(sviluppo in fieri del lavoro su disabilità e filosofia)
"Se
un bambino disabile viene immesso inaspettatamente in un gruppo di
bambini, tutti lo guarderanno dapprima con curiosità o stupore o
sgomento, secondo l’inesorabilità dei punti di vista. Gli unici
che conserveranno un’attenzione concentrata, una partecipazione
ambigua e un occhio torbido saranno quelli che cercano in lui uno
specchio. Alcuni, avvinti quanto sopraffatti dalla paura di
riconoscersi, reagiranno addirittura con la fuga o l’aggressività.
Ma tornare è il loro destino vischioso, la loro sconfitta
rassicurante"
(G.
Pontiggia, Nati
due volte,
Mondadori, Milano, 2012, pp. 42 - 3)
Paura.
Fuga. Ritorno. È attorno a questa triade che, a mio modesto avviso,
si deve costruire un'etica della disabilità. Ma per far questo
bisogna prima chiarire i termini generali della questione.
Se il
disabile, generalmente, trova ostacoli e notevoli difficoltà ad una
vita autonoma, quale dev'essere il nostro rapporto con lui? Se
fuggiamo, rinneghiamo il nostro stesso essere uomini. Se torniamo
presso di lui, ma inerti come prima, manchiamo di riconoscerlo uomo,
o donna, come noi.
Dunque, se come uomini non possiamo che sentirci
legati gli uni agli altri in un destino comune, l'essere parte del
medesimo destino, accomunati dall'appartenenza alla stessa specie,
un'etica della disabilità non potrà che essere un'etica della cura.
Sì, come espressione di quella solidarietà, sentimento che esprime
appieno la nostra unione come parti della stessa specie, i cosiddetti
“normali” sono legati ai “disabili”, alla stessa maniera di
come lo sono questi ultimi ai primi. Pertanto, bisogna prendersi cura
dei disabili, ma non per soffocarne i bisogni reali in quanto persone
come noi, ma per aiutarle a divenire ancor più persone. I disabili
esprimono un bisogno di aiuto e spingono tutti noi a divenire, a
nostra volta, ancora più persone, interessandoci di loro ed
aiutandoli concretamente. Pertanto, la loro stessa esistenza, la loro
presenza, il loro sguardo interpellano direttamente la nostra
libertà, chiedendoci, e con imperio, di farne buon uso, mettendo in
pratica iniziative volte a sollevarli di alcuni pesi. La presa in
cura, infatti, non significa solamente prestare loro delle cure
frettolose, come farebbe un'infermiera ospedaliera, ma addossare
sulle nostre spalle un po' del peso che loro quotidianamente vivono.
Non intendo dire che dovremmo esperire saltuariamente o
sporadicamente cosa significhi la condizione disabile, ma soltanto, e
non è certo poco, a dire il vero, essere pronti ad agire
conseguentemente al riconoscimento della loro umanità, all'aver
scorto in loro la presenza della medesima fiammella che palpita
dentro di noi. È per rispetto a quest'ultima, è per sollecitudine
nei confronti della comune umanità che dobbiamo andare incontro ai
disabili e averne cura, come, penso, avremmo normalmente cura, e
responsabilità, nei confronti di chiunque sia fragile, debole, non
autonomo. Non ne abbiamo, forse, nei confronti dei neonati? O nei
confronti dei bambini ammalati? O degli anziani che lentamente si
spengono?
Penso sia corretta l'impostazione del discorso sulla
disabilità ad opera dell'OMS secondo il quale, infatti, la
disabilità non coincide con la menomazione, temporanea o definitiva,
ma consiste nell'oggettivazione della menomazione. Di conseguenza,
tale nozione riflette bene le ripercussioni o gli effetti della
menomazione sulle persone divenute così incapaci di compiere una
determinata azione nel modo o nell'ampiezza considerati normali per
un essere umano.
Così,
dovremmo averne nei confronti dei disabili, valorizzando il
significato proprio della nostra umanità e facendo, nel contempo, un
buon uso della nostra libertà.
(prosegue)
(immagine tratta da: http://static.leonardo.it/wp-content/uploads/sites/4/2012/10/Un-bimbo-diversamente-abile-da-sostenere-non-da-emarginare.jpg)
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