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mercoledì 23 gennaio 2013

L'eclissi di Dio

Scrive Quinzio:



Se Dio è scomparso dall'orizzonte dell'uomo moderno, ciò non è accaduto perché sia morto. È accaduto perché si è cominciato a concepirlo soltanto come un impersonale Esso, e quindi, potenzialmente, come un oggetto che la mente dell'uomo osserva distaccata, definisce, comprende, che in definitiva essa stessa pone, crea[1]




Quel che è cambiato è l'ordine di priorità interne alla coscienza moderna, al punto che Dio viene occultato dietro le urgenze del reale, della percezione, delle occupazioni, delle pratiche da mandare ad effetto. Come sostiene Buber:

l'uomo è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia indipendente da lui, e di rapportarsi ad essa – incapace pure di raffigurare e rappresentare questa realtà in immagini vive che la sostuiscano in luogo di una contemplazione che non può eguagliarla. Poiché le grandi immagini divine dell'umanità non nascono dalla fantasia, ma dal reale incontro con la reale potenza e magnificenza divine[2]




La realizzazione dell'annuncio nietzschiano in merito alla morte di Dio non significa la folle, quanto insensata, negazione metafisica di Dio, ma la constatazione antropologica circa la sua scomparsa dall'orizzonte morale dei più[3]. In altri termini, altri contenuti morali hanno occupato la spazio prima esistente tra l'uomo e Dio, al punto che ha senso descrivere lo stato attuale con la locuzione significativa di eclissi di Dio, «L'ora in cui viviamo è caratterizzata infatti dall'oscuramento della luce celeste, dall'eclissi di Dio» [4]. 


La scomparsa di Dio dalla coscienza moderna è anche un riflesso del ripiegamento interiore della psiche umana, in modo particolare negli ultimi due secoli. Per questo motivo, anche, Buber attacca lo junghismo, e lo fa con le seguenti parole:

la coscienza moderna non vuole avere più niente a che fare con il Dio creduto dalle religioni, che si manifesta all'anima e comunica con lei, rimanendo però in sé un essere trascendente; si rivolge all'anima come all'unica sfera dalla quale si possa aspettare che contenga del divino[5]




L'umanità moderna, profondamente legata al secolo, così intimamente connessa con la fragilità materiale con la quale è fatta, finisce allora con il rifiutare Dio, ossia con l'allontanarlo dai propri pensieri, la coscienza umana abbandona Dio[6]. 


La natura dialogica della riflessione buberiana descrive la condizione moderna come l'esito della frapposizione del mondo tra l'Io e il Tu, tra Dio e la Creazione. L'originario rapporto teandrico viene occupato dal mundum, ossia dall'essere che diviene il termine unico ed intrascendibile di qualsiasi relazione. Detto altrimenti, l'uomo sostituisce la realtà a Dio. In questo modo, il mondo occupa lo spazio tra l'uomo e Dio, eclissando quest'Ultimo dall'orizzonte di pensiero e di percezione.



L'eclissi di Dio dal mondo moderno riposa sulla pacifica naturalizzazione della realtà, ossia dalla negazione dell'orizzonte ultimo, e trascendente, rispetto a quest'ultimo. Oltre al mondo, cioè, non v'è altro cui guardare. Di conseguenza, il mondo si frappone tra l'uomo e Dio, il mondo passa da instrumentum, quale regno dei signa, che rinviano ad altrove, ad un ulteriore non riducibile all'essere stesso, a fine in sé.



Ma se scompare la trascendenza, scompare anche la distanza tra uomo e uomo. L'esito nichilista in teologia, o metafisica, ha sempre una conseguenza non trascurabile in etica. Scomparso Dio, ossia il campione per eccellenza di qualsiasi rapporto umano, nulla impedisce che scompari anche l'uomo, ossia la controfigura antropica della divinità nei rapporti umani concreti. Come sostiene Kajon, in riferimento a Buber, «la causa della crisi viene vista nella perdita di contatto con l'originaria percezione dell'altro uomo»[7].




Pertanto, Buber non partecipa al clima ebraico coevo come risposta alla Shoah, e alla conseguente impotenza di Dio, ma imposta il problema in termini più usuali, considerando causa del male, né direttamente né indirettamente, Dio, o come colpa o come dolo o come conseguenza indiretta, ma l'uomo, come effetto del mancato riconoscimento dell'altro, dalla negazione dell'altrui identità, dall'eclissi dell'alterità in quanto tale.

Ancora una volta, dunque, il pensiero ebraico mostra la propria formidabile capacità di "leggere" in termini etici i contenuti filosofici, ossia le conseguenze pratiche delle rispettive opzioni metafisiche.

Un'apertura al mondo della vita che non è riscontrabile in altre opzioni teoriche e che andrebbe acquisita, pur nel rispetto delle altrui diversità culturali e di tradizioni.


(immagine tratta da: http://www.geagea.com/45indi/pic/buber1.jpg)



Note


[1] Cfr. S. Quinzio, Introduzione, a: M. Buber, L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano, 200510, pp. 5 – 6.
[2] Cfr. M. Buber, L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano, 200510, p. 26.
[3] Ivi, p. 32.
[4] Ivi, p. 34.
[5] Ivi, p. 89.
[6] Ivi, p. 121.
[7] Cfr. I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma, 2002, p. 129.



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