non è solo egoismo, è confusione sui valori. Infatti, mancando la necessaria chiarezza sui fini e sui valori, non tutti eguali, alcuni superiori, altri inferiori, altri nemmeno diritti dei soggetti, ciascuno può sentirsi autorizzato a fare come meglio crede, come se la propria libertà non avesse effetti sugli altri. Mancati i controllori, i controllati fanno come preferiscono. Ma l’interesse privato quasi mai, da solo, coincide, o può coincidere, con quello generale. La confusione tra “privato” e “generale”, tra “mio” e “pubblico” genera il malcostume italiano, per la vastità del fenomeno, dell’evasione fiscale, o, se si preferisce, dell’egoismo contributivo. Solo che finché a rubare sono in pochi, anche se su somme elevate, l’effetto è minore per la collettività. Ma se a rubare sono anche i piccoli, su somme esigue, ecco che l’effetto per la comunità è devastante: la mancanza di liquidità, anche per pagare le spese correnti. In questo scenario diventa difficile anche solo garantire i diritti essenziali.
Questa potrebbe essere la questione morale in Italia, ma temo che non sia la sola, o che, piuttosto, sia uno dei tanti comportamenti scorretti che vengono mandati ad effetto con relativa noncuranza.
Vi sono soluzioni? Certo che vi sono, a patto, però, di mettere da parte il proprio “particulare”, e guardare al pubblico non più come al nulla in comune, ma al tutto di tutti. Siamo in grado di fare ciò?
Dalla risposta che diamo, dipende il futuro che assicuriamo ai nostri figli, un mondo migliore o un mondo peggiore nel quale vivere.
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