La “farsa” che ha
interessato il mondo della scuola nelle ultime settimane è doppiamente
significativa, a patto, però, che si desideri davvero coglierne le valenze
intrinseche a prescindere dalla vulgata,
in genere distorta e/o menzognera, offertane dai media, più o meno interpreti del consensus gentium, ossia di quell’elettore medio italiano che
sempre più assomiglia allo stereotipo americano incarnato – nel vero senso
della parola – dal personaggio cartoon Homer Simpson, ossia l’ignorante che abbocca
alla TV e che vota per un ‘sì’ o per un ‘no’, occorsogli nell’arco della
giornata. Aggiungerei ancora qualche qualifica a tale nozione idealtipica, ma
credo sia possibile fermarsi qui senza troppe remore.
Partiamo dall’inizio, ossia
dal provvedimento di revisione della
spesa approvato nel luglio 2012 e che prevede un risparmio da ottenere
dalla scuola di 700 milioni circa da qui a tre anni. Dove trovare le risorse?
Già la riforma Gelmini, L. n.
133/2008, innovava l’organizzazione didattica in conformità a mai riscontrate
e/o suffragate opzioni didattiche ed educative (basti pensare alla
giustificazione, chi la ricordi, della soppressione del curricolo articolato
sull’alternanza tra tre maestre: “i bambini si confondono, le ricerche (quali?)
dimostrano che i minori hanno bisogno di un’unica figura di riferimento”),
prescrivendo per il comparto scuola un risparmio complessivo di economie pari a
8 miliardi di euro circa. Quella riforma,
non si è mai saputo se opera più del dicastero della (ex) Pubblica Istruzione o
del dicastero dell’Economia, ha comportato un taglio lineare di personale pari
a 140mila operatori, tra docenti e personale ATA.
Fatta cassa con la scuola
allora, si procedette in seguito a “congelare” il rinnovo del contratto di
settore, scaduto nel 2009, dopo il rinnovo nel 2006 per il biennio economico
2007 – 2009, per altri due anni e non riconoscendo più in automatico, come era
invece previsto da suddetto contratto, l’anzianità di servizio, che si concreta
in un incremento salariale per fasce di anzianità. Taciamo della riforma delle
pensioni, dell’omologazione dell’età di genere, a mere esigenze di risparmio, e
vediamo come in seguito tale blocco del rinnovo contrattuale, che consisterebbe
solamente ad un incremento dei salari fermi al tasso d’inflazione attesa per il
2007 (!), recuperando un poco – sempre troppo meno – il potere d’acquisto eroso
dall’inflazione, è stato esteso ancora sino al 2014 – ora si parla di
estenderlo ancora sino al 2017 - .
Si è trattato, in altri
termini, di un’entrata “a gamba tesa” da parte del dicastero economico sull’analogo
dell’Istruzione, accorpato nel generico e vacuo M.I.U.R., il mare magno del terzo settore, con espropriazione indebita delle relative funzioni di
progettazione, di pianificazione, di organizzazione, di scelte didattiche, etc.
Questa progettualità politica era ben chiara in mente all’allora Ministro
Tremonti che prevedeva una sorta di (super-)potere del proprio dicastero su
tutti gli altri, incarnando una sorta di premierato,
esecutore tecnico delle decisione del Presidente del consiglio dei ministri, non
più capo del governo e coordinatore dei vari ministeri.
La decisione di “tagliare”
la scuola pubblica italiana, senza pensare minimamente ai danni che nel tempo
verranno prodotti e che si verificheranno a cascata nel corso del prossimo
trentennio, per tacere qui delle ripercussioni sul PIL, è frutto senza dubbio
in parte dalla precisa volontà di personaggi digiuni del mondo della scuola –
oggi, non quando la frequentavano loro cinquant’anni fa – e in parte dalla
precisa volontà degli stessi personaggi di intercettare gli umori “profondi”
dell’elettorato … qui comincian le
dolenti note a farmisi sentire, direbbe Dante. Infatti, l’elettorato
italiano, esattamente come tutti gli altri dei paesi occidentali, ha subito una
profonda, e dolorosa, involuzione a vari livelli: culturale; sociale;
psicologica; economica; etc. Intorno al 2003 si parlava di declino del nostro Paese, parlarne oggi forse non è più di moda –
siamo poi passati alla casta,
categoria polimorfa e plurivantaggiosa, e ai recentissimi choosy – ma non è detto che quella caduta non sia più in atto …
anzi! Perché dico questo? Perché penso fermamente che i nostri amministratori
siano perfettamente rappresentativi della volontà degli elettori nel senso che
sono specchio fedele dei loro umori e ne rappresentano adeguatamente la
volontà. Chi dice che la democrazia (rappresentativa) sia morta, incalzata da
nuovi modelli e/o paradigmi, a mio sommesso parere, pecca di ottimismo: la
democrazia (rappresentativa) funziona! Eccome! Solo che nel funzionare non
esprime ideali o valori da conseguire e/o declinare in concreto, ma solo dare
sfogo a volontà viscerali, emozionali, non discusse, non problematizzate – ma
perché perderci sopra del tempo prezioso? - degli elettori. Solo così si
spiegano provvedimenti tanto penalizzanti, tanto offensivi, così poco
giustificati – ma v'è una giustificazione ulteriore da produrre oltre a quella
di dare corso ai desiderata degli
elettori? - , così poco meditati eccetto la fretta di dover rispondere a
precise sollecitazioni, nazionali e comunitarie – Patto di Stabilità – e di
comunicare agli elettori una capacità di risposta rapida – la politica del
“fare” … - che descrive la chiarezza di obiettivi e di strategia dei nostri
stessi rappresentanti. Poi, pazienza se i provvedimenti varati fanno acqua da
più parti o se vari tribunali amministrativi hanno da ridire. Intanto si
iscrivono in bilancio i risparmi conseguiti, e poi si vedrà. Come a dire:
intanto tagliamo, poi chi dovrà piangersi e tagli – leggi: personale e famiglie
– e conseguenze – leggi: future generazioni – si vedrà a suo tempo!
La miopia governativa è pari
alla superficialità degli elettori. In nessun Paese civile si consente che la
FIAT faccia quel che vuole, in nessuno eccetto il Nostro, così morbido nei
confronti dei potenti, del Potere. E in nessun paese civile un Governo parla
male dei propri dipendenti (quelli della P.A.), bollandoli senza mezzi termini
“fannulloni”, “parassiti”, “fancazzisti”, etc., ad ogni occasione di
esposizione mediatica. Se non è ricerca di visibilità, e di consenso questa,
cos'è?
Giungiamo così al balletto
sulle 24 ore per il personale docente della Scuola Secondaria (ossia, Medie e
Superiori). Il ministro Profumo, che quando venne insediato nella coorte di
tecnici, parlò di “dialogo”, “confronto”, etc., si presenta una mattina con un
piano già scritto – quindi, elaborato a suo tempo … - che prevede una sorta di
baratto tra Ministero, ossia il datore di
lavoro – come mai questa locuzione? Si capirà in seguito … - , e il
relativo personale, ossia i lavoratori
dipendenti, acconciato, alla meno peggio, in questa maniera:
1) a partire dal settembre
2013, l'orario settimanale del personale docente della Secondaria, di Primo e
Secondo Grado, si articola in 24 unità orarie settimanali, e non più in 18, a
parità di retribuzione;
2) in compenso: il personale
docente avrà diritto a giorni n. 15 di ferie aggiuntive rispetto a quelle già
disponibili.
Quindi, si interviene,
tramite Decreto Legge – e le ragioni di urgenza dove sono? -, essendo inserito
come comma all'art. 3, credo, della Legge di Stabilità – bella questa moda di
cambiare nome alle cose … prima si parlava di Legge Finanziaria, l'atto
principale di qualsiasi maggioranza parlamentare -, sul contratto, integrandolo
ope legis e scavalcando qualsiasi
principio di confronto e di dialettica tra parti in causa, datore di lavoro e
lavoratore. Peraltro, in regime di vacanza
contrattuale, essendo l'attuale contratto di lavoro scaduto e non rinnovato,
s'interviene normativamente modificandolo di fatto, avocando alla parte
datoriale del rapporto di lavoro la modifica unilaterale dei termini dello
stesso. Saltato il confronto con le parti sociali, il datore di lavoro
stabilisce ad un certo punto che l'orario di servizio aumenta di sei unità
orarie, senza, però, alcun intervento sulla parte economica dello stesso. E qui
sorge un altro problema: si possono modificare parti di un contratto di lavoro
senza rinnovarlo del tutto? A quanto pare sì, dato che già il precedente
Governo Berlusconi – ho perso il conteggio progressivo della numerazione … -,
con il ministro di punta, Brunetta, aveva provveduto ad integrare la disciplina
contrattuale con medesimi interventi “a gamba tesa”. Cosa bisogna imparare da quest'atteggiamento?
Secondo me, alcune cose importanti:
i)
la
contrattazione sindacale viene rigidamente compressa a mere questioni di
organizzazione del singolo turno di lavoro all'interno della singola sede di
servizio (altrimenti non avrebbe senso sminuire la contrattazione collettiva e,
al contrario, enfatizzare quella decentrata);
ii) il rapporto di lavoro viene
ulteriormente sbilanciato in favore del datore di lavoro e a scapito dei
lavoratori (altrimenti non avrebbe senso parlare di “prerogative datoriali”,
come felicemente ebbe a dire sempre il Brunetta);
iii) l'insistenza sul privilegio
accordato alla parte datoriale di poter modificare, senza alcun contrappeso
reale, parti, anche rilevanti, del precedente accordo di lavoro (leggasi:
contratto collettivo nazionale di lavoro) accorda per il futuro ben altre
possibilità per la stessa: (non in rigido ordine d'importanza) a) poter
modificare unilateralmente l'orario di servizio; b) poter decidere
unilateralmente sulla composizione oraria; c) poter decidere unilateralmente
sulla retribuzione media oraria; d) poter decidere unilateralmente sulla durata
del rapporto di lavoro; e) poter decidere
unilateralmente sul dimensionamento del settore di servizio; f) poter
decidere unilateralmente sulla composizione organica dei propri dipendenti; g)
etc.; etc) ....
Come si vede, allora, non
solo è definitivamente tramontata l'idea della contrattazione tra parti
sociali, come strumento di compensazione all'abolizione della scala mobile, all'interno delle politiche
di contrasto dell'inflazione, ma è scomparsa dall'animo dei più l'idea della
tutela della parte debole all'interno dei rapporti di
lavoro. Se questo accadesse solo nel privato, stante la separazione tra giustizia commutativa, propria di
quest'ultimo ambito del lavoro, e giustizia
retributiva, propria dell'ambito pubblico del lavoro, le cose sembrerebbero
un poco “normali”. Invece, se a muoversi in questa stessa maniera, lungo questo
stesso solco, è il Governo, è il Ministero, è la direzione della P.A., qualcosa
non torna! Forse, allora, dovremmo aprire gli occhi sulla definitiva privatizzazione dei rapporti di lavoro:
il contratto pubblico viene soppiantato, in toto o in parte, da subito o
progressivamente, da forme privatistiche di regolazione dei rapporti di lavoro.
Detto in soldoni, chi detiene il maggior potere tra le due parti, decide le
regole del gioco e può modificarle
unilateralmente a proprio piacimento.
Dopo alcune settimane di
caos, di panico, di balletti, di balbettii, di farsa tragicomica sugli orari
del personale docente, viene alla fine approvato un emendamento che sopprime
suddetto aumento orario. Ma per finanziare, dato che non è prevista alcuna
possibilità di ripensamento su quel totale di risparmio previsto in estate
(leggasi: spending review), il
mantenimento dell'attuale orario si procede a togliere risorse al fondo d'istituto, ossia a quel fondo che
integra i già miseri stipendi dei docenti per le funzioni aggiuntive … cambiano
forse i musicisti, ma la musica non cambia. E la scuola paga ancora per tutti!
Tuttavia, permane ancora una minaccia, neanche tanto velata, di futuro aumento
dell'orario … magari già in primavera! Mente nel frattempo si vocifera di un
ulteriore slittamento in avanti della vacanza contrattuale sino al 2017, come
se l'inflazione reale invece se ne stesse anch'essa in vacanza!
Ma torniamo alla proposta.
Sono, a mio parere, almeno tre gli elementi da tener in considerazione:
a) il contratto collettivo
di lavoro, benché non rinnovato, ma ancora in vigore, viene modificato da fonti
del diritto eterogenee;
b) il governo, senza
confronto con le parti sociali, modifica
unilateralmente e orario di
lavoro e ripartizione delle ferie;
c) il datore di lavoro
aumenta unilateralmente l'orario di lavoro
senza, però, provvedere contestualmente a finanziarlo.
Questi elementi, già di per
sé sconfortanti, e mortificanti per un operatore del settore, sono
evidentemente dettati da esigenze contabili, senza peraltro evincere alcuna
conoscenza del mondo della scuola. Infatti, emerge esclusivamente la
preoccupazione di contrarre la spesa
corrente, infischiandosene altamente di destini personali, di vite umane, di
bontà del servizio, e quant'altro a vario titolo chiamato in causa, non ultimo
il destino formativo delle future generazioni. Allora, penso che questa farsa
sia goffa anche perché il tentativo ragionieristico di beccare (almeno) tre
piccioni con una sola fava:
1) riduzione del personale precario (a nessuno deve sfuggire che un aumento dell'orario
settimanale di servizio di n. 6 ore, cancella definitivamente l'annoso problema
dei precari: li tagliamo definitivamente e avanti così! Dimenticandosi, però,
che non siamo solo dei numeri, come capitoli di bilancio, ma abbiamo un nome,
un cognome, una storia personale, magari anche dei figli …);
2) riduzione del personale in organico (a nessuno sfugga che la riconduzione delle
cattedre a 24 ore anziché a 18 comporta la perdita di un terzo del numero
totale di cattedre in organico di diritto. Così facendo, però, ci si dimentica
che non siamo solo dei numeri, come capitoli di bilancio, ma abbiamo un nome,
un cognome, una storia personale, magari anche dei figli …);
3) riduzione dello stipendio del personale in organico (a nessuno sfugga infatti
come, a conti fatti, la presente non sia un mero aumento dell'orario di lavoro
del personale docente, ma una mera
diminuzione del salario per unità oraria lavorata)[1].
Il piccione (3) è
sicuramente quello meno preso in considerazione (ma già Brunetta intendeva
diminuire gli stipendi attuali per finanziare con briciole solo quelli di
alcuni scelti meritocraticamente ….). Infatti, interpretando gli umori bassi e
volgari degli elettori, il Governo agisce duramente sui propri dipendenti
aumentando l'orario limitato che per privilegio spettava loro. Invece le cose
non stanno così, magari stessero così! Il medesimo provvedimento punisce due
volte in una il personale: la clausola di parità di salario tra 18 o 24 ore
significa inequivocabilmente che a parità di ore lavorate il dipendente verrà
retribuito meno! Allora, non è affatto vero che il dipendente scolastico lavori
poco, mentre è verissimo che percepisce pochissimo! Ma queste cose l'opinione
pubblica le sa? Come sa che il dipendente scolastico non lavora per le mere 18
ore settimanali di servizio (ossia, di lezione in classe)? Penso proprio di no
altrimenti non avrebbe avallato così a buon cuore un provvedimento tanto
balzano quanto iniquo[2]
Ma veniamo alla parte più
interessante delle mie riflessioni: il personale docente! Penso sinceramente
che ciascun popolo abbia il governo che si merita. Ed anche che in nessun Paese
civile, eccetto il nostro, i dipendenti si facciano trattare così male. Sì, è
colpa nostra se chi ci governa pensa di poter decidere così facilmente quanto
unilateralmente dei nostri destini occupazionali. Se ci trattano così male,
forse, ce lo meritiamo. Perché? E' semplice: i tagli passano senza nessuna
concreta azione di contrasto da parte nostra, tranne, forse, qualche mozione
approvata da vari Collegi docenti oppure alcune rimostranze verbose. Poi
nient'altro! Passa così il taglio di 140mila unità, senza colpo ferire, eccetto
uno sciopero dell'autunno 2008, e sarebbero passate anche le 24 ore se … se …
il governo non fosse in scadenza e l'attuale composizione parlamentare dovesse
ripresentarsi da qui a pochi mesi alle urne. Per questo motivo, penso che
un'occasione tanto ghiotta di far cassa sulle nostre spalle verrà riproposta
successivamente, che la partita sia tutt'altro che chiusa. E l'occasione è
ghiotta perché il personale della scuola è l'unico che non si preoccupa del
proprio destino, che non considera il proprio lavoro meritevole di tutela,
forse perché la cosa pubblica è
concepita, e considerata di conseguenza, come cosa di nessuno. D'altra parte, anche il docente è espressione, a
sua volta, della società di appartenenza: se la pensa così la massa, perché non
dovrebbe fare altrettanto il singolo docente? Solo che stavolta non si tratta
del marciapiede o del fiume o della spiaggia, ma del proprio lavoro, dal quale,
volente o nolente, dipende il suo stesso destino futuro, e, forse, anche quello
dei suoi figli e dei suoi nipoti.
In fin dei conti, sulla base
della mia, seppur breve esperienza personale, l'operatore scolastico è per
nulla attaccato professionalmente al suo lavoro: se non fosse per il magro
stipendio che percepisce, non sarebbe affatto interessato, poniamo, a lottare
per esso! Così, malgrado sporadiche lamentele verbali, e nient'altro,
l'operatore scolastico digerisce, più o meno agevolmente tutti i provvedimenti
che il datore di lavoro fa passare sopra la sua testa e che, pur interessandolo
direttamente, dal dimensionamento scolastico alla progressione di carriera, dal
salario alla sicurezza del luogo di lavoro, e così via, non suscitano in lui
più di una preoccupazione teorica transitoria. Che significa questo? Semplice:
se si chiede di scendere in piazza per protestare, lui non lo farà! Se si
proclama un'agitazione sindacale, fino al momento in cui resterà vaga e non
prevederà un suo coinvolgimento diretto, lui vi aderirà. Se, ancora, ad abundantiam, si proclama una giornata
di sciopero, lui non vi aderirà, trincerandosi, in genere, dietro due scuse
risibili: (1) non possiamo danneggiare gli alunni; e, (2) lo sciopero non serve
a nulla. La motivazione (1) appare di un certo peso ma solo nella misura in cui
l'operatore scolastico non ha cuore l'amor proprio, e considera i problemi che
lo interessano direttamente come grane da delegare ad altri. A ciò si aggiunga
che proprio chi adduce tale motivazione è poi magari il primo operatore a non
agire di conseguenza: a considerare cioè gli alunni una gran seccatura (e poco
altro)! Chi adduce ciò, comunque, mostra di non aver compresa la natura,
appunto conflittuale, dello sciopero: se non si arrecano disagi, quale forza
può legittimamente aspirare ad avere una mobilitazione? Peraltro, ancora, chi
si nasconde dietro la motivazione (1) fa propria una frase fatta che intercetta
un umore comune in seno all'opinione pubblica, e secondo il quale chi può
permettersi di scioperare, lavora davvero poco. Per tacere dell'umore
concorrente secondo il quale non è ammissibile che una categoria scioperi
danneggiandone altre. Un'idea che, se condivisa davvero, costringerebbe
all'immobilismo professionale e priverebbe i lavoratori dipendenti di qualsiasi
voce in causa sui provvedimenti che li interessano. Ma solo l'operatore della
scuola è masochista al punto da preferire di gran lunga essere danneggiato in
maniera permanente che danneggiare provvisoriamente l'utenza.
La motivazione (2), invece,
è vera nella misura in cui l'80% del personale in questione non aderisce a
forme di mobilitazione, sciopero compreso, per grette esigenze personali,
perdendo di vista l'obiettivo del bene comune scuola (al cui interno rientra
anche lui come categoria professionale). Una giornata di sciopero costa alla
categoria, a seconda dell'anzianità di servizio, dagli 80 ai 120 euro. Certo su
una baste stipendiale davvero misera (e magari con qualche mutuo sul groppone)
la cifra appare elevata e comunque tale, vista la sproporzione in atto tra
salario mensile e distribuzione forfettaria dello stesso in rapporto ai singoli
giorni costituenti il mese, da scoraggiare qualsiasi adesione a scioperi. Chi
ha previsto, per legge, lo sciopero ha fatto in modo di danneggiare chi
sciopera con disincentivi economici molto forti e tali comunque da non rendere
vantaggioso il rapporto, peraltro aleatorio, tra vantaggi futuri (tutti da
verificare) da partecipazione e danno
economico immediato (tutto da assorbire nel tempo). E comunque resta il nodo
della visibilità governativa della categoria lavoratori dipendenti della
scuola: anche uno sciopero del 90% non è detto che influenzi minimamente le
scelte del Governo.
Ecco, allora, che si delinea
il piano di sproporzione netto tra i dipendenti pubblici e il datore di lavoro
pubblico: i primi devono subire quasi tutte le decisione del secondo mentre
quest'ultimo non li consulta quando deve decidere le linee guida da seguire
(per non parlar del resto).
Ma vi sono comunque alcune
altre riflessioni che vanno fatte. Infatti, da qualche anno a questa parte si
avverte e si manifesta sempre più spesso una certa disaffezione nei confronti
dei sindacati che, come parte sociale rappresentativa dei lavoratori,
dovrebbero, in teoria, confrontarsi con il datore di lavoro concertando,
contrattando, determinate misure. Ora, se tali sindacati proclamano uno
sciopero, sempre più colleghi mi dicono cose del genere “non credo più nei
sindacati” oppure “prima si pappano tutto allegramente e dopo mi chiedono di
rinunciare alla paga di un giorno?”. Tutte queste affermazioni esprimono
un'idea di base molto pronunciata e secondo la quale il sindacato è una corporazione – o una casta, vera e propria – che non difende
affatto i diritti dei lavoratori, ma partecipa alle spartizioni ordite dalla
politica. Secondo tale idea, peraltro, il sindacato non rappresenta affatto il
lavoratore, anche perché è oramai lontano, come sede, come “struttura”, dal
mondo del lavoro, non cogliendone più le problematiche, le difficoltà, le
potenzialità, e così via. Siffatta idea, di per sé già abbastanza sconfortante,
assume connotazioni dirompenti se in assemblea sindacale territoriale si
assiste alla scena seguente che mi dilungo a narrare perché, a mio onesto modo
di vedere, istruttiva dell'errata percezione delle relazioni sindacali che il
lavoratore della scuola, proprio perché parte ed espressione della società cui
pur appartiene, subisce e trasmette a sua volta. Dopo che i vari delegati
sindacali hanno detto la loro con pochi e timidi applausi al termine di ciascun
intervento, prende la parola una collega di mezza età, apparentemente sportiva,
che assume subito le sembianze della pasionaria e, rivolgendosi direttamente ai
(malcapitati) delegati sindacali presenti, dice loro “ve lo chiedo
provocatoriamente, ma devo porvi la questione, prima di ora dov'eravate? Mentre
ammazzavano la scuola, voi che facevate?”[3]. L'intervento viene interrotto da
una salva di applausi scroscianti, eccetto il mio mancante. Così muoiono le democrazie: tra gli applausi!
Non condivido l'intervento per due motivi: (i) non era quella la sede per reprimende nei confronti dei propri rappresentanti sindacali; e, (ii) la stessa domanda, per prima, andrebbe posta a noi stessi: dov'eravamo noi prima che smantellassero la scuola? Cosa abbiamo fatto per opporci? Per difendere la dignità, umana, professionale, civile, del nostro posto di lavoro? E come abbiamo lottato per il nostro bene comune? Il meccanismo della delega può distorcere la rappresentanza per categoria, ma non ci esime dalla responsabilità diretta. Chi accusa i sindacati evita di accettare, e riconoscere conseguentemente, proprie responsabilità, propri errori, proprie colpe. In fondo, è facile incolpare i sindacati di non aver fatto abbastanza … ma se il lavoratore è il primo a non scendere in piazza per sé stesso, il primo a non scioperare perché non può/vuole rinunciare al giorno di lavoro, per non danneggiare (sic!) i propri studenti (ben lieti al contrario di saltare la giornata), chi va incolpato? L'assemblea, comunque, riconosce nell'intervento della collega una consonanza d'idee secondo le quali, grosso modo, ci troveremmo in questa situazione perché il sindacato ha finito per fare interessi diversi da quelli della categoria professionale. In fin dei conti, per la collega i sindacati non rappresentano più né la categoria cui idealmente si riferiscono né i lavoratori stessi, lavorando magari per interessi più privati di corporazione in quanto tale. Eppure la replica da parte di una delegata presente è stata, a mio onesto modo di vedere, puntuale e disarmante: “non volete scioperare, va bene, e allora che forza ci date per rappresentarvi presso le sedi appropriate?”[4]. Vero: se non si aderisce alla mobilitazione, con quali numeri i sindacati possono rappresentare i propri lavoratori presso il datore di lavoro? La stessa, comunque, visti i mogugni sortiti nella sala alla replica, aggiunge: “se non volete adoperarvi per difendere i vostri stessi diritti, a me va bene ugualmente! Tanto, egoisticamente, vi dico che tra cinque anni non sarò più in servizio!”[5]. A queste parole, si elevano pochi applausi, compreso il mio: se non siamo noi a difendere i nostri diritti, chi lo farà per noi? Pensarla come la collega di prima significa sostanzialmente due cose: (a) non avere alcuna idea della natura propria della rappresentanza (il sindacato sta al lavoratore = il datore di lavoro sta alla società civile); e, (b) ignorare l'attuale compressione datoriale delle relazioni sindacali ad ambiti marginali della pratica lavorativa.
Non condivido l'intervento per due motivi: (i) non era quella la sede per reprimende nei confronti dei propri rappresentanti sindacali; e, (ii) la stessa domanda, per prima, andrebbe posta a noi stessi: dov'eravamo noi prima che smantellassero la scuola? Cosa abbiamo fatto per opporci? Per difendere la dignità, umana, professionale, civile, del nostro posto di lavoro? E come abbiamo lottato per il nostro bene comune? Il meccanismo della delega può distorcere la rappresentanza per categoria, ma non ci esime dalla responsabilità diretta. Chi accusa i sindacati evita di accettare, e riconoscere conseguentemente, proprie responsabilità, propri errori, proprie colpe. In fondo, è facile incolpare i sindacati di non aver fatto abbastanza … ma se il lavoratore è il primo a non scendere in piazza per sé stesso, il primo a non scioperare perché non può/vuole rinunciare al giorno di lavoro, per non danneggiare (sic!) i propri studenti (ben lieti al contrario di saltare la giornata), chi va incolpato? L'assemblea, comunque, riconosce nell'intervento della collega una consonanza d'idee secondo le quali, grosso modo, ci troveremmo in questa situazione perché il sindacato ha finito per fare interessi diversi da quelli della categoria professionale. In fin dei conti, per la collega i sindacati non rappresentano più né la categoria cui idealmente si riferiscono né i lavoratori stessi, lavorando magari per interessi più privati di corporazione in quanto tale. Eppure la replica da parte di una delegata presente è stata, a mio onesto modo di vedere, puntuale e disarmante: “non volete scioperare, va bene, e allora che forza ci date per rappresentarvi presso le sedi appropriate?”[4]. Vero: se non si aderisce alla mobilitazione, con quali numeri i sindacati possono rappresentare i propri lavoratori presso il datore di lavoro? La stessa, comunque, visti i mogugni sortiti nella sala alla replica, aggiunge: “se non volete adoperarvi per difendere i vostri stessi diritti, a me va bene ugualmente! Tanto, egoisticamente, vi dico che tra cinque anni non sarò più in servizio!”[5]. A queste parole, si elevano pochi applausi, compreso il mio: se non siamo noi a difendere i nostri diritti, chi lo farà per noi? Pensarla come la collega di prima significa sostanzialmente due cose: (a) non avere alcuna idea della natura propria della rappresentanza (il sindacato sta al lavoratore = il datore di lavoro sta alla società civile); e, (b) ignorare l'attuale compressione datoriale delle relazioni sindacali ad ambiti marginali della pratica lavorativa.
Ecco il nodo vero e proprio:
come mai i sindacati appaiono privi di forza contrattuale? Perché il datore di
lavoro non contratta più nulla con loro, manco li consulta, al massimo li
informa a cose fatte, rinviando al dibattito parlamentare eventuali modifiche
esigendo, però, nel contempo l'enigmatico mantenimento del saldo finale. E ciò
accade, molto probabilmente, proprio perché per inerzia colpevole il lavoratore
ha finito, lui per primo, a non credere più nella democrazia, nel proprio
lavoro, nella dignità che dovrebbe competergli per natura. Non difendendo più
il proprio lavoro, come può pretendere di mantenerne nel tempo i crismi della
dignità? Gioco forza, il Governo interpreta bene gli umori della pubblica
opinione che non vede di buon occhio il lavoratore della scuola, non dando peso
alle organizzazioni di settore e facendo passare sopra di lui tutte le
decisioni. L'invenzione del ministero della Funzione Pubblica, a guida di
Brunetta, è altamente significativa da questo punto di vista: riscrivere la
natura propria delle relazioni sindacali, equiparando, al ribasso, l'impiego
pubblico all'impiego privato. E dovremmo forse lamentarci? Siamo stati noi
stessi a revocare peso in sede di contrattazione ai nostri rappresentanti di
categoria …
V'è, però, ancora un aspetto
da considerare prima di passare alle proposte vere e proprie – sì, ve ne sono:
per questo spesso, ma non sempre, ho l'impressione di essere un alieno tra i
miei simili -: delle problematiche di questo lavoro, l'opinione pubblica cosa
sa davvero? Quando quest'ultima dice di sì ai provvedimenti iniqui che
castigano senza giusta causa – si colga al proposito la provocazione – il
personale scolastico, cosa sa davvero del lavoro di quest'ultimo? Qui veniamo
al problema di maggior difficile soluzione. Quando la proposta cominciò a
circolare, il mio edicolante si è sentito autorizzato alla seguente invasione
di campo: “fanno bene ad aumentarvi l'orario di servizio perché, in
proporzione, per tutte le ore di lavoro che svolgo dovrei guadagnare molto più
di quanto invece guadagno”[6]. “Caro edicolante”, questa dovrebbe essere la mia
risposta che per rabbia non gli espressi allora, “per quanto mi riguarda, evito
di sindacare – non sfugga la provocazione – il tuo lavoro perché direi solamente
fesserie, per quanto riguarda invece il mio mestiere vorrei rovesciare la
questione per farti comprendere meglio di cosa si stia davvero parlando, e ti
chiedo: cosa faresti se per legge ti aumentassero l'orario di lavoro da 12 a 24
ore giornaliere bloccandoti però, sempre per legge, eventuali aumenti nei
guadagni? Non ti lagneresti forse? Non ti arrabbieresti forse? Non chiuderesti
l'edicola per protesta? E come mai se a fare ciò sei tu va tutto bene mentre io
non potrei farlo?” Ecco il nodo della questione, evaso da pubblica opinione, da
Governo e simili: fino a che
l'opinione pubblica ha del mondo (del lavoro) della scuola un'immagine, di
comodo, non veritiera, il datore di lavoro potrà fare e disfare a piacimento, i
sindacati non potranno rappresentare adeguatamente i propri iscritti, e i
lavoratori dovranno solamente subire qualsiasi decisione, per iniqua che sia.
L'esempio dell'edicolante dovrebbe, nelle mie intenzioni, descrivere
obiettivamente, e con adeguati termini di paragone, la natura reale della
questione “aumento dell'orario di servizio”: cosa accadrebbe se si aumentassero
per legge, con mantenimento obbligatorio per legge degli attuali saldi di
retribuzione, l'orario di lavoro di metalmeccanici di sei ore in più la
settimana? Non scioperebbero? Chissà! E cosa accadrebbe se, sempre alla stessa
maniera, lo stesso accadesse per i dipendenti comunali? Nulla? Ne siete davvero
sicuri? Oppure per gli operatori dei trasporti …
Questo accade perché si
tratta di provvedimenti iniqui e perniciosi per la dignità stessa degli
operatori (lavori di più per percepire meno!) ma proprio non si comprende come
mai se a scioperare sono queste categorie va tutto bene mentre a noi viene
negata questa stessa possibilità! Tranquilli, per come conosco il mio luogo di
lavoro, questo è ben lungi dall'accadere. Infatti, l'operatore scolastico è
colui che non mostra alcun amor proprio (tale da non concedere nulla senza
adeguata contropartita). Di conseguenza, masochisticamente, è il cliente
perfetto per la ricerca spasmodica, da parte della pubblica opinionie di
vittime sacrificali all'altare del rigore dei conti, o, com'è più di moda oggi,
della “stabilità” (per non dire anche del rigore)!
Questa lunga filippica
giunge al termine. Tutto negativo? Tutt'altro, per ora la faccenda dell'aumento
dell'orario è tramontata. Ma la dinamica delle retoriche pubbliche lascia
trapelare come verrà riproposta, anche perché se non si taglia sulla scuola,
conoscete voi qualche altro settore pronto a sottomettersi a mannaie simili? Peraltro,
senza protesta alcuna?
Veniamo ad alcune semplici
proposte che, a mio modo di vedere, potrebbero sortire i medesimi effetti senza
scioperare, visto che non si può/vuole farlo:
1)
cominciare
a rifiutare tutto quello che esorbita dal “minimo” previsto nel contratto
(esempio: coordinamento di classe; funzione di segretario; funzioni
strumentali; lavoro a casa; correzione domestica di verifiche; etc.);
2)
rifiutarsi
di accompagnare le classe in viaggi d'istruzione;
3)
rifiutarsi
di adottare libri di testo[7].
La proposta (1) risponde a
tono all'idea errata secondo la quale concluso il servizio in classe, il
docente non fa, per dirla con Cetto “una beataminchia”. Così si vedrebbe quanto
in realtà sia dilatato nel corso della settimana l'orario di lavoro (quante ore
domestiche ne contraddistinguono il carico di lavoro).
La proposta (2) colpisce
direttamente i tour operators e
risponde all'esigenza attuale di comunicare pubblicamente il nostro disagio di
categoria professionale colpita nella dignità e nel portafogli da provvedimenti
iniqui. Perché dovremmo far finta che vada tutto bene e comportarci di
conseguenza? Peraltro, l'assunzione di rischio di un eventuale accompagnamento,
peraltro solo su base volontaria dato che nessuno può costringere un docente ad
accettare, non è adeguatamente remunerato: chi ce lo fa fare a finanziare i tour operators?
La proposta (3), invece, è a
mio modesto modo di vedere, l'idea più innovativa, come forma di protesta, e di
contrasto, alle politiche governative ininique nei confronti della categoria:
perché assicurare il giro d'affari per le case editrici come se nulla accadesse
su di noi? Peraltro, da nessuna parte c'è scritto che il docente deve adottare
un libro di testo. Si potrebbe benissimo adottare internet, e il mondo open
source, come valida alternativa, anche in termini di costi, per le scelte
didattiche, che competono esclusivamente al docente. Vale lo stesso detto nel
caso precedente: qualsiasi forma di protesta non può che avere ricadute
negative su altri. Perché dobbiamo pagare sempre, e solo noi, mentre il resto
del mondo continua a girare?
(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjq9VKEpXv1dqB1A4wizWDfnejrsbdlztRJ2lqKkfMB5uhW9ImGfCT51nkTvYxSOqJ2ntrxrM5sCGfFg9_pSDUgmCZkd2wT-TcnF_kS8iCnuGOB-FQ2rYJ_Kvwelv-EgzE_WARuskOUb9E/s1600/boccia+le+24+ore.jpg)
Tuttavia, come nel caso
dello sciopero classico, se l'operatore scolastico è il primo a non voler
difendere sé stesso, come può legittimamente sperare che altri lo facciano in
sua vece? Ed ancora: sarebbe bello aspettarsi, conseguentemente quanto
coerentemente, che siffatto operatore poi però restasse zitto anziché lagnarsi
senza fare nulla! Ma l'operatore scolastico è masochista anche sino a questo
punto: farsi del male anche a parole!
Note
[1] Per comprendere ciò
basta impostare la seguente equivalenza: 100 : 18 = 100 : 24. I conti non
tornano? Invece, sono lampanti!
[2] Le ore n. 18 in classe
si riferiscono esclusivamente al “tempo scuola”, ossia alle cosiddette “lezioni
frontali”, quando il docente diventa il tutore di minorenni indisciplinati,
sovente anche maleducati, e comunque in preda agli ormoni, mentre si tace
completamente di quel numero di ore aggiuntive che ciascun docente deve assicurare
nel corso della settimana per mandare avanti dignitosamente il proprio lavoro:
(i) preparazione di materiale didattico (a casa, e non retribuito); (ii)
correzione di verifiche (a casa, e non retribuito); (iii) aggiornamento
professionale (a casa, e non retribuito); (iv) aggiornamento di servizio (a
scuola, ma non in orario di servizio); (v) incontri con le famiglie (a scuola,
ma non in orario di servizio); (vi) riunioni per classi (a scuola, ma non
retribuito); (vii) riunioni per materie (a scuola, ma non retribuito); (viii)
riunioni in Collegio docenti (a scuola, ma non in orario di servizio); (ix)
verbalizzazione di incontri, consiglio e collegi (a casa, ma non retribuito);
(x) scrutinii (a scuola, ma non in orario di servizio); (xi) riunioni straordinarie
per provvedimenti disciplinari (a scuole, ma non in orario di servizio); e
l'elenco potrebbe continuare, ma preferisco, per pudore, nei miei stessi
confronti, procedere oltre. Ciò, però, rende bene l'idea del disagio con il
quale il dipendente apprende di tali intenzioni, come dicevo mortificanti
quanto inique. Infatti, non solo si aumenta surrettiziamente l'orario di
lavoro, lasciando nel contempo inalterata la retribuzione, peraltro fortemente
erosa dall'inflazione – a proposito, si vuole anche non corrispondere più
quella miseria di spiccioli come indennità da vacanza contrattuale sinora corrisposta dopo la scadenza naturale
dell'attuale contratto - , ma si concede il contentino che sa tanto di beffa:
15 gg in più di ferie! Ah, perlomeno si potrebbe pensare ad una più flessibile
organizzazione delle ferie annuali. Invece no, perché si precisa subito che
tale periodo non deve comportare oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche.
Allora, quando il personale può usufruire davvero di tali ferie senza
comportare aumenti di spesa? Semplice, solo quando la scuola è, per vari
motivi, chiusa: Natale; Pasqua; e così via! Beffa su beffa! Concedi una carota
di cui non puoi comunque usufruire. Contemporaneamente, però, stabilisci anche
come le ferie non godute, per motivi vari, non saranno più liquidate
economicamente … c'è decisamente profumo di fregatura!
[3] Mi sia concessa, al
riguardo, un po' di libertà narrativa: le parole non sono state esattamente
queste, ma rendono bene l'idea.
[4] Valga quanto precisato
nella nota precedente. In più si aggiunga questo: la forza di una
rappresentanza sindacale dipende dalla percentuale di adesione alle forme di
mobilitazione. Se questa latita, il sindacato semplicemente non ha alcuna
forza. E la ragione è semplice, dipendente dalla natura stessa dello sciopero in quanto tale: provocare un
disagio tale da costringere la controparte sindacale quantomeno ad ascoltarti.
Altrimenti, perché mai dovrebbe perdere del tempo prezioso per sentire le tue
lamentele?
[5] Valga la precisazione di
due note fa. In più si aggiunga questo: il meccanismo della delega a rotazione
produce questo effetto di scaricabarile, i problemi restano per chi ha ancora
molti anni davanti. L'idea perversa, che accomuna molti lavoratori della
scuola, è che gli eventuali disagi da affrontare riguarderanno sempre altri,
mai noi in prima persona. Per cui, se il datore di lavoro riduce gli organici,
si finisce sempre con il pensare che la stretta sarà per altri, non per me. Se
il datore di lavoro riduce il salario, si finisce sempre con il pensare che il
taglio varrà per altri, mai per me. E se malauguratamente dovessi accorgermi
che sono stato fregato, penserò sempre che ciò è accaduto perché i sindacati
non mi hanno difeso.
[6] Come sopra.
[7] Valga quanto detto nella
nota precedente visto che le proposte (2) e (3) sono tratte dall'intervento di
un collega che ha preso la parola, nella medesima assemblea, dopo la replica
della delegata alle parole della collega pasionaria.
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