Se
Dio è scomparso dall'orizzonte dell'uomo moderno, ciò non è
accaduto perché sia morto. È accaduto perché si è cominciato a
concepirlo soltanto come un impersonale Esso, e quindi,
potenzialmente, come un oggetto che la mente dell'uomo osserva
distaccata, definisce, comprende, che in definitiva essa stessa pone,
crea[1]
Quel
che è cambiato è l'ordine di priorità interne alla coscienza
moderna, al punto che Dio viene occultato dietro le urgenze del
reale, della percezione, delle occupazioni, delle pratiche da mandare
ad effetto. Come sostiene Buber:
l'uomo
è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia
indipendente da lui, e di rapportarsi ad essa – incapace pure di
raffigurare e rappresentare questa realtà in immagini vive che la
sostuiscano in luogo di una contemplazione che non può eguagliarla.
Poiché le grandi immagini divine dell'umanità non nascono dalla
fantasia, ma dal reale incontro con la reale potenza e magnificenza
divine[2]
La
realizzazione dell'annuncio nietzschiano in merito alla morte
di Dio non significa la
folle, quanto insensata, negazione metafisica di Dio, ma la
constatazione antropologica circa la sua scomparsa dall'orizzonte
morale dei più[3]. In
altri termini, altri contenuti morali hanno occupato la spazio prima
esistente tra l'uomo e Dio, al punto che ha senso descrivere lo stato
attuale con la locuzione significativa di eclissi
di Dio, «L'ora
in cui viviamo è caratterizzata infatti dall'oscuramento della luce
celeste, dall'eclissi di Dio» [4].
La
scomparsa di Dio dalla coscienza moderna è anche un riflesso del
ripiegamento interiore della psiche umana, in modo particolare negli
ultimi due secoli. Per questo motivo, anche, Buber attacca lo
junghismo, e lo fa con le seguenti parole:
la
coscienza moderna non vuole avere più niente a che fare con il Dio
creduto dalle religioni, che si manifesta all'anima e comunica con
lei, rimanendo però in sé un essere trascendente; si rivolge
all'anima come all'unica sfera dalla quale si possa aspettare che
contenga del divino[5]
L'umanità
moderna, profondamente legata al secolo, così intimamente connessa
con la fragilità materiale con la quale è fatta, finisce allora con
il rifiutare Dio, ossia con l'allontanarlo dai propri pensieri, la
coscienza umana abbandona Dio[6].
La
natura dialogica della riflessione buberiana descrive la condizione
moderna come l'esito della frapposizione del mondo tra l'Io
e il Tu,
tra Dio
e la Creazione.
L'originario rapporto teandrico viene occupato dal mundum,
ossia dall'essere che diviene il termine unico ed intrascendibile di
qualsiasi relazione. Detto altrimenti, l'uomo sostituisce la realtà
a Dio. In questo modo, il mondo
occupa lo spazio tra l'uomo e Dio, eclissando quest'Ultimo
dall'orizzonte di pensiero e di percezione.
L'eclissi
di Dio dal mondo moderno riposa sulla pacifica naturalizzazione della
realtà, ossia dalla negazione dell'orizzonte ultimo, e trascendente,
rispetto a quest'ultimo. Oltre al mondo, cioè, non v'è altro cui
guardare. Di conseguenza, il mondo si frappone tra l'uomo e Dio, il
mondo passa da instrumentum,
quale regno dei signa,
che rinviano ad altrove, ad un ulteriore non riducibile all'essere
stesso, a fine in sé.
Ma
se scompare la trascendenza, scompare anche la distanza tra uomo e
uomo. L'esito nichilista in teologia, o metafisica, ha sempre una
conseguenza non trascurabile in etica. Scomparso Dio, ossia il
campione per eccellenza di qualsiasi rapporto umano, nulla impedisce
che scompari anche l'uomo, ossia la controfigura antropica della
divinità nei rapporti umani concreti. Come sostiene Kajon, in
riferimento a Buber, «la
causa della crisi viene vista nella perdita di contatto con
l'originaria percezione dell'altro uomo»[7].
Pertanto, Buber non partecipa al clima ebraico coevo come risposta alla Shoah, e alla conseguente impotenza di Dio, ma imposta il problema in termini più usuali, considerando causa del male, né
direttamente né indirettamente, Dio, o come colpa o come dolo o
come conseguenza indiretta, ma l'uomo, come effetto del mancato riconoscimento
dell'altro, dalla negazione dell'altrui identità, dall'eclissi
dell'alterità in quanto tale.
Ancora una volta, dunque, il pensiero ebraico mostra la propria formidabile capacità di "leggere" in termini etici i contenuti filosofici, ossia le conseguenze pratiche delle rispettive opzioni metafisiche.
Un'apertura al mondo della vita che non è riscontrabile in altre opzioni teoriche e che andrebbe acquisita, pur nel rispetto delle altrui diversità culturali e di tradizioni.
(immagine tratta da: http://www.geagea.com/45indi/pic/buber1.jpg)
Note
[1] Cfr. S. Quinzio, Introduzione,
a: M. Buber,
L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione
e filosofia, Mondadori, Milano,
200510,
pp. 5 – 6.
[2] Cfr. M. Buber, L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano, 200510, p. 26.
[3] Ivi, p.
32.
[4] Ivi, p.
34.
[5] Ivi, p.
89.
[6] Ivi, p.
121.
[7] Cfr. I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma, 2002, p. 129.
Nessun commento:
Posta un commento
Se desideri commentare un mio post, ti prego, sii rispettoso dell'altrui pensiero e non lasciarti andare alla verve polemica per il semplice fatto che il web 2.0 rimuove la limitazione del confronto vis-a-vi, disinibendo così la facile tentazione all'insulto verace! Posso fidarmi di te?