Per millenni
l’uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli
ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili
da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di
peli, piume impigliate, odori stagnanti. Ha imparato a fiutare,
registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come
fili di bava. Ha imparato a compiere operazioni mentali complesse con
rapidità fulminea, nel fitto di una boscaglia o di una radura piena
di insidie
(C.
Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in
C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e
storia, Einaudi, Torino, 2000, p. 166)
Il discorso di Ginzburg
è semplice quanto efficace: da sempre, l’essere umano è
stato caratterizzato dalle capacità di risalire, a partire da mere
tracce materiali,
ai fatti che li hanno provocati.
Detto altrimenti, l’uomo riesce a
ricostruire fatti avvenuti in sua assenza a partire da semplici
«indizi».
Ciò è esattamente quel che fa lo storico: a partire da tracce, più
o meno complete, più o meno frammentarie, di un passato
non direttamente disponibile, egli cerca di ricostruire il flusso
temporale, di azioni,
di agenti,
di moventi,
che le hanno prodotte.
Quel che, detto ancora con altre parole, fa
lo storico è adoperare un vero e proprio «paradigma indiziario»
che, peraltro, lo accomuna anche allo psicologo e all’antropologo:
risalire da poche tracce alla situazione iniziale che le ha prodotte.
Ma Ginzburg pecca, forse, di ottimismo in quanto dà voce da una ragione onnipotente. La pensiamo diversamente da lui, una ricerca storica indiziaria è, e resta immancabilmente, parziale nel senso che non può davvero ricostruire tutto, ma si limita a ricostruire solo parti del passato. Anche se questo è già molto.
(immagine tratta da: http://www.sscnet.ucla.edu/history/ginzburg/ginzburg.jpg)
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