1.
Il testo, in breve.
La
guerra […] la catastrofe che
sempre
ha inghiottito uomini e civiltà,
che
sempre ha travolto le regole della vita associata,
e
mai le ha salvate, è stata alle origini
della
domanda di storia[*]
Il
volume, a cura di Massimo Giuliani, di E. L. Fackenheim, Olocausto,
Morcelliana, Brescia, 2011, pp. 66, è la traduzione italiana del
testo inglese Holocaust edito originariamente nel 1987.
(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/31q3fsCkRZL._SL500_AA240_.jpg)
Dopo
l'introduzione di Giuliani, che presenta succintamente l'opera
complessiva dell'autore, toccante l'argomento certo ostico della
Shoah, segue la lucida opera di Fackenheim.
L'autore
sottolinea come il temine 'Olocausto' venga adoperato erroneamente
per indicare il triste e doloroso destino che è toccato in sorte
agli ebrei durante la dittatura nazista. Egli considera, infatti,
“più adeguato”[1] il termine ebraico Shoah, distruzione
totale, perché nessun analogo tra la distruzione perpetrata
dai nazisti e la storia ebraica è ravvisabile in tal senso. Non
avrebbe, peraltro, nessuna correttezza equiparare la pratica della
cremazione di neonati, e infanti, ebrei ancora in vita, con
“gli officianti dell'antico culto di Moloch”[2]. Anche perché i
tedeschi non bruciavano i loro figli, “per un atto non di
sacrificio, ma di mero assassinio”[3].
Fackenheim
passa, a quel punto, a chiedersi se la Shoah sia da considerarsi, o
meno, “un evento unico”[4]. precisa così subito come
preferisca di gran lunga l'aggettivo “senza precedenti”[5]
perché consente di evitare “la tentazione di estrapolare l'evento
dalla storia stessa e dunque il rischio di mistificarlo”[6]. E' pur
vero, osserva l'autore, come la storia faccia mostra di innumerevoli
stermini di massa, di veri e propri genocidi, ma nel caso di
quello ebraico sono da ravvisare gli estremi dell'unicità. La
Shoah, infatti, per le modalità con le quali venne
progettata, pianificata, organizzata e realizzata, “è senza
precedenti”[7].
Pur
alludendo brevemente alle ben note questioni circa la folta schiera
di operatori, improvvisamente diventati smemorati al riguardo, che
hanno partecipato alla numerosissima catena di responsabili, secondo
responsabilità diverse, l'autore si pone la domanda cruciale sulla
Shoah: quale fu il suo perché? Già nel suo Mein Kampf,
Hitler profetizzava la realizzazione della soluzione finale
per il tramite della presa del potere da parte del partito
nazionalcosocialista. Ciò significa anche che mai “prima d'ora
nella storia uno Stato aveva tentato di rimuovere completamente da un
intero paese, anzi da un intero continente, ogni singolo appartenente
a un intero popolo, che fosse uomo, donna o bambino”[8]. Uno
sterminio di così elevate proporzioni porta a credere che sia
impossibile “che, una volta accaduto tutto ciò, la storia del
mondo possa mai essere la stessa”[9]. L'Olocausto è un evento “di
una portata non immaginabile. E tuttavia è stato ed è parte della
storia del mondo”[10].
La
Shoah non va pertanto né mitizzata, perché la si
collocherebbe in un orizzonte al di fuori della storia, traendo fuori
dall'impaccio quanti non riescono a vederla come un fatto storico, né
narrarla solo teoricamente, perché così non la si storicizzerebbe.
Al contrario, essa va considerata un evento storico nonostante le sue
tremende proporzioni.
E
tuttavia non vi sono spiegazioni singoli e semplici per rispondere
alla domanda sul perché. Di conseguenza, l'autore si
concentra sulla nozione di umanità, la stessa che
scientificamente i nazisti cercarono di sradicare, di eliminare, di
nullificare, di rendere nulla. L'invenzione della nuova, ed inedita,
forma di vita per i destinati all'eliminazione, né vivi né morti,
ma muselmann, “il prigioniero prossimo alla morte, il quasi
cadavere ambulante ormai solo pelle e ossa, un morto vivente”[11].
Il
folle progetto nazista di rovesciare l'originario progetto divino
della creazione, inscenando la pazzesca farsa dell'anti –
creazione, con la progressiva sostituzione della razza ariana in
luogo di quella ebraica nell'elezione a popolo di Dio, pone la
domanda radicale sul male. Una questione che può anche essere
considerata il leit – motiv delle interpretazioni sulla
Shoah, lo scandalo sempre risorgente dell'umanità intera sin
dalla notte dei tempi. Perché il male? Perché il malum mundi
ha assunto le forme inimmaginabili di Auschwitz? Perché il male
ha investito in una maniera così asimettrica un solo popolo?
Peraltro, il popolo di Dio?
La
Shoah fu certamente un male. Ma di che natura? Altri
commentatori ebraici hanno ravvisato nell'operato dei nazisti la
natura banale del male, un male che nella sua
gradualità di passaggi burocratici ad opera di gente qualunque e
nella sua gratuità, non come risposta impulsiva ad offese, appare
banalmente quotidiano, privo cioè di qualsiasi giustificazione in
nome di principi elevati oppure privo di movente titanico. Ma,
avverte Fackenheim, il “male è banale a motivo non della natura
dei crimini ma delle persone che li commettono”[12]. La graduale
processualità, tutta moderna, attraverso la quale il progetto
nazista di palingenesi umana è stata messa in pratica,
seguendo la semplice scansione lineare della concentrazione,
degradazione, tortura, eliminazione, rende forse
banale, perché facilmente prevedibile l'esito conclusivo del
processo, non più produttivo, ma distruttivo.
E
tuttavia l'operato nazista è banale anche per un'altra ragione: si
compiva il male non in vista di un fine ulteriore, magari superiore,
ma degradazione, tortura ed eliminazione “erano
la sua intera essenza”[13]. Un progetto criminale che immanentizza
in sé il proprio scopo. Se, sbagliando, Heidegger non coglieva
differenze sostanziali tra come gli ebrei vennero eliminati nel corso
della Shoah e la coeva civiltà della tecnica, è pur vero,
però, che l'immane tragedia cascata sulle spalle degli ebrei è in
qualche modo anche il loro transito nell'età moderna: disumanizzati
a mere parti del processo produttivo della nazione ariana.
L'Olocasuto,
pertanto, “non è solo un evento storico di portata mondiale: è
anche uno «spartiacque»,
una «cesura»
o una «interruzione»
nella storia dell'uomo sulla terra”[14].
Se
la storia, pertanto, deve fare i conti con il novum
imposto dalla Shoah,
può forse dirsi lo stesso per la teologia?
Quest'ultima è certamente legata con la storia. Allora, cosa
comporta anche per essa la tragedia ebraica? La risposta, per
Fackenheim, coinvolge anche i non ebrei, i cristiani in primo luogo,
dato che dopo la Shoah
i cristiani non possono più pretendere di convertire gli ebrei, ma
devono riconoscere “che
l'Olocausto ha segnato un'interruzione nella loro fede”[15],
altrimenti si finirebbe esclusivamente con il non riconoscere la
natura propria dell'Olocasuto.
E
tuttavia qualcosa di analogo vale anche per la teologia ebraica la
quale distingue solo adesso tra una teologia della galut,
della Diaspora,
dell'esilio in terra
straniera, e una
teologia del ritorno nella propria terra. La tradizionale soluzione
della questione
ebraica
poteva in genere consistere nell'espulsione dell'ebreo dalla terra
d'esilio oppure nella ghettizzazione in quartieri appositi, come
suggerisce Arendt analizzando l'operato di Eichmann. Ma l'Olocausto
non è stato un enorme progrom né tantomento un'espulsione di massa.
Prende così forma l'idea di un ritorno a Canaan, in Palestina, e non
più considerato come un “peccato” di sionismo, ma come
espiazione del male subito, ultimo rifugio
dalle sempre possibili persecuzioni ad opera dei gentili.
Bisogna, cioè “prendere
congedo, senza rimpianti e con determinazione, dal giudaismo
dell'esilio”[16].
E ancora, “il popolo ebraico ha esperito l'esilio in una forma più
orribile di quanto avesse mai immaginato, oltre ogni incubo
apocalittico; dopo tali eventi, porre fine all'esilio significa
esprimere una volontà di vita e una fedeltà alla vita che, prese
insieme, danno una nuova dimensione alla stessa pietà”[17].
Questa fedeltà
produce, pertanto, lo Stato
ebraico[18].
Segue
infine una postfazione, ad opera di Giuliani che introduce al
tema del tiqqun, la riparazione del mondo
come atto di fiducia nella responsabilità umana, tanto caro a
Fackenheim.
2.
La Shoah, succintamente.
Monica
Dal Maso, se mai ce ne fosse il bisogno, ci avverte della profonda
cesura storica causata dalla Shoah,
non solamente per la cultura ebraica in generale, ma per l'intera
cultura umana, tra un “prima” e un “dopo” Auschwitz,
scontando l'impossibilità del linguaggio a descrivere,
spiegare, comprendere
l'evento in questione[19]. Dello stesso tenore sono le riflessioni di
Adinolfi[20] e Giuliani[21], per tacere della profonda notte calata
sulle menti occidentali secondo Jonas[22].
Sicuramente,
l'opera de de-umanizzazione di milioni di persone, prima ancora che
la loro effettiva eliminazione materiale, la sostanziale impresa
diabolica di anti-creazione, non ha né eguali né semplici categorie
di analisi e comprensione, ma non è affatto né incomprensibile né
non descrivibile.
Non
condivido in merito quella che considero, a torto o a ragione, la
facile retorica del silenzio
su Auschwitz, assurto ormai a cifra simbolica di quella disimmetria
che istituisce l'evento – Shoah come rottura nella continuità
storica. Anzi, non considero nemmeno, senza nulla togliere alle
vittime, questo evento un'interruzione della storia nel senso che si
dovrebbe ora distinguere tra prima e
dopo. Certo, fu
comunque un evento unico, ma ciò non deve condurre alla facile, se
non anche comoda, per non fare i dovuti conti con la propria
coscienza, resa al silenzio. Della Shoah
si può, e si deve parlare, pur nel rispetto per quanti vi vennero
inghiottiti, perché essa va storicizzata, ossia collocata ov'è la
sua sede naturale: la storia degli uomini.
Sarebbe facile, e comodo, infatti, porla fuori
dalla storia, come un evento de-situato, incomprensibile, insensato,
non-umano, e farne un'agevole metafora
della tecnocrazia occidentale, come, pare, l'intese, e non a caso,
Heidegger.
Se
le parole dicono ancora qualcosa, e lo dicono, bastano, per farsi
anche solo un'idea di quel che fu la Shoah
le parole di Levi, testimone diretto di quella sciagura:
Voi
che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno
Meditate che questo è stato
Vi comando queste parole
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi[23]
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno
Meditate che questo è stato
Vi comando queste parole
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi[23]
Di fronte a tanto dolore e a
tanta sofferenza ingiustificata, si fa avanti la suggestione del
'silenzio'. Le sue ragioni sono ben esposte da Minazzi:
perché il silenzio?
Proprio perché non esisterebbero parole adatte nei nostri vocabolari
per esprimere tutto il nostro orrore, tutta la nostra sofferenza,
tutta la nostra angoscia, tutto il nostro dolore[24]
E allora mi chiedo:
basterebbe il silenzio a rendere giustizia? É sufficiente il
silenzio per lavarci la coscienza? È adeguato il silenzio
per render conto, sia pure parzialmente e tra mille difficoltà,
della sciagura occorsa?
Al contrario di
tanta retorica, facile ed opportunista, dalle mille angolazioni
possibili, ritengo che, al contrario, della Shoah sia non solo
doveroso, ma anche possibile parlare, pur nella profonda convinzione
che parliamo noi solo ora ad esperienza storicamente conclusa e senza
coinvolgimenti diretti.
Ma sarebbe troppo
pretendere che ciò possa togliere qualcosa alla sensatezza ed
importanza delle nostre riflessioni al riguardo.
3.
L'avvenire, dopo la Galut.
Per
Emil Fackenheim la Shoah
divide la catena causale del tempo in due parti, (1) un “prima”;
e, (2) un “dopo”. Ebraicamente, egli distingue, per ovvia
conseguenza, tra (a) l'ebraismo, inteso in senso lato come “cultura”
che istituisce l'identità di un popolo, prima della Shoah;
e, (b) l'ebraismo, nella medesima accezione di sopra, dopo la Shoah.
Pertanto, sino al Secondo
Conflitto Mondiale l'ebraismo vive la condizione della galut,
dell'esilio, a seguito della Diaspora,
Israele tra le genti, tra i gentiles,
dopo non è più possibile pensarlo alla stessa maniera, le categorie
antropologiche,
concettuali,
teologiche che
contraddistinguevano l'ebraismo dell'esilio
non valgono più, appaiono superate dagli eventi luttuosi successivi,
insensate rispetto all'impensabile inimmaginabile accaduto in
seguito.
Dopo
la Shoah, anche per
evitare futuri nuovi e risorgenti tentativi di annientare il popolo
ebraico, è diventato necessario fondare lo Stato
ebraico, trasformando
il precedente peccato
di sionismo in una
virtù: tornare nella
Terra promessa, nella sede naturale intesa quale ricompensa
dell'Alleanza tra Dio e il suo Popolo. Tant'è vero che egli conclude
icasticamente il breve volume con le seguenti parole:
Se sull'onda
dell'Olocausto non fosse già sorto uno Stato ebraico, sarebbe una
necessità religiosa (seppure, con legittimo timore, una
quasi-impossibilità politica) crearlo ora[25]
Storicamente il
“ritorno” in Israele ha origine come risposta umana al tentativo
di cancellarlo per sempre dalla faccia della Terra. Ciò si carica di
simboli non solo storici, ma anche religiosi: Israele avrà
ora una casa sua, e non vagherà più come estraneo tra le case dei
gentili. Solo uno Stato ebraico è diventato la miglior garanzia
contro la tentazione, sempre risorgente, di eliminare gli ebrei.
4.
Cambiale in bianco per lo Stato di Israele?
Se lo stato Ebraico è strumento
di difesa degli ebrei nel mondo dai tentativi di eliminarli, come va
considerata la posteriore condotta dello Stesso, soprattutto in
politica estera, nei confronti degli arabi con i quali (con-)divide
lo stesso territorio? Questo è un grosso problema, che ciascuna
parte ha interpretato nel corso del tempo in maniera diversa, e quasi
sempre parziale, parteggiando ciascuno per la propria gente, per i
propri interessi, ristretti ancorché legittimi.
Non intendo certo criticare gli
uni e gli altri, ma solo soffermarmi su una condizione pericolosa
che, se rivendicata, può fungere da utile alibi morale per
legittimare condotte aggressive.
Lo Stato ebraico nasce come
soluzione al problema delle persecuzioni storiche nei confronti degli
ebrei: uno Stato che possa difenderli[26]. Peraltro, gli ebrei sono
le vittime storiche non solo di molte persecuzioni, ma anche le
vittime della Shoah, la più grande sciagura della storia del
secolo XX! Allora, si potrebbe suggerire che nessuno, a meno che non
sia anch'egli ebreo, possa sindacare la condotta di Israele.
Peraltro, se qualcuno
malauguratamente vorrebbe criticare le scelte israeliane potrebbe
essere considerato un “nemico” di Israele, un nuovo nazista
che rinnova il sacrificio – benché, ovviamente, questa
locuzione non venga universalmente accettata dalla cultura ebraica se
accostata alle vittime della Shoah – perpetrato ad
Auschwitz, e in simili sedi di sterminio. O si è sionisti,
ossia amici degli israeliani, oppure si è anti – sinionisti,
ossia nemici degli israeliani. Basta scorrere la storia del Medio –
oriente degli ultimi sessant'anni per scorgere l'azione funesta di
questa pericolosa dicotomia, di questa opposizione manichea, tanto
semplice quanto fuorviante.
Si può osservare, ad esempio,
come la tendenza sionista a ricostituire uno Stato ebraico in Terra
Santa fosse in atto già prima dell'inizio del XX sec. Quando, cioè,
ebbe inizio un'immigrazione in Palestina di esuli ebrei provenienti
in massima parte dalla Russia[27]. Il sionismo, cioè, è una
ben precisa teoria politica, formulata da Moses Hess,
Judah Alkalai, Zvi Hirsch Kalischer e Theodor Herzl, secondo la quale
bisognava procedere ad una «ricostruzione
di una patria nazionale per il popolo ebraico sulla sua antica terra,
la Terra di Israele»[28].
Pertanto,
la Shoah
aggiunse solamente una sorta di giustificazione storica posteriore ad
una tendenza in corso già a partire dal 1880 circa. Un'immigrazione
la quale, comunque, non poteva che generare attriti con la
popolazione autoctona ivi residente. Da questo punto di vista, sembra
proprio come la teoria sionista sia l'analogo ebraico dei
nazionalismi
di fine XIX secolo, con la differenza, però, che gli ebrei, sin dal
70 d. C., erano privi di una casa propria, di uno Stato, erano,
forse, una nazione,
ma privi di una compagine statuale adeguata. E proprio il loro
tentativo di dotarsi di uno Stato, avrebbe influenzato profondamente
gli arabi palestinesi i quali avrebbero, a loro volta, interiorizzato
l'idea di uno Stato arabo per la nazione palestinese.
Gli stessi sionisti erano
consapevoli sin dall'inizio della difficoltà di costruire uno Stato
ebraico dal nulla dal momento che in Palestina non v'erano affatto
spazi incontaminati e valli disabitate. Come afferma Morris:
Come avrebbe potuto
il sionismo trasformare la Palestina in uno Stato «ebraico», se la
stragrande maggioranza della sua popolazione era araba?[29]
Gli
ebrei non si trasferivano in una terra disabitata, magari rimasta
tale dopo la loro partenza per l'esilio forzato in terre straniere,
ma in località abitate da generazioni e generazioni da autoctoni di
religione musulmana. Pertanto, per dare seguito alla loro idea
politica, foraggiata da inevitabili rimandi simbolici al loro passato
storico in quegli stessi luoghi, dietro all'immagine simbolica del
ritorno alla Terra promessa, i sionisti decisero di insediarsi
all'interno di un territorio non disponibile, di località già
occupate stanzialmente da una popolazione eterogenea. Come dare
corso, allora, a tale progettualità politica? Come fondare ex
novo uno Stato ebraico
che sostituisse lo stato vigente? Sin dagli inizi del movimento
sionista, pertanto, prese corpo l'idea di un'espulsione della locale
popolazione autoctona, araba, verso i paesi confinanti. Come scrive
al riguardo Morris: «La soluzione più ovvia consisteva
nell'emigrazione o «trasferimento» degli arabi. Questo poteva
essere effettuato con la forza, cioè con l'espulsione, poteva essere
organizzato su base volontaria, inducendo gli arabi ad andarsene
spontaneamente, oppure fondendo insieme i due metodi»[30].
Quel
che accadde, allora, non fu che gli ebrei tornarono pacificamente
nella terra di un tempo lontano, ma che occuparono un suolo già
abitato da altri, e che questi “altri” vennero in gran parte
allontanati, spontaneamente, sotto minaccia o forzatamente in un arco
di tempo relativamente breve, dagli anni '30 al 1948 circa. Infatti,
aggiunge ancora Morris: «Le diffuse ipotesi sulle possibilità di un
trasferimento negli anni Trenta e Quaranta avevano preparato e
condizionato cuori e menti alla sua attuazione nel corso del 1948,
per cui, quando questa avvenne, ci furono poche voci di protesta e di
dubbio; il trasferimento venne accettato come inevitabile e naturale
dalla massa della popolazione ebraica»[31]. Peraltro, l'opposizione
dei palestinesi a questa soluzione e il contemporaneo tentativo
panarabo di attaccare Israele nel maggio del 1948, «contribuirono a
indurire i cuori degli ebrei nei confronti dei palestinesi arabi,
considerati nemici mortali che, se fossero stati ammessi nello Stato
israeliano, sarebbero stati una potenziale quinta colonna»[32].
La cifra più
accreditata circa l'esilio degli arabi palestinesi a causa del
ritorno degli ebrei in Patria si attesta intorno al Milione di
profughi, arabi che da tempo immemorabile dimoravano in quei
territori, in quelle valli, in quelle pianure, e che in brevissimo
tempo si trovarono espulsi dalle loro case, dai loro campi, dai
villaggi natii.
Forse per un moto di
orgoglio identitario, lo stesso Morris conclude il suo volume con le
seguenti parole, che suonano, forse, più come auto-assoluzione degli
israeliani nei confronti delle loro colpe nella gestione degli arabi
palestinesi residenti in Palestina già prima del ritorno degli
ebrei:
La prima guerra
arabo-israeliana, quella del 1948, fu sferrata dai palestinesi arabi,
i quali respinsero la risoluzione delle Nazioni Unite per la
spartizione e si impegnarono a impedire la nascita di Israele con la
forza. Fu quella guerra, e non un disegno ebraico o arabo, a far
sorgere il problema dei profughu palestinesi. Ma il trasferimento
degli arabi dalla Palestina o dalle zone della Palestina che
avrebbero costituito lo Stato di Israele era parte integrante
dell'ideologia sionista e della prassi del sionismo, fin dall'inizio
della sua attività […] prima della guerra non esisteva alcun piano
sionista di espellere «gli arabi» dalla Palestina o dalle zone
dell'emergente Stato di Israele[33]
Morris è piuttosto
onesto nell'ammettere che l'espulsione degli arabi dalla Palestina
era una conseguenza necessaria, ed abbastanza automatica, del
progetto sionista di ricostituzione del fu Stato ebraico, dopo secoli
di assenza. É piuttosto indulgente, invece, quando deve affrontare
il nodo della questione arabo – palestinese: di chi la colpa di un
milione di profughi? Gli ebrei non tornarono semplicemente in una
terra loro disponibile, ma la sottrassero, più o meno violentemente,
ad una popolazione autoctona che vi dimorava sopra da tempo
immemorabile. Dire che l'espulsione fu un “caso” involuto del
ritorno ebraico nella Terra promessa suona un po' ipocrita, ma è il
massimo che legittimamente si può chiedere ad uno storico ebreo.
Certo
fa un po' impressione valutare l'atteggiamento degli ebrei nei
confronti degli arabi di Palestina, prima e dopo il Secondo Conflitto
Mondiale. Anche perché, a ben vedere, la creazione ex
novo dello Stato di
Israele non può venir intesa quale una parziale, e tardiva,
riparazione al torto secolare fatto agli ebrei. Come ci ricorda,
infatti, Küng:
Lo
Stato di Israele non è affatto, come spesso pensano i non ebrei, il
risultato dell'Olocausto. Anche senza Hitler ci sarebbe stato uno
stato di Israele! Da secoli gli ebrei attendevano […] la
ricostituzione del regno di Israele […] il sionismo è un movimento
politico – sociale che vuole promuovere l'istituzione di uno stato
ebraico (non importa se in Palestina o altrove) «dal basso», quindi
mediante iniziative e azioni umane […] Il sionismo politico non è,
quindi, soltanto una reazione all'antisemitismo razzista. Esso è
piuttosto da vedere in connessione con l'illuminismo ebraico […]
del secolo XVIII, ma anche con le idee nazionalistiche romantiche e
con l'avvento del nazionalismo tra i popoli europei del secolo
XIX[34]
Se
la nascita dello Stato d'Israele viene distinta dalla Shoah,
viene meno un certo alibi, dalle dimensioni molto estese, che poteva
coprire molte delle azioni israeliane in Medio – Oriente. Ma ciò
consente anche di evitare le strettoie, quasi inevitabili, del
dualismo manicheo di cui sopra: si può criticare l'azione dello
Stato ebraico senza per questo essere antisionista, o, peggio,
razzista.
5.
Conclusioni
Sicuramente, gli
ebrei sono state le vittime sacrificali di un orgoglio occidentale, e
non solo, che difficilmente poteva tollerare la loro differenza
culturale così gelosamente custodita e tramandata, le vittime da
maltrattare, uccidere, eliminare lungo i secoli della sanguinosa
storia umana. E sicuramente hanno anche patito una sorta di
distruzione su scala industriale, durante l'ultimo conflitto
mondiale, che non ha certo precedenti storici. Ma non è affatto
vero, oggi che son passati sessant'anni da allora, che per
sopravvivere l'ebraismo abbia bisogno di uno Stato nazionale né
tanto meno che questo Stato debba avere un'identità peculiarmente
ebraica.
Voglio dire: perché
deve trattarsi di Stato che si fondi sulla distinzione tra 'ebreo' e
'non ebreo'? Perché non pensare piuttosto ad uno stato multietnico?
D'altra parte,
decostruita, per così dire, la pretesa sionista di riparare ai torti
secolari del passato con la costruzione di uno Stato ebraico, perché
continuare a pensare a due popoli per uno stesso (piccolo) spazio
territoriale? Perché non pensare invece ad un unico stato per due
popoli? Perché non disinnescare uno dei principali motivi di
rivalsa, e di vendetta, di una onnivaga identità panaraba che si
costituisce proprio per differenza e in negativo?
Quando gli
israeliani saranno capaci di tanto allora renderanno onore ai loro
stessi caduti e al buon nome che portano, come coloro i quali sono
stati eletti all'Allenza, ponte storico tra cielo e terra,
radice che porta buoni frutti, per sé stessi e per i gentili.
La chiusura
all'interno del proprio spazio concettuale, staccato dal resto del
mondo, non rende giustizia all'aspirazione universalista che da
sempre attraversa la coscienza ebraica nel dissidio fondamentale di
essere parte del mondo ma diversi dal mondo stesso. Come siamo
lontani, infatti, dal tono universalistico di Rosenzweig per il quale
esprime parole puntuali la Kajon:
il particolare e
l'universale, nell'orientamento di Rosenzweig, non possono essere
disgiunti: ciascuna esistenza individuale, collocata ad un certo
punto dello spazio e del tempo e avente certi caratteri, può
raggiungere, attraverso l'affetto puro dell'amore, la verità nel
momento in cui incontra l'altro essere umano, e testimoniare tale
verità nel mondo nel modo che è a essa peculiare[35]
Questo accade, da un
punto squisitamente filosofico, perché Rosenzweig ben interpreta
quel retroterra culturale ebraico del quale egli stesso è
espressione, e secondo il quale ben accetto al Signore è colui che
mostra fraternità nei confronti del povero, della vedova,
dell'orfano. Una strutturazione ben precisa dell'alterità
la quale abbraccia qualsiasi essere umano sia il nostro prossimo.
Una curvatura
universalista che ben si attaglia con il kantismo che molti scorgono
nella riflessione lévinasiana sull'etica: un modo per trasformare
l'ontologia (imperialista) in etica, in rispetto per l'altro in
quanto altro, per rispettarlo e conservarlo nella sua ipseità,
nella sua diversità costitutiva e trascendente rispetto a me che lo
penso[36]. Non a caso, forse, Lévinas trae origine nella sua
originale speculazione proprio dalla triste esperienza diretta della
Shoah e, di conseguenza, mira a disarmare qualsiasi filosofia
futura che intenda render nuovamente possibile un progetto di morte
come quello nazista.
Non è forse anche
questo render giustizia ai sei milioni di ebrei passati per i campi
nazisti? Non è forse anche questo un render giustizia a quella vita
cui comunque s'indirizzano tutti i nostri passi, come asserisce anche
Rosenzweig?[37]
(immagine tratta da: http://img4.libreriauniversitaria.it/BIT/240/239/9788834312391.jpg)
NOTE
[*]
Cfr. W. Barberis, Postfazione,
a: P. Levi, I sommersi e i salvati,
Einaudi, Torino, 2007, p. 172.
[1]
Cfr. E. L. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2011,
p. 17.
[2]
Ibidem.
[3]
Supra.
[4]
Ibidem.
[5]
Supra.
[6]
Ibidem.
[7]
Ivi, p. 19.
[8]
Ivi, pp. 21 – 2.
[9]
Ivi, p. 22.
[10]
Ibidem.
[11]
Ivi, p. 25.
[12]
Ivi, p. 26.
[13]
Ivi, p. 27.
[14]
Ibidem.
[15]
Ivi, p. 29.
[16]
Ivi, p. 34.
[17]
Ivi, pp. 35 – 6.
[18]
Ivi, p. 36.
[19]
Cfr. M. Dal Maso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero
ebraico di fronte alla Shoah,
Messaggero di Sant'Antonio, Padova, 2007, p. 21 e sgg.
[20]
Cfr. I. Adinolfi,
Introduzione, a: I.
Adinolfi (a cura di), Dopo
la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero,
Carocci, Roma, 2011, p. 11.
[21]
Cfr. M. Giuliani,
Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie
dell'Olocausto»,
Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 20 – 1: «Raccontare è comunicare
un senso. È più che scommettere che la propria parola arrivi
sensata e credibile all'altro: è un vero e proprio atto di fede.
Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrabile sia
sensato e credibile. Se Auschwitz è il regno del non – senso […]
ci troviamo dinanzi all'impossibilità strutturale di trovare un
linguaggio che risponda ai caratteri propri di ogni linguaggio umano.
Siamo condannati al non-linguaggio, al silenzio perpetuo. La cifra
del silenzio perpetuo è la stessa cifra del non-senso: è la morte.
Chi può negare che qui stia la radice di ogni scacco alla ragione e
alla parola? Poiché Auschwitz fu la più grande «festa della morte»
che l'uomo abbia allestito per l'uomo nel corso della storia (in così
pochi anni!), questo luogo assurge […] a cifra del silenzio
perpetuo. Nessuno simbolo ha diritto a rappresentarlo – cioè,
nessun simbolo del senso. Dare un senso ad Auschwitz è idolatria, è
blasfemia […] Auschwitz è e deve restare la cifra della negazione
di ogni senso – umano o divino che sia».
[22]
Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce
ebraica, Il Melangolo, Genova,
200413,
p. p. 20 e sgg.
[23] Cfr. P. Levi, Se questo è
un uomo, Einaudi, Torino, 2005, p. 7.
[24]
Cfr. F. Minazzi, Filosofia della Shoah. Pensare Auschwitz:
per un'analitica dell'annientamento nazista,
Giuntina, Firenze, 2006, p. 29.
[25]
Cfr. E. L. Fackenheim, op. cit.,
p. 36.
[26]
Cfr. B. Morris, Esilio. Israele e l'esodo palestinese,
Rizzoli, Milano, 2005, p. 82: «le
notizie sull'Olocausto in corso che arrivarono gradualmente
dall'Europa occupata dai nazisti durante la seconda metà del
conflitto provocarono di certo crisi di coscienza fra i politici e i
funzionari occidentali e sottolinearono l'urgenza di una soluzione
del problema ebraico in Europa con la costituzione di un rifugio
sicuro in Palestina».
[27]
Ivi, p. 37.
[28]
Ibidem.
[29]
Ivi, pp. 67 – 8.
[30]
Ibidem.
[31]
Ivi, pp. 89 – 90.
[32]
Ivi, p. 90.
[33]
Ivi, p. 509.
[34]
Cfr. H. Küng,
Ebraismo,
Rizzoli, Milano, 20125,
p. 320.
[35]
Cfr. I. Kajon, Il
pensiero ebraico nel Novecento,
Donzelli, Roma, 2002, p. 72.
[36]
Cfr. E. Lèvinas, Totalità
e Infinito. Saggio sull'esteriorità,
Jaca Book, Milano, 1998, p. 44 e sgg.
[37]
Cfr. F. Rosenzweig, La
Stella della Redenzione,
Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 435: «Ad
ogni istante essa osa dire 'è vero!' alla verità. Camminare in
semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta,
sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di
Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l'esterno.
Ma verso che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo
sai? Verso la vita».
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