(Semi-)Recensione a: L. Canfora, “È l'Europa che ce lo chiede!” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2012
Il presente volume di
Canfora, grande indipendente del mondo accademico, sempre più prono
nei confronti del potere, di qualsivoglia risma esso sia fatto
realmente, smonta pezzo per pezzo la retorica pubblica con la quale
siamo stati amministrati negli ultimi cinque anni.
Dire che “è l'Europa
che ce lo chiede” significa spostare metaforicamente il topos
del potere, e, quindi, anche delle stesse decisioni politiche, dalle
loro sedi istituzionali consone, e a ciò poste, in un imprecisato
“altrove” geopolitico che presenta indubbiamente due vantaggi,
irrelati ma coevi: 1) far digerire provvedimenti altrimenti
impopolari come imposizioni calate dall'altro; 2) non sforzare
nemmeno un pochino le meningi politiche nostrane nel mandare ad
effetto richieste comunitarie ma compatibilmente con la nostra
sovranità popolare.
Per
Canfora, l'antifona degli ultimi due anni, in misura più esplicita
che nel passato recente, ci ha consentito di veder “abbattere
governi, farne nascere di novi, ordinare la nascita di coalizioni,
vietare referendum in paesi apparentemente sovrani”[1].
La
Comunità Europea si è così trasformata, nella vulgata
massmediale, e nella comodità
viscerale del popolino, da “madre”, magnifica e generosa, in
“matrigna”, brutta, arcigna ed avara. Al punto tale che le sue
stesse raccomandazioni, trasmesse ai Governi nazionali tramite le
“veline” di lettere semi – segrete a firma della BCE, della
Banca Comune Europea, una banca in assenza di uno Stato, minano la
sovranità stessa dei Governi, rimescolando dall'alto la composizione
stessa delle locali società politiche. É accaduto in Grecia, è
accaduto anche da noi l'anno scorso …
Additare
così l'amico-nemico del Continente, che decide e dispone per noi,
consente di imporre alle popolazioni programmi poderosi di
(auto-)limitazione della spesa pubblica, con tagli, più o meno,
lineari a quel che concerne il finanziamento dei diritti. Ma consente
anche di non doversi nemmeno industriare nel cercare soluzioni
originali, creative, impegnative, le quali non scontentino la BCE ma
nemmeno le popolazioni che devono subirle. Ecco il punto: qual è il
margine di autonomia dei governi nazionali rispetto alla politica
economica decisa dalla BCE per tutta la Comunità? Secondo
(quasi-)tutti: nessuno. Secondo me, invece, i margini, sebbene
ristretti nella somma finale che impongono, vi sono. Il problema,
forse, è che la nostra attuale classe dirigente appare incapace di
pensare in grande, impreparata a ragionare in termini sistemici, a
relazionarsi in chiave internazionale, a coordinare tra “centro”
e “periferia” del Continente.
Se
la BCE chiede una diminuzione del debito pubblico e consiglia alcune
misure, perché mai il Nostro Governo dovrebbe tradurle
immediatamente in pratica senza neanche tentare di adattarle alle
nostre capacità produttive e sociali?
Canfora
dà sfogo in questa sede agli umori negativi nei confronti della
matrigna europea, tutto sotto il giogo diretto di Berlino:
“l'eurozona è il suo mercato”[2]. É la Germania che impone a
tutti i paesi del Continente asfitttiche politiche di rigore
economico, dimenticando che in tempi di riflusso economico, al
contrario, bisogna spendere, non diminire la spesa pubblica. Pena
ristagno e disoccupazione, effetti puntualmente verificatisi, e
soprattutto in quei paesi, occupanti la “periferia” dell'Impero
tedesco, come Portogallo, Spagna, Grecia e, immancabilmente, il
Nostro.
Nemmeno
appare praticabile la misura della svalutazione monetaria, strada
invece percorsa nei mesi scorsi da USA e Giappone perché
“detronizzerebbe la Germania dalla sua posizione dominante”[3].
Peraltro,
a quanti osano chiedere un dilazionamento dei tempi di suddetti
provvedimenti contenitivi della spesa pubblica, si obietta subito che
sarebbe una china pericolosa, evocando “gli anni finali della Prima
Repubblica”[4].
E
Canfora se la prende caldamente anche con la cosiddetta sinistra,
ridotta ormai a propaggine improduttiva dell'attuale sistema
politico, delegato della BCE ….
Per
l'autore, infatti,sarebbe preferibile svalutare la moneta comune al
fine di stimolare la produzione, e, quindi, anche l'occupazione, con
ricadute a cascata sui bilanci pubblici e sulla redistribuzione
fiscale della ricchezza, dal momento che ciò “renderebbe
concorrenziali le nsotre merci”[5]. E solo una sana
socialdemocrazia, tornata sé stessa, “potrebbe farsi promotrice di
questa rinascita”[6].
Anche
perché perdurante l'attuale equilibrio continentale, la Comunità
Europea appare poco meno di un “gigantesco feudo tedesco”[7], e
non un Paese a 27.
Ma
dopo aver dato sfogo agli umori viscerali del popolino, assai più
incline a veder complotti ovunque, per spiegare una gestione della
propria vita improvvisata sfuggitagli di mano, che a comprendere le
reali dinamiche complesse della burocrazia continentale e della
finanza globale.
D'altro
canto, è proprio l'insicurezza che promana da un mondo in divenire,
senza pause nel suo sviluppo, più liquido che solido, che offusca
l'acume dei più. In realtà, il mondo cambia sotto i nostri stessi
occhi e in genere facciamo non poca fatica ad inseguire, con una
comprensione possibile solo a posteriori,
questi mutamenti. Ma se i maneggioni dell'alta finanza filano e
disfano la tela economica mondiale, i nostri governanti riesumano una
tecnica politica vecchia, ma ancora efficace: “l'individuazione del
falso bersaglio”[8]. Si tratta della politica economica seguita,
più in parole, e per fortuna, che in pratica, negli ultimi anni:
spostare l'attenzione dagli squilibri ai vertici della piramide
sociale alla base della stessa ed indicare in chi è già occupato
stabilmente, e protetto da dei diritti, personali e sociali, come il
responsabile della crisi economica, o, perlomeno, dei suoi deleteri
effetti umani. Si tratta di un modo sofisticato per adoperare il
“ricatto” nella contesa politica ed economica, gettando fumo
negli occhi dei poveri disperati dalla congiuntura economica
particolarmente severa. Così, “l'operaio occupato, che giustamente
difende i diritti che ha conquistato nel corso di un secolo di lotte,
è oggi bersaglio di una compagna ostile, truccata nei suoi termini e
ricattatoria nei metodi. Gli viene ingiunto di rinunciare alle sue
conquiste, la cui ostinata difesa penalizzerebbe (p questa la
paradossale accusa) le generazioni future”[9]. É, insomma, per
colpa di chi oggi ha (la fortuna di avere ancora) un lavoro, e che
non accetta aumenti di produttività (altro modo per dire
'precarietà'), che molti altri, giovani, non lo avranno domani, e
nemmeno dopodomani.
D'altro
canto, prosegue implacabile siffatta retorica, “abbarbicato ai suoi
“privilegi”, a quei poco più di mille euro mensili che nei casi
migliori guadagna e a quelle garanzie previdenziali e statutarie che
ha ottenuto, egli viene presentato come il cieco egoista che di
disinteressa del destino delle generazioni a venire”[10]. La colpa,
insomma, non è del sistema economico in generale, incapace di
rinnovarsi e di competere con altri attori e scenari internazionali,
oltre che, beninteso, della furberia imprenditoriale delle alte
sfere, ma del lavoratore dipendente che non vuole cedere nulla della
sua attuale agiatezza in favore di chi un lavoro al momento non l'ha.
Si aggiunge anche, più o meno implicitamente, che questa sua mancata
rinuncia condanna il futuro occupazionale dei giovani. Come se fosse
davvero una sua colpa …
Perché
si dice questo? Ancora qui per conseguire un doppia risultato: i)
additare un nemico (inventato), reo delle difficoltà occupazionali,
ed economiche pubbliche, attuali; e, (ii) far accettare ai futuri
lavoratori condizioni di vita e di lavoro certamente peggiori delle
attuali (se vogliono pur lavorare …). L'operaio, garantito è “il
nemico che toglie loro il futuro e preclude il loro presente”[11].
Mai come negli ultimi anni si è registrata una simile insistenza
sulla disoccupazione giovanile, peraltro mica una novità dalle
nostre parti, e della necessità di un nuovo patto sociale (tra le
diverse generazioni). Solo che, e questo è il nocciolo vero della
questione, tale rifondazione viene richiesta “al ribasso”, ossia
con un sostanziale ritocco in direzione peggiorativa e di condizioni
di lavoro (salari; orari; convenzioni; prestazioni sociali; servizi
socio – assistenziali; etc.) e di condizioni esistenziali
(incertezza sugli orari; incertezza sulla durata dell'impiego; futuro
incerto sulle indennità d'infortunio e sul futuro fuori dalla vita
attiva; etc.). Come chiosa Canfora “Lungi dal riconoscere che è
l'intangibilità del profitto […] che scaraventa intere generazioni
fuori dal mercato del lavoro, si ricorre all'abile e ricattatoria
denuncia contro l'egoismo (!) di chi, per sua fortuna, non è ancora
stato estromesso e non si rassegna ad autoridursi il salario ed
appesantire, per «salvare
l'euro»,
le condizioni di lavoro”[12]. Infatti, se banchieri e magnati si
riducessero i loro profitti, “il che vuol dire ridurre l'orario di
lavoro a pari salario e aumentare i posti di lavoro”[13], il
problema dei giovani inoccupati sarebbe avviato a soluzione. Ma
questa strada viene respinta da quanti difendono, forse con lo stesso
egoismo del lavoratore dipendente che difende il suo posto di lavoro,
e le sue garanzie, la sacralità del profitto personale.
Ma
se il profitto deve quanto meno restare intatto o, magari anche,
accrescere, allora o si addita il falso nemico del dipendente che non
si autoriduce il salario oppure si ricatta un'intero Paese con la
minaccia della delocalizzazione
degli impianti di produzione verso i paesi dove minori sono i salari,
le tutele, le garanzie, insomma tutti quei costi che incidono, più o
meno direttamente, sul profitto finale del capitano d'impresa.
Il
futuro, fosco nei termini e nei contenuti, è forse quello di una
nuova schiavitù? Ovviamente, se il profitto deve rimanere
vantaggioso per chi imprende un'attività produttiva, allora cosa
resta al sottoposto (al primo legato dalla disparità di posizione
dei contraenti in un rapporto di lavoro)? Meno, ma meglio per il
primo se ancora meno. Ecco, allora, spiegata la nemmeno tanto oscura
dinamica delle scelte politiche ed economiche degli ultimi anni.
Ma,
forse, non c'era nemmeno il reale bisogno di scomodare il gigante
silente europeo. Infatti, l'Europa non ci ha chiesto affatto tutto
questo, è stata l'economia a farlo, e quasi impunemente.
....
(Continua)
(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/41GmJIM2BQL._SL500_AA300_.jpg)
Note
[1]
Cfr. L. Canfora, “È
l'Europa che ce lo chiede!” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2012,
p. 25.
[2]
Ivi, p. 36.
[3]
Ivi, p. 37.
[4]
Ibidem.
[5]
Ivi, p. 38.
[6]
Ivi, p. 39.
[7]
Ibidem.
[8]
Ivi, p. 48.
[9]
Ivi, pp. 47 – 8.
[10]
Ivi, p. 48.
[11]
Ibidem.
[12]
Ivi, pp. 48 – 9.
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