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martedì 13 novembre 2012

Metafore e ideologia sulla Shoah





1. Il testo, in breve.

La guerra […] la catastrofe che
sempre ha inghiottito uomini e civiltà,
che sempre ha travolto le regole della vita associata,
e mai le ha salvate, è stata alle origini
della domanda di storia[*]

Il volume, a cura di Massimo Giuliani, di E. L. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2011, pp. 66, è la traduzione italiana del testo inglese Holocaust edito originariamente nel 1987.


(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/31q3fsCkRZL._SL500_AA240_.jpg)


Dopo l'introduzione di Giuliani, che presenta succintamente l'opera complessiva dell'autore, toccante l'argomento certo ostico della Shoah, segue la lucida opera di Fackenheim.


L'autore sottolinea come il temine 'Olocausto' venga adoperato erroneamente per indicare il triste e doloroso destino che è toccato in sorte agli ebrei durante la dittatura nazista. Egli considera, infatti, “più adeguato”[1] il termine ebraico Shoah, distruzione totale, perché nessun analogo tra la distruzione perpetrata dai nazisti e la storia ebraica è ravvisabile in tal senso. Non avrebbe, peraltro, nessuna correttezza equiparare la pratica della cremazione di neonati, e infanti, ebrei ancora in vita, con “gli officianti dell'antico culto di Moloch”[2]. Anche perché i tedeschi non bruciavano i loro figli, “per un atto non di sacrificio, ma di mero assassinio”[3].


Fackenheim passa, a quel punto, a chiedersi se la Shoah sia da considerarsi, o meno, “un evento unico”[4]. precisa così subito come preferisca di gran lunga l'aggettivo “senza precedenti”[5] perché consente di evitare “la tentazione di estrapolare l'evento dalla storia stessa e dunque il rischio di mistificarlo”[6]. E' pur vero, osserva l'autore, come la storia faccia mostra di innumerevoli stermini di massa, di veri e propri genocidi, ma nel caso di quello ebraico sono da ravvisare gli estremi dell'unicità. La Shoah, infatti, per le modalità con le quali venne progettata, pianificata, organizzata e realizzata, “è senza precedenti”[7].


Pur alludendo brevemente alle ben note questioni circa la folta schiera di operatori, improvvisamente diventati smemorati al riguardo, che hanno partecipato alla numerosissima catena di responsabili, secondo responsabilità diverse, l'autore si pone la domanda cruciale sulla Shoah: quale fu il suo perché? Già nel suo Mein Kampf, Hitler profetizzava la realizzazione della soluzione finale per il tramite della presa del potere da parte del partito nazionalcosocialista. Ciò significa anche che mai “prima d'ora nella storia uno Stato aveva tentato di rimuovere completamente da un intero paese, anzi da un intero continente, ogni singolo appartenente a un intero popolo, che fosse uomo, donna o bambino”[8]. Uno sterminio di così elevate proporzioni porta a credere che sia impossibile “che, una volta accaduto tutto ciò, la storia del mondo possa mai essere la stessa”[9]. L'Olocausto è un evento “di una portata non immaginabile. E tuttavia è stato ed è parte della storia del mondo”[10].


La Shoah non va pertanto né mitizzata, perché la si collocherebbe in un orizzonte al di fuori della storia, traendo fuori dall'impaccio quanti non riescono a vederla come un fatto storico, né narrarla solo teoricamente, perché così non la si storicizzerebbe. Al contrario, essa va considerata un evento storico nonostante le sue tremende proporzioni.


E tuttavia non vi sono spiegazioni singoli e semplici per rispondere alla domanda sul perché. Di conseguenza, l'autore si concentra sulla nozione di umanità, la stessa che scientificamente i nazisti cercarono di sradicare, di eliminare, di nullificare, di rendere nulla. L'invenzione della nuova, ed inedita, forma di vita per i destinati all'eliminazione, né vivi né morti, ma muselmann, “il prigioniero prossimo alla morte, il quasi cadavere ambulante ormai solo pelle e ossa, un morto vivente”[11].


Il folle progetto nazista di rovesciare l'originario progetto divino della creazione, inscenando la pazzesca farsa dell'anti – creazione, con la progressiva sostituzione della razza ariana in luogo di quella ebraica nell'elezione a popolo di Dio, pone la domanda radicale sul male. Una questione che può anche essere considerata il leit – motiv delle interpretazioni sulla Shoah, lo scandalo sempre risorgente dell'umanità intera sin dalla notte dei tempi. Perché il male? Perché il malum mundi ha assunto le forme inimmaginabili di Auschwitz? Perché il male ha investito in una maniera così asimettrica un solo popolo? Peraltro, il popolo di Dio?


La Shoah fu certamente un male. Ma di che natura? Altri commentatori ebraici hanno ravvisato nell'operato dei nazisti la natura banale del male, un male che nella sua gradualità di passaggi burocratici ad opera di gente qualunque e nella sua gratuità, non come risposta impulsiva ad offese, appare banalmente quotidiano, privo cioè di qualsiasi giustificazione in nome di principi elevati oppure privo di movente titanico. Ma, avverte Fackenheim, il “male è banale a motivo non della natura dei crimini ma delle persone che li commettono”[12]. La graduale processualità, tutta moderna, attraverso la quale il progetto nazista di palingenesi umana è stata messa in pratica, seguendo la semplice scansione lineare della concentrazione, degradazione, tortura, eliminazione, rende forse banale, perché facilmente prevedibile l'esito conclusivo del processo, non più produttivo, ma distruttivo.


E tuttavia l'operato nazista è banale anche per un'altra ragione: si compiva il male non in vista di un fine ulteriore, magari superiore, ma degradazione, tortura ed eliminazione “erano la sua intera essenza”[13]. Un progetto criminale che immanentizza in sé il proprio scopo. Se, sbagliando, Heidegger non coglieva differenze sostanziali tra come gli ebrei vennero eliminati nel corso della Shoah e la coeva civiltà della tecnica, è pur vero, però, che l'immane tragedia cascata sulle spalle degli ebrei è in qualche modo anche il loro transito nell'età moderna: disumanizzati a mere parti del processo produttivo della nazione ariana.


L'Olocasuto, pertanto, “non è solo un evento storico di portata mondiale: è anche uno «spartiacque», una «cesura» o una «interruzione» nella storia dell'uomo sulla terra”[14].


Se la storia, pertanto, deve fare i conti con il novum imposto dalla Shoah, può forse dirsi lo stesso per la teologia? Quest'ultima è certamente legata con la storia. Allora, cosa comporta anche per essa la tragedia ebraica? La risposta, per Fackenheim, coinvolge anche i non ebrei, i cristiani in primo luogo, dato che dopo la Shoah i cristiani non possono più pretendere di convertire gli ebrei, ma devono riconoscere “che l'Olocausto ha segnato un'interruzione nella loro fede”[15], altrimenti si finirebbe esclusivamente con il non riconoscere la natura propria dell'Olocasuto.


E tuttavia qualcosa di analogo vale anche per la teologia ebraica la quale distingue solo adesso tra una teologia della galut, della Diaspora, dell'esilio in terra straniera, e una teologia del ritorno nella propria terra. La tradizionale soluzione della questione ebraica poteva in genere consistere nell'espulsione dell'ebreo dalla terra d'esilio oppure nella ghettizzazione in quartieri appositi, come suggerisce Arendt analizzando l'operato di Eichmann. Ma l'Olocausto non è stato un enorme progrom né tantomento un'espulsione di massa. Prende così forma l'idea di un ritorno a Canaan, in Palestina, e non più considerato come un “peccato” di sionismo, ma come espiazione del male subito, ultimo rifugio dalle sempre possibili persecuzioni ad opera dei gentili. Bisogna, cioè “prendere congedo, senza rimpianti e con determinazione, dal giudaismo dell'esilio”[16]. E ancora, “il popolo ebraico ha esperito l'esilio in una forma più orribile di quanto avesse mai immaginato, oltre ogni incubo apocalittico; dopo tali eventi, porre fine all'esilio significa esprimere una volontà di vita e una fedeltà alla vita che, prese insieme, danno una nuova dimensione alla stessa pietà”[17]. Questa fedeltà produce, pertanto, lo Stato ebraico[18].


Segue infine una postfazione, ad opera di Giuliani che introduce al tema del tiqqun, la riparazione del mondo come atto di fiducia nella responsabilità umana, tanto caro a Fackenheim.

2. La Shoah, succintamente.

Monica Dal Maso, se mai ce ne fosse il bisogno, ci avverte della profonda cesura storica causata dalla Shoah, non solamente per la cultura ebraica in generale, ma per l'intera cultura umana, tra un “prima” e un “dopo” Auschwitz, scontando l'impossibilità del linguaggio a descrivere, spiegare, comprendere l'evento in questione[19]. Dello stesso tenore sono le riflessioni di Adinolfi[20] e Giuliani[21], per tacere della profonda notte calata sulle menti occidentali secondo Jonas[22].


Sicuramente, l'opera de de-umanizzazione di milioni di persone, prima ancora che la loro effettiva eliminazione materiale, la sostanziale impresa diabolica di anti-creazione, non ha né eguali né semplici categorie di analisi e comprensione, ma non è affatto né incomprensibile né non descrivibile.


Non condivido in merito quella che considero, a torto o a ragione, la facile retorica del silenzio su Auschwitz, assurto ormai a cifra simbolica di quella disimmetria che istituisce l'evento – Shoah come rottura nella continuità storica. Anzi, non considero nemmeno, senza nulla togliere alle vittime, questo evento un'interruzione della storia nel senso che si dovrebbe ora distinguere tra prima e dopo. Certo, fu comunque un evento unico, ma ciò non deve condurre alla facile, se non anche comoda, per non fare i dovuti conti con la propria coscienza, resa al silenzio. Della Shoah si può, e si deve parlare, pur nel rispetto per quanti vi vennero inghiottiti, perché essa va storicizzata, ossia collocata ov'è la sua sede naturale: la storia degli uomini. Sarebbe facile, e comodo, infatti, porla fuori dalla storia, come un evento de-situato, incomprensibile, insensato, non-umano, e farne un'agevole metafora della tecnocrazia occidentale, come, pare, l'intese, e non a caso, Heidegger.


Se le parole dicono ancora qualcosa, e lo dicono, bastano, per farsi anche solo un'idea di quel che fu la Shoah le parole di Levi, testimone diretto di quella sciagura:

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno
Meditate che questo è stato
Vi comando queste parole
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi[23]

Di fronte a tanto dolore e a tanta sofferenza ingiustificata, si fa avanti la suggestione del 'silenzio'. Le sue ragioni sono ben esposte da Minazzi:

perché il silenzio? Proprio perché non esisterebbero parole adatte nei nostri vocabolari per esprimere tutto il nostro orrore, tutta la nostra sofferenza, tutta la nostra angoscia, tutto il nostro dolore[24]

E allora mi chiedo: basterebbe il silenzio a rendere giustizia? É sufficiente il silenzio per lavarci la coscienza? È adeguato il silenzio per render conto, sia pure parzialmente e tra mille difficoltà, della sciagura occorsa?


Al contrario di tanta retorica, facile ed opportunista, dalle mille angolazioni possibili, ritengo che, al contrario, della Shoah sia non solo doveroso, ma anche possibile parlare, pur nella profonda convinzione che parliamo noi solo ora ad esperienza storicamente conclusa e senza coinvolgimenti diretti.


Ma sarebbe troppo pretendere che ciò possa togliere qualcosa alla sensatezza ed importanza delle nostre riflessioni al riguardo.

3. L'avvenire, dopo la Galut.

Per Emil Fackenheim la Shoah divide la catena causale del tempo in due parti, (1) un “prima”; e, (2) un “dopo”. Ebraicamente, egli distingue, per ovvia conseguenza, tra (a) l'ebraismo, inteso in senso lato come “cultura” che istituisce l'identità di un popolo, prima della Shoah; e, (b) l'ebraismo, nella medesima accezione di sopra, dopo la Shoah. Pertanto, sino al Secondo Conflitto Mondiale l'ebraismo vive la condizione della galut, dell'esilio, a seguito della Diaspora, Israele tra le genti, tra i gentiles, dopo non è più possibile pensarlo alla stessa maniera, le categorie antropologiche, concettuali, teologiche che contraddistinguevano l'ebraismo dell'esilio non valgono più, appaiono superate dagli eventi luttuosi successivi, insensate rispetto all'impensabile inimmaginabile accaduto in seguito.


Dopo la Shoah, anche per evitare futuri nuovi e risorgenti tentativi di annientare il popolo ebraico, è diventato necessario fondare lo Stato ebraico, trasformando il precedente peccato di sionismo in una virtù: tornare nella Terra promessa, nella sede naturale intesa quale ricompensa dell'Alleanza tra Dio e il suo Popolo. Tant'è vero che egli conclude icasticamente il breve volume con le seguenti parole:

Se sull'onda dell'Olocausto non fosse già sorto uno Stato ebraico, sarebbe una necessità religiosa (seppure, con legittimo timore, una quasi-impossibilità politica) crearlo ora[25]

Storicamente il “ritorno” in Israele ha origine come risposta umana al tentativo di cancellarlo per sempre dalla faccia della Terra. Ciò si carica di simboli non solo storici, ma anche religiosi: Israele avrà ora una casa sua, e non vagherà più come estraneo tra le case dei gentili. Solo uno Stato ebraico è diventato la miglior garanzia contro la tentazione, sempre risorgente, di eliminare gli ebrei.

4. Cambiale in bianco per lo Stato di Israele?

Se lo stato Ebraico è strumento di difesa degli ebrei nel mondo dai tentativi di eliminarli, come va considerata la posteriore condotta dello Stesso, soprattutto in politica estera, nei confronti degli arabi con i quali (con-)divide lo stesso territorio? Questo è un grosso problema, che ciascuna parte ha interpretato nel corso del tempo in maniera diversa, e quasi sempre parziale, parteggiando ciascuno per la propria gente, per i propri interessi, ristretti ancorché legittimi.


Non intendo certo criticare gli uni e gli altri, ma solo soffermarmi su una condizione pericolosa che, se rivendicata, può fungere da utile alibi morale per legittimare condotte aggressive.


Lo Stato ebraico nasce come soluzione al problema delle persecuzioni storiche nei confronti degli ebrei: uno Stato che possa difenderli[26]. Peraltro, gli ebrei sono le vittime storiche non solo di molte persecuzioni, ma anche le vittime della Shoah, la più grande sciagura della storia del secolo XX! Allora, si potrebbe suggerire che nessuno, a meno che non sia anch'egli ebreo, possa sindacare la condotta di Israele.


Peraltro, se qualcuno malauguratamente vorrebbe criticare le scelte israeliane potrebbe essere considerato un “nemico” di Israele, un nuovo nazista che rinnova il sacrificio – benché, ovviamente, questa locuzione non venga universalmente accettata dalla cultura ebraica se accostata alle vittime della Shoah – perpetrato ad Auschwitz, e in simili sedi di sterminio. O si è sionisti, ossia amici degli israeliani, oppure si è anti – sinionisti, ossia nemici degli israeliani. Basta scorrere la storia del Medio – oriente degli ultimi sessant'anni per scorgere l'azione funesta di questa pericolosa dicotomia, di questa opposizione manichea, tanto semplice quanto fuorviante.


Si può osservare, ad esempio, come la tendenza sionista a ricostituire uno Stato ebraico in Terra Santa fosse in atto già prima dell'inizio del XX sec. Quando, cioè, ebbe inizio un'immigrazione in Palestina di esuli ebrei provenienti in massima parte dalla Russia[27]. Il sionismo, cioè, è una ben precisa teoria politica, formulata da Moses Hess, Judah Alkalai, Zvi Hirsch Kalischer e Theodor Herzl, secondo la quale bisognava procedere ad una «ricostruzione di una patria nazionale per il popolo ebraico sulla sua antica terra, la Terra di Israele»[28].


Pertanto, la Shoah aggiunse solamente una sorta di giustificazione storica posteriore ad una tendenza in corso già a partire dal 1880 circa. Un'immigrazione la quale, comunque, non poteva che generare attriti con la popolazione autoctona ivi residente. Da questo punto di vista, sembra proprio come la teoria sionista sia l'analogo ebraico dei nazionalismi di fine XIX secolo, con la differenza, però, che gli ebrei, sin dal 70 d. C., erano privi di una casa propria, di uno Stato, erano, forse, una nazione, ma privi di una compagine statuale adeguata. E proprio il loro tentativo di dotarsi di uno Stato, avrebbe influenzato profondamente gli arabi palestinesi i quali avrebbero, a loro volta, interiorizzato l'idea di uno Stato arabo per la nazione palestinese.


Gli stessi sionisti erano consapevoli sin dall'inizio della difficoltà di costruire uno Stato ebraico dal nulla dal momento che in Palestina non v'erano affatto spazi incontaminati e valli disabitate. Come afferma Morris:

Come avrebbe potuto il sionismo trasformare la Palestina in uno Stato «ebraico», se la stragrande maggioranza della sua popolazione era araba?[29]

Gli ebrei non si trasferivano in una terra disabitata, magari rimasta tale dopo la loro partenza per l'esilio forzato in terre straniere, ma in località abitate da generazioni e generazioni da autoctoni di religione musulmana. Pertanto, per dare seguito alla loro idea politica, foraggiata da inevitabili rimandi simbolici al loro passato storico in quegli stessi luoghi, dietro all'immagine simbolica del ritorno alla Terra promessa, i sionisti decisero di insediarsi all'interno di un territorio non disponibile, di località già occupate stanzialmente da una popolazione eterogenea. Come dare corso, allora, a tale progettualità politica? Come fondare ex novo uno Stato ebraico che sostituisse lo stato vigente? Sin dagli inizi del movimento sionista, pertanto, prese corpo l'idea di un'espulsione della locale popolazione autoctona, araba, verso i paesi confinanti. Come scrive al riguardo Morris: «La soluzione più ovvia consisteva nell'emigrazione o «trasferimento» degli arabi. Questo poteva essere effettuato con la forza, cioè con l'espulsione, poteva essere organizzato su base volontaria, inducendo gli arabi ad andarsene spontaneamente, oppure fondendo insieme i due metodi»[30].


Quel che accadde, allora, non fu che gli ebrei tornarono pacificamente nella terra di un tempo lontano, ma che occuparono un suolo già abitato da altri, e che questi “altri” vennero in gran parte allontanati, spontaneamente, sotto minaccia o forzatamente in un arco di tempo relativamente breve, dagli anni '30 al 1948 circa. Infatti, aggiunge ancora Morris: «Le diffuse ipotesi sulle possibilità di un trasferimento negli anni Trenta e Quaranta avevano preparato e condizionato cuori e menti alla sua attuazione nel corso del 1948, per cui, quando questa avvenne, ci furono poche voci di protesta e di dubbio; il trasferimento venne accettato come inevitabile e naturale dalla massa della popolazione ebraica»[31]. Peraltro, l'opposizione dei palestinesi a questa soluzione e il contemporaneo tentativo panarabo di attaccare Israele nel maggio del 1948, «contribuirono a indurire i cuori degli ebrei nei confronti dei palestinesi arabi, considerati nemici mortali che, se fossero stati ammessi nello Stato israeliano, sarebbero stati una potenziale quinta colonna»[32].


La cifra più accreditata circa l'esilio degli arabi palestinesi a causa del ritorno degli ebrei in Patria si attesta intorno al Milione di profughi, arabi che da tempo immemorabile dimoravano in quei territori, in quelle valli, in quelle pianure, e che in brevissimo tempo si trovarono espulsi dalle loro case, dai loro campi, dai villaggi natii.


Forse per un moto di orgoglio identitario, lo stesso Morris conclude il suo volume con le seguenti parole, che suonano, forse, più come auto-assoluzione degli israeliani nei confronti delle loro colpe nella gestione degli arabi palestinesi residenti in Palestina già prima del ritorno degli ebrei:

La prima guerra arabo-israeliana, quella del 1948, fu sferrata dai palestinesi arabi, i quali respinsero la risoluzione delle Nazioni Unite per la spartizione e si impegnarono a impedire la nascita di Israele con la forza. Fu quella guerra, e non un disegno ebraico o arabo, a far sorgere il problema dei profughu palestinesi. Ma il trasferimento degli arabi dalla Palestina o dalle zone della Palestina che avrebbero costituito lo Stato di Israele era parte integrante dell'ideologia sionista e della prassi del sionismo, fin dall'inizio della sua attività […] prima della guerra non esisteva alcun piano sionista di espellere «gli arabi» dalla Palestina o dalle zone dell'emergente Stato di Israele[33]

Morris è piuttosto onesto nell'ammettere che l'espulsione degli arabi dalla Palestina era una conseguenza necessaria, ed abbastanza automatica, del progetto sionista di ricostituzione del fu Stato ebraico, dopo secoli di assenza. É piuttosto indulgente, invece, quando deve affrontare il nodo della questione arabo – palestinese: di chi la colpa di un milione di profughi? Gli ebrei non tornarono semplicemente in una terra loro disponibile, ma la sottrassero, più o meno violentemente, ad una popolazione autoctona che vi dimorava sopra da tempo immemorabile. Dire che l'espulsione fu un “caso” involuto del ritorno ebraico nella Terra promessa suona un po' ipocrita, ma è il massimo che legittimamente si può chiedere ad uno storico ebreo.


Certo fa un po' impressione valutare l'atteggiamento degli ebrei nei confronti degli arabi di Palestina, prima e dopo il Secondo Conflitto Mondiale. Anche perché, a ben vedere, la creazione ex novo dello Stato di Israele non può venir intesa quale una parziale, e tardiva, riparazione al torto secolare fatto agli ebrei. Come ci ricorda, infatti, Küng:

Lo Stato di Israele non è affatto, come spesso pensano i non ebrei, il risultato dell'Olocausto. Anche senza Hitler ci sarebbe stato uno stato di Israele! Da secoli gli ebrei attendevano […] la ricostituzione del regno di Israele […] il sionismo è un movimento politico – sociale che vuole promuovere l'istituzione di uno stato ebraico (non importa se in Palestina o altrove) «dal basso», quindi mediante iniziative e azioni umane […] Il sionismo politico non è, quindi, soltanto una reazione all'antisemitismo razzista. Esso è piuttosto da vedere in connessione con l'illuminismo ebraico […] del secolo XVIII, ma anche con le idee nazionalistiche romantiche e con l'avvento del nazionalismo tra i popoli europei del secolo XIX[34]

Se la nascita dello Stato d'Israele viene distinta dalla Shoah, viene meno un certo alibi, dalle dimensioni molto estese, che poteva coprire molte delle azioni israeliane in Medio – Oriente. Ma ciò consente anche di evitare le strettoie, quasi inevitabili, del dualismo manicheo di cui sopra: si può criticare l'azione dello Stato ebraico senza per questo essere antisionista, o, peggio, razzista.

5. Conclusioni

Sicuramente, gli ebrei sono state le vittime sacrificali di un orgoglio occidentale, e non solo, che difficilmente poteva tollerare la loro differenza culturale così gelosamente custodita e tramandata, le vittime da maltrattare, uccidere, eliminare lungo i secoli della sanguinosa storia umana. E sicuramente hanno anche patito una sorta di distruzione su scala industriale, durante l'ultimo conflitto mondiale, che non ha certo precedenti storici. Ma non è affatto vero, oggi che son passati sessant'anni da allora, che per sopravvivere l'ebraismo abbia bisogno di uno Stato nazionale né tanto meno che questo Stato debba avere un'identità peculiarmente ebraica.


Voglio dire: perché deve trattarsi di Stato che si fondi sulla distinzione tra 'ebreo' e 'non ebreo'? Perché non pensare piuttosto ad uno stato multietnico?


D'altra parte, decostruita, per così dire, la pretesa sionista di riparare ai torti secolari del passato con la costruzione di uno Stato ebraico, perché continuare a pensare a due popoli per uno stesso (piccolo) spazio territoriale? Perché non pensare invece ad un unico stato per due popoli? Perché non disinnescare uno dei principali motivi di rivalsa, e di vendetta, di una onnivaga identità panaraba che si costituisce proprio per differenza e in negativo?



Quando gli israeliani saranno capaci di tanto allora renderanno onore ai loro stessi caduti e al buon nome che portano, come coloro i quali sono stati eletti all'Allenza, ponte storico tra cielo e terra, radice che porta buoni frutti, per sé stessi e per i gentili.


La chiusura all'interno del proprio spazio concettuale, staccato dal resto del mondo, non rende giustizia all'aspirazione universalista che da sempre attraversa la coscienza ebraica nel dissidio fondamentale di essere parte del mondo ma diversi dal mondo stesso. Come siamo lontani, infatti, dal tono universalistico di Rosenzweig per il quale esprime parole puntuali la Kajon:

il particolare e l'universale, nell'orientamento di Rosenzweig, non possono essere disgiunti: ciascuna esistenza individuale, collocata ad un certo punto dello spazio e del tempo e avente certi caratteri, può raggiungere, attraverso l'affetto puro dell'amore, la verità nel momento in cui incontra l'altro essere umano, e testimoniare tale verità nel mondo nel modo che è a essa peculiare[35]

Questo accade, da un punto squisitamente filosofico, perché Rosenzweig ben interpreta quel retroterra culturale ebraico del quale egli stesso è espressione, e secondo il quale ben accetto al Signore è colui che mostra fraternità nei confronti del povero, della vedova, dell'orfano. Una strutturazione ben precisa dell'alterità la quale abbraccia qualsiasi essere umano sia il nostro prossimo.


Una curvatura universalista che ben si attaglia con il kantismo che molti scorgono nella riflessione lévinasiana sull'etica: un modo per trasformare l'ontologia (imperialista) in etica, in rispetto per l'altro in quanto altro, per rispettarlo e conservarlo nella sua ipseità, nella sua diversità costitutiva e trascendente rispetto a me che lo penso[36]. Non a caso, forse, Lévinas trae origine nella sua originale speculazione proprio dalla triste esperienza diretta della Shoah e, di conseguenza, mira a disarmare qualsiasi filosofia futura che intenda render nuovamente possibile un progetto di morte come quello nazista.


Non è forse anche questo render giustizia ai sei milioni di ebrei passati per i campi nazisti? Non è forse anche questo un render giustizia a quella vita cui comunque s'indirizzano tutti i nostri passi, come asserisce anche Rosenzweig?[37]


(immagine tratta da: http://img4.libreriauniversitaria.it/BIT/240/239/9788834312391.jpg)


NOTE

[*] Cfr. W. Barberis, Postfazione, a: P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 172.
[1] Cfr. E. L. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2011, p. 17.
[2] Ibidem.
[3] Supra.
[4] Ibidem.
[5] Supra.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 19.
[8] Ivi, pp. 21 – 2.
[9] Ivi, p. 22.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 25.
[12] Ivi, p. 26.
[13] Ivi, p. 27.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 29.
[16] Ivi, p. 34.
[17] Ivi, pp. 35 – 6.
[18] Ivi, p. 36.
[19] Cfr. M. Dal Maso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero ebraico di fronte alla Shoah, Messaggero di Sant'Antonio, Padova, 2007, p. 21 e sgg.
[20] Cfr. I. Adinolfi, Introduzione, a: I. Adinolfi (a cura di), Dopo la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero, Carocci, Roma, 2011, p. 11.
[21] Cfr. M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell'Olocausto», Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 20 – 1: «Raccontare è comunicare un senso. È più che scommettere che la propria parola arrivi sensata e credibile all'altro: è un vero e proprio atto di fede. Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrabile sia sensato e credibile. Se Auschwitz è il regno del non – senso […] ci troviamo dinanzi all'impossibilità strutturale di trovare un linguaggio che risponda ai caratteri propri di ogni linguaggio umano. Siamo condannati al non-linguaggio, al silenzio perpetuo. La cifra del silenzio perpetuo è la stessa cifra del non-senso: è la morte. Chi può negare che qui stia la radice di ogni scacco alla ragione e alla parola? Poiché Auschwitz fu la più grande «festa della morte» che l'uomo abbia allestito per l'uomo nel corso della storia (in così pochi anni!), questo luogo assurge […] a cifra del silenzio perpetuo. Nessuno simbolo ha diritto a rappresentarlo – cioè, nessun simbolo del senso. Dare un senso ad Auschwitz è idolatria, è blasfemia […] Auschwitz è e deve restare la cifra della negazione di ogni senso – umano o divino che sia».
[22] Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 200413, p. p. 20 e sgg.
[23] Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2005, p. 7.
[24] Cfr. F. Minazzi, Filosofia della Shoah. Pensare Auschwitz: per un'analitica dell'annientamento nazista, Giuntina, Firenze, 2006, p. 29.
[25] Cfr. E. L. Fackenheim, op. cit., p. 36.
[26] Cfr. B. Morris, Esilio. Israele e l'esodo palestinese, Rizzoli, Milano, 2005, p. 82: «le notizie sull'Olocausto in corso che arrivarono gradualmente dall'Europa occupata dai nazisti durante la seconda metà del conflitto provocarono di certo crisi di coscienza fra i politici e i funzionari occidentali e sottolinearono l'urgenza di una soluzione del problema ebraico in Europa con la costituzione di un rifugio sicuro in Palestina».
[27] Ivi, p. 37.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, pp. 67 – 8.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, pp. 89 – 90.
[32] Ivi, p. 90.
[33] Ivi, p. 509.
[34] Cfr. H. Küng, Ebraismo, Rizzoli, Milano, 20125, p. 320.
[35] Cfr. I. Kajon, Il pensiero ebraico nel Novecento, Donzelli, Roma, 2002, p. 72.
[36] Cfr. E. Lèvinas, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano, 1998, p. 44 e sgg.
[37] Cfr. F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 435: «Ad ogni istante essa osa dire 'è vero!' alla verità. Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l'esterno. Ma verso che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Verso la vita».

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