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sabato 11 febbraio 2012

Recensione di Zagrebelsky

Quanto segue è un'anticipazione sulla pubblicazione prossima della mia recensione ad un recente testo di Gustavo Zagrebelsky.





G. Zagrebelsky (a cura di G. Caramore), Giuda. Il tradimento fedele, Einaudi, Torino, 2011, pp. 104.
(Recensione di Alessandro Pizzo)

Il presente volume, agile ed essenziale, indaga una delle caratteristiche proprie dell’essere umano, la «catastrofe dell’umano: tradire il giusto, accusare l’innocente, consegnarlo alle mani dei suoi carnefici» (p. iii). Pertanto, diventa fondamentale analizzare la figura di Giuda, il traditore per eccellenza, simbolo di «tutte le ombre del cuore umano» (p. vii), l’intima contraddizione che caratterizza ciascuno di noi, «il suo sogno di bene e la sua capacità di male, il baratro della disperazione e il sogno della redenzione, la deformità del tradimento […] e la domanda più radicale su Dio, se cioè la sua misericordia sia tale da poter accogliere e perdonare anche il colpevole più ripugnante» (pp. Vii – viii).
Esaminare la figura di Giuda vuol dire «guardarci senza nasconderci ciò che vediamo» (p. 5), gettare uno sguardo acuto su noi stessi, sino a sondare l’indicibile, l’inconfessabile, quel che dimora al fondo di ciascuno di noi. Il personaggio stesso è narrato senza molta frequenza, quasi che non volesse «lasciare un’impronta di sé» (p. 6). Gli evangelisti «gli dedicano pochissime parole alquanto insignificanti, oltre che non certo lusinghiere» (p. 6). Peraltro, muore da solo, appare come un solitario. Eppure faceva parte della comunità di Cristo, era stato scelto pure lui come tutti gli altri undici discepoli. L’immagine che ci viene narrata assicura una «damnatio memoriae» (p. 6). Tuttavia, nota Zagrebelsky, proprio questo suo anonimato, questo suo essere solitario, ci riconsegna una figura autentica di uomo. E, proprio perché autentico, Giuda «ci interpella immediatamente» (p. 6) sulla «nostra condizione di esseri umani» (p. 6). Egli costituisce una sorta di «nostro ‘doppio’ che ci svela un lato di noi che non amiamo vedere e, tanto meno, mettere in mostra» (p. 7). Detto altrimenti, Giuda è lo specchio esatto che riflette la nostra umanità, intimamente ambigua, in continuo oscillare tra estremi opposti.
Come tutte le figure bibliche, Giuda presenta un carattere enigmatico che rinvia alla nostra attualità concreta, egli è «uno degli intimi del Signore, divenuto sordido traditore del ‘giusto’ per mero denaro» (p. 9). Ma lo si può intendere anche come l’«atteggiamento dell’umanità intera, di fronte al divino che entra nella storia» (p. 9). Ed ancora, egli appare anche il «capro espiatorio del primo gruppo di discepoli» (p. 9). Tanto grande eppure tanto piccolo. O, se si preferisce, in tanto piccolo in quanto grande nella sua enigmatica vicenda esistenziale. In altri termini, «c’è nella vicenda di Giuda una sorta di coesistenza degli opposti, di oscillazione tra estremi» (p. 10), egli appare inopinatamente «il malefico per eccellenza ma anche l’artefice del piano del Signore» (p. 10). Infatti, egli tradì per denaro la scelta che di lui era stata compiuta, la fiducia accordatagli, il dono fattogli, e tuttavia fu solo grazie a questo, proprio al suo sordido tradimento, che si poterono adempiere le Scritture sul Messia, sulla missione salvifica del Figlio dell’Uomo. Fu grazie al tradimento di Giuda che la salvezza entrò nel Mondo dopo il tradimento dei progenitori. Pertanto, qui va colta l’ambiguità esistenziale di Giuda, l’alone spesso di mistero che ne circonda la figura, l’estremo enigma che la sua vicenda sembra presentarci, egli è «il reietto, ma, al tempo stesso, è il prescelto» (p. 16), reietto perché destinato «a una morte nella solitudine totale e nella disperazione della colpa irredimibile» (p. 16); l’eletto perché «per l’adempimento delle Scritture e il compimento della missione salvifica del Cristo, era necessario un ‘traditore’» (p. 16). Per poter comprendere meglio questo carattere estremo, e paradossale, di Giuda bisogna, però, a detta dell’autore, restituire al termine ‘tradimento’ il suo significato proprio, travolto nel corso dei secoli dalla polemica, ed ostilità, nei confronti di questa figura evangelica. Infatti, quando Cristo sceglie tra gli altri anche Giuda, Egli sa già del suo futuro tradimento. Allora, l’«elezione di Giuda tra i dodici avvenne ‘nonostante’ Gesù sapesse del suo tradimento in fieri o ‘proprio perché’ l’avrebbe tradito?» (p. 17). La scelta tra le due alternative non può che cadere sulla seconda possibilità, Gesù scelse Giuda proprio perché l’avrebbe tradito. Al di là della pubblicista, certamente orientata, che caratterizza i Vangeli in merito al ruolo di Giuda nell’adempimento delle Scritture, si può ragionevolmente intenderlo come uno zelota, ossia «il discepolo più acceso di speranza nella promessa di un messianismo politico» (p. 22). In tal senso, pertanto, «egli non sarebbe da considerare un traditore […] semmai […] un alleato di Gesù, uno che voleva accelerare gli eventi e vincere i segni di debolezza politica di Gesù» (p. 23). Allora, egli si sarebbe suicidato una volta constatato che il Messia non sarebbe stato affatto un condottiero politico potente, dato che Gesù si consegnò inerme ai persecutori. Accanto a questa interpretazione, suggestiva, ma di difficile accettazione, se ne può scorgere un’altra. Bisogna, però, volgere lo sguardo ai fatti della Passione. Infatti, «i discepoli ragionano in termini che dimostrano il fraintendimento profondo della natura della missione di Gesù» (p. 24), una disputa interna su chi fosse più grande e la concezione del tutto ebraica della sollevazione di Israele, della sua rigenerazione mondana, in questo tempo. In altri termini, neppure i suoi intimi sembrano aver compreso il reale messaggio del Maestro, farsi piccolo, condividere tutto della condizione umana, eccetto il peccato, fuorché la colpa, non condottiero di eserciti, ma operatore di misericordia, di amore gratuito universale.
Ma cosa vuol dire davvero ‘tradire’? Secondo Zagrebelsky, «semplicemente il consegnare, il dare in mano, il trasmettere, il tramandare» (p. 28). Pertanto, Giuda non tradisce, ma consegna Gesù; non tradisce, ma trasmette Gesù, ai persecutori e all’umanità intera; non tradisce, ma tramanda alla storia la figura e il messaggio salvifico di Cristo.
Quest’ultima interpretazione suggestiva, però, deve contemperarsi con una considerazione ulteriore non eliminabile. Infatti, Giuda si pente. Di cosa? Di essere stato mezzo dell’adempimento della promessa di Salvezza? Di aver consegnato agli uomini, alla storia, la buona novella? Ciò non avrebbe senso. Eppure, ci viene comunque presentato come colui che prova «orrore per il prezzo del sangue del giusto» (p. 43). Egli torna dai sacerdoti per restituire il maltolto, i trenta danari, il prezzo di uno schiavo. Come mai? Egli è pentito. Prova orrore di quanto fatto e vorrebbe restituire quanto avuto per vendere-tradire-consegnare il Maestro. In fin dei conti, Giuda vorrebbe tornare indietro, annullare la catena di eventi che ha messo in azione. Ma non si può arrestare la sequela di avvenimenti messi in moto. E tuttavia egli non riesce nemmeno a proiettarsi in avanti, ad immaginarsi un futuro, un avvenire. Giuda è disperato, si identifica con la disperazione, con il non avere via d’uscita. Pertanto, suggerisce Zagrebelsky, sembra che il vero peccato imputato a Giuda «non è il tradimento, l’aver consegnato il Cristo nelle mani di coloro che lo avrebbero condannato a morte, ma l’aver negato con il suicidio una delle grandi virtù divine, forse il connotato maggiore del Dio cristiano: la misericordia» (p. 44). E in questa chiosa, però, si nota anche come pure Giuda, in fin dei conti, alla pari degli altri discepoli, non ha compreso il messaggio di Cristo.
In genere, l’emblema del tradimento viene raffigurato nel bacio con il quale Giuda indica ai soldati l’uomo da prendere. Come mai un bacio? Perché proprio quel tipo di saluto? Giuda faceva parte della cerchia di Cristo. Eppure, scompare dopo l’ultima Cena, durante la quale Cristo stesso invita Giuda a fare quanto si proponeva. Giuda non dorme sul Getsemani, non fa più parte della congrega. Eppure, torna e saluta così intimamente il Maestro, sia pure per tradirlo. Giuda resta libero di compiere quanto effettivamente fa. Senza libertà, non sarebbe responsabile delle sue azioni. E senza accettazione libera del messaggio evangelico, non potrebbe neppure esservi salvezza. Allora, pur venendo tra i suoi, Gesù non viene accolto, non viene riconosciuto. Giuda è uno dei suoi, ma anche la profonda espressione del carattere umano, il rifiuto di Dio. Pertanto, «Giuda è il simbolo del mondo del peccato» (p. 59). E tuttavia resta l’enigma di fondo: mezzo libero della volontà divina o mezzo necessitato della stessa? Ad ogni modo, si vede come tanto Gesù quanto Giuda siano accomunati nel momento della morte, «pendono entrambi dal legno» (p. 67), a voler significare «la convergenza delle vie di entrambi e l’unità del disegno in cui, a diverso titolo, sono stati coinvolti» (p. 67). Stranamente, allora, i due destini, incrociati sin dall’inizio, si riconciliano. Sostiene l’autore, il «suicidio di Giuda non sarebbe così un atto di estrema solitudine ma, al contrario, di comunione» (p. 67). Si apre, così, il nesso paradossale, ma carico di valore simbolico, dell’eletto e del dannato.
Ambiguo sino alla fine, ambiguo proprio nei momenti capitali della vicenda evangelica, Giuda rappresenta una duplicità, il peccatore e il coadiutore. Egli «ha preso su di sé tutto il tradimento del mondo, per renderlo fedele» (p. 74). Come Cristo ha assunto su di sé le colpe degli uomini per restituire loro la virginità morale, così Giuda ha assunto su di sé i tradimenti umani per restituire agli uomini la loro fedeltà al Signore. Nel far questo, nemmeno nel momento più solenne, Giuda non si è tirato indietro, non è arretrato. Si può, allora, forse dire che egli fosse «il prescelto per essere reietto, in quanto egli solo era abbastanza forte per ‘tradire’» (p. 76). Si tratta, certo, di congetture le quali tentano di scavare nell’enigma profondo della figura di Giuda. Eppure, al termine dell’indagine suggestiva propostaci, non possiamo che riconoscere comunque una maggiore umanità in Giuda, una sua fratellanza, «nel tradimento ma anche comunanza di fede nella promessa del Cristo di non venire a mancare per nessuno» (pp. 93 – 4). Un messaggio di futura riconciliazione, di rinnovata comunione. E d’altra parte, è proprio questa una delle verità del messaggio evangelico: l’amore va oltre le divisioni e rimuove le cause delle separazioni. Se non si perdona a Giuda la colpa commessa, quale titolo di cristiano si può invocare?

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