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mercoledì 19 febbraio 2014

Considerazioni in merito alla disabilità

(sviluppo in fieri del lavoro su disabilità e filosofia)


"Se un bambino disabile viene immesso inaspettatamente in un gruppo di bambini, tutti lo guarderanno dapprima con curiosità o stupore o sgomento, secondo l’inesorabilità dei punti di vista. Gli unici che conserveranno un’attenzione concentrata, una partecipazione ambigua e un occhio torbido saranno quelli che cercano in lui uno specchio. Alcuni, avvinti quanto sopraffatti dalla paura di riconoscersi, reagiranno addirittura con la fuga o l’aggressività. Ma tornare è il loro destino vischioso, la loro sconfitta rassicurante"

(G. Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2012, pp. 42 - 3)

Paura. Fuga. Ritorno. È attorno a questa triade che, a mio modesto avviso, si deve costruire un'etica della disabilità. Ma per far questo bisogna prima chiarire i termini generali della questione. 


Se il disabile, generalmente, trova ostacoli e notevoli difficoltà ad una vita autonoma, quale dev'essere il nostro rapporto con lui? Se fuggiamo, rinneghiamo il nostro stesso essere uomini. Se torniamo presso di lui, ma inerti come prima, manchiamo di riconoscerlo uomo, o donna, come noi. 


Dunque, se come uomini non possiamo che sentirci legati gli uni agli altri in un destino comune, l'essere parte del medesimo destino, accomunati dall'appartenenza alla stessa specie, un'etica della disabilità non potrà che essere un'etica della cura. Sì, come espressione di quella solidarietà, sentimento che esprime appieno la nostra unione come parti della stessa specie, i cosiddetti “normali” sono legati ai “disabili”, alla stessa maniera di come lo sono questi ultimi ai primi. Pertanto, bisogna prendersi cura dei disabili, ma non per soffocarne i bisogni reali in quanto persone come noi, ma per aiutarle a divenire ancor più persone. I disabili esprimono un bisogno di aiuto e spingono tutti noi a divenire, a nostra volta, ancora più persone, interessandoci di loro ed aiutandoli concretamente. Pertanto, la loro stessa esistenza, la loro presenza, il loro sguardo interpellano direttamente la nostra libertà, chiedendoci, e con imperio, di farne buon uso, mettendo in pratica iniziative volte a sollevarli di alcuni pesi. La presa in cura, infatti, non significa solamente prestare loro delle cure frettolose, come farebbe un'infermiera ospedaliera, ma addossare sulle nostre spalle un po' del peso che loro quotidianamente vivono. 


Non intendo dire che dovremmo esperire saltuariamente o sporadicamente cosa significhi la condizione disabile, ma soltanto, e non è certo poco, a dire il vero, essere pronti ad agire conseguentemente al riconoscimento della loro umanità, all'aver scorto in loro la presenza della medesima fiammella che palpita dentro di noi. È per rispetto a quest'ultima, è per sollecitudine nei confronti della comune umanità che dobbiamo andare incontro ai disabili e averne cura, come, penso, avremmo normalmente cura, e responsabilità, nei confronti di chiunque sia fragile, debole, non autonomo. Non ne abbiamo, forse, nei confronti dei neonati? O nei confronti dei bambini ammalati? O degli anziani che lentamente si spengono? 


Penso sia corretta l'impostazione del discorso sulla disabilità ad opera dell'OMS secondo il quale, infatti, la disabilità non coincide con la menomazione, temporanea o definitiva, ma consiste nell'oggettivazione della menomazione. Di conseguenza, tale nozione riflette bene le ripercussioni o gli effetti della menomazione sulle persone divenute così incapaci di compiere una determinata azione nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano.



Così, dovremmo averne nei confronti dei disabili, valorizzando il significato proprio della nostra umanità e facendo, nel contempo, un buon uso della nostra libertà.

(prosegue)


(immagine tratta da: http://static.leonardo.it/wp-content/uploads/sites/4/2012/10/Un-bimbo-diversamente-abile-da-sostenere-non-da-emarginare.jpg)

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