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venerdì 10 maggio 2019

Severino e la filosofia moderna #3





(E. Severino, La filosofia modernaRizzoli, Milano, 1987, p. 203)

A volte, i grandi autori riescono ad essere didattici.

giovedì 2 maggio 2019

Severino e la filosofia moderna #2



(E. Severino, La filosofia modernaRizzoli, Milano, 1987, p. 156)

A volte, i grandi autori riescono ad essere didattici.

lunedì 29 aprile 2019

Severino e la filosofia moderna #1


(E. Severino, La filosofia moderna, Rizzoli, Milano, 1987, p. 56)

A volte, i grandi autori riescono ad essere didattici.

mercoledì 17 dicembre 2014

Leibniz e la domanda fondamentale

(riflessioni in progress)


(url immagine: http://cias.rit.edu/~ckb3412/MYM/Site/showcase/images/leibniz.png)


Nell’opera minore Principes de la nature et de la grâce fondés en raison (1714), Leibniz scrive che :

Fin qui abbiamo parlato come semplici fisici. Adesso è necessario elevarsi alla metafisica, e perciò ci serviremo del grande principio, in genere poco impiegato: Niente accade senza ragion sufficiente – vale a dire: Niente avviene senza la possibilità, per chi conosce abbastanza le cose, di rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare perché avviene così e non altrimenti. Una volta stabilito questo principio, la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione del perché esse devono essere così e non altrimenti[1]

Dopo aver parlato delle monadi e di come distinguere tra percezione e coscienza, il Nostro comincia a trattare in maniera metafisica dell’ordo rerum, vale a dire della natura iuxta propria principia della realtà che dimoriamo. Nel far ciò, però, non può non attingere ad un unicum principium, a ragione considerato il più importante di tutti, il quale pone in essere il fondamento di tutto quel che esiste. Tale principio è il cosiddetto principio di ragion sufficiente e sostiene che nulla possa avere luogo senza una sua ragion d’essere

Leibniz lo formula nella maniera seguente: que rien ne se fait sans raison suffissante[2]. In virtù di quest’ultimo, niente ha luogo senza che sia possibile indicare una ragione sufficiente a spiegare perché avviene proprio così, et non pas autrement[3]

Il filosofo ci sta dicendo proprio questo, vale a dire che nulla accade a caso e che una ragione trascendente l’ordine delle cose stabilisce cosa deve avere luogo e come. Ora, se nulla, ma proprio nulla, non può avere luogo senza una ragione che ne disponga appunto l’aver luogo, le cose che sono, in quanto sono, esistono proprio perché v’è una ragione che le fa essere, v’è cioè una ragione ulteriore che ne consente il passaggio, necessario, dal piano della mera possibilità al piano dell’attualità, ossia dell’esistenza, appunto come cose. 


Una tale ragione è sufficiente a produrre uno stato di cose reale, vale a dire attuale, consentendone la conversio dalla possibilità all’esistenza. Perché le cose siano, piuttosto che non essere, perché le cose esistano, piuttosto che essere solamente potenziali, è necessario l’intervento di una causa agendi efficace, vale a dire efficiente nell’indirizzare il corso reale delle cose, capace, cioè, di assicurare la continuità metafisica tra l’ordo rerum, di per sé del tutto potenziale ma non ancora attuale, e l’ordo rerum, di per sé del tutto attuale. Proprio l’azione di siffatta ragion sufficiente rende così conto dello scarto metafisico tra quel che rimane solo possibile e quel che, al contrario, è divenuto reale, ossia attuale, cioè esistentivo. La presenza di una tale ragion d’essere, infatti, rende conto del perché le cose siano come sono, e non altrimenti. 


Stabilito questo, la domanda fondamentale vien da sé: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Non una domanda banale, non una domanda facile, non una domanda scontata. Se quel che esiste esiste proprio perché v’è una ragion sufficiente, qual è tale ragione? Non appena il discorso da preliminare entra nel merito, e le questioni si approfondiscono, cominciano i problemi teorici. Questo e non quello, la realtà attuale e non un’altra realtà, qualunque essa sia, l’ordine presente e non un altro, la realtà e non la possibilità, come mai? Sì, v’è una raison suffissante che rende conto di ciò, ma più precisamente qual è? Al riguardo, ritengo sia possibile osservare una curiosa torsione speculativa in Leibniz il quale dal discorso metafisico passa agevolmente a quello ontologico, spostando il centro focale dal principio di ragion sufficiente ai suoi prodotti ontici. Pertanto, gli sembra lecito porre una domanda così particolare, relativa allo scarto ontico tra qualcosa e nulla. Ora, se la domanda fondamentale è di per sé consequenziale allo stabilimento del principio generale, secondo il quale nihil sine ratione, come mai esiste qualcosa piuttosto che nulla? Prima facie, suggerisce il Nostro, il nulla sarebbe più semplice del qualcosa, e, quindi, anche più possibile, ma così non accade, così non viene disposto dal principio stesso, così è stato decretato ove si vuole ciò che si puote. Esiste qualcosa, non nulla. Anzi, mentre qualcosa può esistere, nulla non può esistere. Il divieto ontico di traduzione attualista di una possibilità è attuale nel caso del nulla, mentre non esercita il proprio dominio nel caso di qualcosa. Di conseguenza, mentre qualcosa è, nulla non è. Ebbene, ci chiediamo con Leibniz: come mai accade proprio ciò, e non altrimenti? Perché esiste qualcosa, et non pas autrement? Benché apparentemente più semplice, nulla continua a non esistere, all’esatto contrario di qualcosa. Come mai? 

Tuttavia, a scanso di facili equivoci, bisogna chiarire il lessico di Leibniz. Il paragone di semplicità tra qualcosa e nulla non è indicativo della maggior o minore probabilità di esistere dell’uno o dell’altro, ma è correlativo della differenza metafisica tra le monadi. Infatti, le monadi sono semplici, vale a dire unità indisgiungibili. Quindi, nonostante che il nulla, ossia qualcosa che non è, sia più semplice, più vicina alla dimensione delle monadi, non garantisce sulla sua esistenza attuale. In altri termini, Leibniz attinge al discorso metafisico occidentale per proiettare lo stesso nella modernità, intendendolo, però, non sul versante dell’opposizione ontica tra essere  e nulla, ma su quello della molteplicità in luogo della semplicità. Detto altrimenti, il Nostro non prende posizione pro o contro Parmenide, vale a dire a favore o contro l’Essere e il Non-essere assoluti. Al contrario, Leibniz enuncia una domanda che è fondamentale rispetto al molteplice. Detto altrimenti, il Nostro formula una domanda che chiede conto di come mai dall’unità derivi la molteplicità, come mai dalla semplicità derivi tutto il resto, anche l’esatto opposto, il preciso contrario, vale a dire la complessità. Infatti, posta la domanda in questione, bisogna che sia possibile rendere ragione pourqui elles doivent exister ainsi, et non autrement[4]. Per Mugnai, osta far osservare come Leibniz consideri il possibile nei termini di un’assenza di contraddizione mentre il necessario «è ciò il cui opposto è impossibile»[5].


E tuttavia non si può non tener conto di una profonda suggestione teoretica che proprio il passo in questione suscita e che rimanda ad uno dei topoi principali della filosofia occidentale, vale a dire alla sistemazione metafisica della cultura occidentale operata dalla scuola eleatica. Infatti, il problema dello spiegare come mai dall’unità discenda la pluralità è la sfida fondamentale per la filosofia occidentale, la quale, per parte sua, ha risolto, o preteso di risolvere, in vario modo l’ardua faccenda, e che ha attanagliato la riflessione di alcuni autori in modo particolare. Il mio pensiero va a Parmenide e alla sua svolta ontologica consistente, in estrema sintesi, nello stabilire, una volta per tutte, la maniera corretta attraverso la quale si possa dire e pensare, una doppia svolta nel senso che è tanto ontologica quanto logica[6]


Da questo punto di vista, dunque, non può certo stupire la reazione di tanti autori contemporanei i quali, mossi dal medesimo spinto di contraddizione scorto da Severino[7], negano precisamente questo aspetto della riflessione parmenidea, polemizzano proprio con questa doppia movenza, appuntano i propri strali all’indirizzo della teorizzazione eleatica intorno all’essere, segnatamente l’essere assoluto di cui non parla il Nostro. 

Tuttavia, nello stesso tempo, ritengo sia corretto accostare proprio la presente domanda fondamentale, perlomeno nella precisa sfumatura semantica qui messa in luce, alla svolta compiuta da Parmenide. Infatti, se il problema è esattamente quello di rendere conto del passaggio impossibile dall’unità alla molteplicità, diviene plausibile quel che Cassin scrive in merito a Parmenide, sia pure attraverso il filtro critico di Gorgia, «è il movimento di differenziazione tra «non è» e «è», il quale suppone che si possa come minimo dire «non è» per distinguerlo, è l’atto stesso della krisis, a produrre la loro indistinzione»[8]. Il che significa, detto altrimenti, che «tutto quello che è, è sul modello del non-essere. Il quale comincia ad essere semplicemente perché lo si enuncia […] l’essere parmenideo non è altro che un effetto di qualcosa che viene detto, ma questo perché non esiste altro essere che non sia quello che è prodotto dal dire»[9]. In tale lettura, dunque, la metafisica parmenidea diviene logologia, vale a dire un particolare tipo di discorso il quale costituisce l’essere, la fa essere, lo trasforma da non – essere in essere. Come a dire che l’essere non è, ma lo diviene solamente se oggetto del discorso, del linguaggio, del dire che nomina le cose, facendole esistere. Per Cassin, allora, ma non esclusivamente per essa, l’ontologia è una finzione la quale, più correttamente, è una logologia, vale a dire un discorso che produce l’essere[10].


Ma torniamo ora a Leibniz. La domanda fondamentale, proprio in quanto tale, esplica la medesima funzione logologica? È il chiedere conto a produrre la medesima realtà chiamata in causa? Ecco il problema: la domanda è davvero fondamentale oppure è solamente il gioco dialettico che costruisce l’artefatto altrimenti nominato come principio di ragion sufficiente


Perché esiste un qualcosa, e non un niente? In altri termini, la questione presente consiste nel chiedere conto di quel che fa esistere qualcosa, e che assume rilevanza teorica nel momento in cui si pone a comparazione quel che è, ossia il qualcosa che esiste, con quel che pur potendo essere non è, ossia il qualcosa che non esiste, appunto il niente, o nulla. E com’è possibile che il medesimo principio qui appellato garantisca del passaggio continuo dal non-essere, vale a dire il nulla, all’essere, vale a dire al qualcosa? O, viceversa, medesima la dinamica costante dal qualcosa, vale a dire l’essere, al nulla, vale a dire il non-essere? La legge segreta dell’universo, vero e proprio tormento per gli ingegni filosofici d’occidente, persevera nel suo intimo a reggere le sorti contingenti del travaso di qualcosa nel niente, così come, in parallelo, di niente in qualcosa. E alla medesima legge intende presumibilmente rivolgersi Leibniz, nel suo chiedere conto del come mai essere e nulla, qualcosa e niente, unità e complessità, semplicità e pluralità possano dialogare tra loro e reggersi in mutui rapporti di derivazione.


Tuttavia, è solo per il tramite del linguaggio che le cose, così come i principi, sia pure con estrema difficoltà, possono venir pensati e descritti, anche a costo del fraintendimento, anche a costo dell’equivoco, anche a rischio della chiacchiera. Leibniz non si sottrae a tale pericolo, lo affronta di petto, cerca di portare dalla sua parte la vittoria ma, alla fine, credo si possa asserire, si invischia nella circolarità di una domanda che è fondamentale solo in quanto assume il fondamento come suo orizzonte conglobante.

(continuerà ... forse!)




[1] Cfr. G. W. Leibniz, I Principi razionali della natura e della Grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ibidem.
[4] Supra.
[5] Cfr, m. mugnaiPossibile/necessario, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 116.
[6] Cfr. A. Pizzo, Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è», “Dialegesthai”, XIV, 2012, ISSN: 1128-5478, contenuto on – line: http://mondodomani.org/dialegesthai/ap20.htm.
[7] Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano, Adelphi, 20052, p. 27: « L'essere [...] non è la totalità che è vuota delle determinazioni del molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze, l'area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui si possa dire che non è un nulla. L'essere è l'intero del positivo».
[8] Cfr. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002, pp. 35 – 6.
[9] Ivi, p. 39.
[10] Ivi, p. 57: «Onto-logia: il discorso commemora l’essere, ha per compimento quello di dirlo. Logologia: il discorso fa essere, l’essere è un effetto del dire. In un caso, l’esterno si impone, e impone che lo si dica; nell’altro, il discorso produce l’esterno».

sabato 6 dicembre 2014

Frammenti di considerazione sulla natura tautologica della ratio anselmi

(frammenti di una riflessione in progress)


(url immagine: http://api.ning.com/files/uiOgHOR8758iKiWs2dlYnIkaArjDXOgIot-8T88hggUu3EjvXe9Dy28bbjAbUXNyNq4xFB9JJB6y0p1nLM1g299GIHHbdbk-/SantoAnselmodeCantuariaCambridge.jpg)


Per Fabro, il ragionamento di Anselmo è semplice e consta di tre parti: 

1) considerare Dio l’essere perfettissimo; 
2) considerare l’esistenza una perfezione; 
3) considerare che tutti, insipiens compreso, comprendono Dio come l’essere pervertissimo[1]

Di conseguenza, proprio per via della definizione iniziale, non si può che concludere che Dio esista, altrimenti verrebbe meno la condizione secondo la quale Dio è un essere perfettissimo. Infatti, se non possedesse anche l’esistenza, come potrebbe possedere tutte le perfezioni possibili? 

Per negare che Dio sia l’essere perfettissimo si deve quantomeno possedere il concetto di Ente massimo (proprio perché perfettissimo). Ma l’Ente massimo non può esistere solamente nelle teste di chi lo pensa, e correttamente, lo intende, in quanto Ente dotato di tutte le perfezioni possibili, ma deve «esistere anche nella realtà»[2]. Anselmo ha così inventato l’argomento ontologico, una particolare strutturazione argomentativa in forza della quale si passa dal pensiero all’essere.

E l'insipiens? Tutto qua il suo ruolo? Tutt'altro!

Secondo Sciuto, lo stolto è colui che «non comprende ciò che dice»[3] e, facendo ciò, separa «parole e pensiero»[4]. Viceversa, anche lui concorderebbe con Anselmo nell’asserire la massima tautologia possibile, e cioè che Dio è l’essere al massimo grado di perfezione. 

Va da sé, ovviamente, il passaggio seguente, e cioè che, proprio perché perfettissimo, non può che esistere. Distinguere tra intellectum e res significa contraddirsi, significa pensare una cosa e crederne un’altra, significa intendere la nozione di Dio, come essere perfettissimo, e non intenderla, ossia comprendere Dio come non perfettissimo, significa cadere velocemente in un comportamento vizioso, credere in una cosa e agire in difformità da quest’ultima. 


Una volta che sia mostrata la vanità della contraddizione dello stolto, la sua negazione di Dio viene meno, decade spontaneamente. In altri termini, penso sia legittimo concordare con Brocchiero e Parodi quando sostengono che Anselmo mostri con estrema chiarezza la contraddizione cui va incontro l’insipiens «nel momento in cui nega il passaggio dall’esistenza mentale a quella extramentale»[4]

Piuttosto, e volendo concedere il massimo, lo stolto potrebbe dire solamente Deus non est, non anche pensarlo[5]. Così, lo sciocco afferma che Dio non esiste. Ma per farlo, deve contraddire la nozione stessa di Dio, l’essere perfettissimo. Tuttavia, non può tanto. Dunque, si auto-confuta dal momento che cade da solo in contraddizione, ovvero considerare Dio ad un tempo l’essere perfettissimo e l’essere non perfettissimo. 


Contraddicendosi, le sue parole non contano nulla. Seguendo le esatte movenze della dimostrazione elenctica del principio di non contraddizione, Anselmo fa ricadere sullo stolto l’onere della prova, dimostrando, dunque,sì che Dio esiste, ma senza farlo direttamente. Infatti, se lo stolto che nega Dio si contraddice, allora sarà vera la proposizione opposta, ossia che Dio esiste. È contraddittoria, dunque, qualunque proposizione che nega l’esistenza di Dio[6]


E questo è quello che fa Anselmo nel gioco dialettico con l’insipiens[7]. Se assumiamo ex absurdo che Dio non esiste, a quali conseguenze giungiamo? Perveniamo ad «una conclusione impossibile»[8]. Di conseguenza, non può essere vera la posizione ateistica. 


Pertanto, sarà vera la posizione teista. 


Ma questa è vera non solo perché è falsa la posizione opposta, ma anche perché riposa su un’evidenza difficilmente negabile, e cioè che Dio, per essere l’essere perfettissimo, deve esserlo tanto in intellectu quanto in re. Il carattere assolutamente evidente della prova anselmiana deriva dalla sua natura tautologica: non una mera ovvietà, ma una verità priva di condizioni di verificazione!



[1] Cfr. cfabroL’uomo e il rischio di Dio, Editrice Studium, Roma, 1967, p. 276.
[2] Cfr. eseverinoLa filosofia dai greci ai nostri tempi. La filosofia antica e medievale, Rizzoli, Milano, 20064, p. 283.
[3] Cfr. i. sciuto, Introduzione, a: Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996, p. 34.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. m. f. b. brocchierom. parodi, Storia della filosofia medievale, Laterza, Roma – Bari, 20055, p. 150.
[6] Cfr. a. pizzo, Argomento ontologico. Una storia convergente per una lettura divergente, Aracne, Roma, 2009, p. 26.
[7] Cfr. r. g. timossi, Dio e la scienza moderna. Il dilemma della prima mossa, Mondadori, Milano, 1999, p. 301.
[8] Cfr. a. pizzo, op. cit., p. 27.
[9] Cfr. E. bencivengaLa dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede, Mondadori, Milano, 2009, p. 20.



sabato 27 settembre 2014

De Misteribus



Cosa ha detto il sindaco di Napoli? Ascoltiamolo ...

«Non mi lascio trascinare da chi oggi vorrebbe da me un attacco alla magistratura - precisa - Vengo da quattro generazioni di magistrati, sono magistrato e penso che in magistratura ci siano diversi magistrati collusi e corrotti, che non applicano la legge secondo rispetto della Costituzione»


Bene, e quindi?

«La magistratura va rispettata, ma non è che quando sbaglia può determinare le sorti della democrazia - prosegue - e deve avere il coraggio di guardare al proprio interno quando accadono cose strane, torbide, inaccettabili e invito chi ha il dovere di farlo, e cioè l'autorità giudiziaria, a verificare nella sua autonomia se in quel processo è filato tutto liscio, se non ci sia stato qualche comportamento anomalo di qualche pezzo appartenente alle forze dell'ordine»

D'accordo, ma intanto c'è una sentenza, caro sindaco, ora che vuol fare? Aprire un contenzioso?

«Non mi dimetto, lo facciano piuttosto quei giudici»


Parole forti, forti, forti, di uomini che, assaporato il piacere del potere, non vogliono più distaccarsene? Questo è un mistero, ma resta la seguente considerazione amara: può la giustizia divenire ingiusta nel momento in cui va contro i nostri interessi personali? Insomma, personalmente, non ci vedo nulla di male se ex legge Severino scattasse una sospensione temporanea dalle funzioni di sindaco per De Magistris, un uomo comunque condannato per abuso d'ufficio da un Tribunale della Repubblica. 

Come dico da sempre, l'uomo De Magistris non anteponga la sua carica pubblica alle sue responsabilità personali perché ne va del bene di tutti, e non solamente del suo ...


(url immagine: http://www.paralleloquarantuno.it/media/upload/2014/05/ASTENSIONEFOTO.jpg)


giovedì 6 marzo 2014

La nascita della filosofia occidentale


La nascita della filosofia, secondo Severino.





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mercoledì 26 febbraio 2014

Pamenide, venerando e travisato!

La celebre "interpretazione" di Severino sulla filosofia di Parmenide.




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lunedì 20 gennaio 2014

Anteprima

(anteprima tratta da: A. Pizzo, Parva Logicalia. Volume I. Didattica, logica e filosofia, Roma, ISBN: 9788891067074, pp. 95 - 113)





Di', se riesci.
Il dilemma della “prima mossa” nell'elenchòs aristotelico

Il ruolo “positivo” della contraddizione, e del suo corrispettivo divieto, nella costruzione di una teoria filosofica è difficilmente sottostimabile, benché si registri oggi una tendenza piuttosto consolidata a rivalutarne il ruolo “negativo”. Infatti, è solo grazie al suo divieto che diventa possibile edificare un'architettonica del “vero”, del “credibile”, del “sensato”, e così via. Sostanzialmente, per ruolo “positivo” s'intende l'esclusione della con­traddizione, e, di conseguenza, anche dell'incoerenza, dalla teoria. Di con­verso, diventa così anche comprensibile cosa s'intenda con ruolo “negati­vo”, valutazione che incontra certamente i gusti, la sensibilità e i desideri di una certa tendenza in filosofia. Personalmente, però, m'interessa esclu­sivamente il ruolo “positivo” della contraddizione, e segnatamente il suo divieto, per la natura fondamentale che vi ravvedo nella costruzione di un pensieri coerente, il che equivale a dire sensato, razionale, coerente[1].

In effetti, un pensiero è coerente se funzione secondo le coordinate es­senziali definite, rispettivamente, dal principio di non contraddizione e del principio del terzo escluso. Nella presente ricognizione parleremo sol­tanto del primo. Concludendo questa riflessione inaugurale, ripetiamo con Da Costa che le formulazioni di questi due principi sono le seguenti:

  1. Principio di non contraddizione: fra due proposizioni contradditto­rie A e non A, una è falsa.
  2. Principio del terzo escluso: fra due proposizioni contraddittorie A e non A, una è vera[2]
Il principio di non contraddizione, allora, consente di distinguere tra proposizioni vere e proposizioni false, esattamente come consente di av­vertire la presenza di errori, magari non del tutto riconosciuti come tali. Ma dove viene formulato il principio di non contraddizione? Dove trova piena espressione il divieto di contraddizione, ruolo “positivo” svolto da quest'ultimo?


Il topos classico, per quanto concerne il principio di (non) contraddi­zione (PDNC) è certamente Metafisica IV ove Aristotele cerca di dimo­strare la natura fondamentale dello stesso, evitando nel contempo di cade­re in una facile petitio principii, data la sua strutturazione esigenziale.


Possiamo leggere, nella traduzione del Reale, come

Ci sono alcuni […] i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare […] Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i princi­pi. Ora alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infi­nito, e in questo modo, per conseguenza non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, essi non po­trebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione[3]

Solo chi ignora il (PDNC) potrebbe, a detta dello stagirita, desiderarne anche una dimostrazione. Questo, però, è impossibile dato che esso è il principio alla base di tutto. 


Anzi, Aristotele sembra anche dire che è pro­prio grazie all'esistenza del (PDNC) che è possibile fornire dimostrazione di altri principi. Di conseguenza, il (PDNC) regge l'intero edificio specu­lativo, assicurando sensatezza, coerenza, credibilità, verità alle proposi­zioni di quest'ultimo. La stessa metafisica, in quando scienza che mira a studiare l'essere in quanto essere, si fonda sul (PDNC), a sua volta, per­tanto, garanzia di dimostrazione. 


Pertanto, come può il (PDNC) esaudire i desideri degli ignoranti i quali, non convinti della bontà dello stesso, chie­dono una sua dimostrazione? Simpliciter, il (PDNC) non può dimostrare il (PDNC): un procedere in questo modo sarebbe vizioso, circolare. Se il (PDNC) cercasse di dimostrare sé stesso avremmo la situazione parados­sale, quanto innaturale, seguente: lo strumento della dimostrazione che desidera dimostrare sé stesso. Come può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Come può lo strumento farsi a sua volta fine? E come può darsi, in ultima istanza, questo fine se si dovesse realizzare la condizione se­guente: uno strumento che si fa strumento di sé? 


Per questo motivo, solo per ignoranza, dià apaideusían, si può volere una dimostrazione del (PDNC), chiederne una prova: è solo in virtù del (PDNC) che è possibile dare dimostrazione. Come chiedere dimostrazione dell'organo di ogni di­mostrazione? Semplicemente, non è possibile, è insensato farlo.



In precedenza, sempre Aristotele aveva sottolineato la natura essenzia­le del (PDNC) per una scienza dell'essere in quanto essere, episthéme tis hé theoreî tò òn hê òn[4], e, per lo stesso motivo, i medievali hanno conia­to la famosa espressione firmissimum principium, ossia il principio più saldo (di tutti), peraltro traduzione latina dell'espressione aristotelica be­baiotáte archè, principio saldissimo[5].


(continua)

Note
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[1] Cfr. F. Berto, Teorie dell’assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione, Carocci, Roma, 2009, p. 37: «le sfide più cogenti al (PNC) nel pensiero contemporaneo vengono dai paradossi logici». In questa sede, non ci occuperemo dei paradossi ma è rilevante osservare come l'attuale messa in que­stione del principio di non contraddizione si leghi ad un discreto gusto per il paradosso, non visto più come una minaccia per la coerenza di sistemi teorici, ma come una conseguenza inevitabile della fragi­lità umana. Si tratta, invariabilmente, di un gusto consono ai molteplici e vari atteggiamenti postmoder­ni. Peraltro, comunque, il fascino stesso dei paradossi nasce dalla constatazione di trovarsi di fronte una contraddizione la quale, per svariati motivi, risulta inemendabile. Cfr. F. D’Agostini, Paradossi, Ca­rocci, Roma, 2009, p. 21: «è abbastanza intuitiva l’idea che l’aspetto interessante e caratteristico dei pa­radossi sia il fatto imbarazzante (e sorprendente) di una contraddizione che per qualche ragione risulta ineliminabile».
[2] Cfr. n. c. a. da costa, Prefazione, a: n. grana, Contraddizione e incompletezza, Liguori, Napoli, 1990, p. 9.
[3] Cfr. aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 145 (1005b 35 – 1006a 1 – 10).
[4] Ivi, p. 131 (1003a 20).

[5] Ivi, p. 143 (1005b 15).

domenica 5 gennaio 2014

Qualcosa di determinato ...



"Il passo immediatamente seguente (21 – 31) incomincia a sua volta con un gár («infatti»), e ciò significa che tale passo indica determinatamente il fondamento dell'affermazione che il principio che è stato qualificato come il più saldo di tutti possiede il diorismós consistente nella necessità che intorno a tale principio l'uo­mo si trovi sempre nella verità, si trovi sempre all'interno di tale principio – cioè possiede il diorismós consistente nell'impossibilità che la conoscenza umana sia mai un contraddirsi"

(E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005, p. 25)

martedì 3 settembre 2013

Diorismós ...

"per essere il più saldo di tutti, tale principio deve avere una certa «proprietà» che mostra in che consista la saldezza del principio. Diorismós è la parola che Aristotele introduce per indicare questa «proprietà» - «caratteristica», o «determinazione» - essenziale (1005b 23) […] «l'impossibilità di trovarsi in errore rispetto alla bebaiotáte arché pasȱn» […] e cioè […] «la necessità che sia sempre compiuto l'opposto dell'errare, cioè l'essere nella verità […] rispetto a tale principio"

(Cfr. e. severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005, pp. 23 – 24)


Diorismós o non Diorismós


Questo pare essere il problema fondamentale della dimostrazione aristotelica del principio più saldo di tutti, il bebaiotáte arché pasȱn, vale a dire la sicurezza di non potersi trovare in errore, ossia di trovarsi al di qua della falsità.



Ma il principio di non contraddizione garatisce proprio ciò? O è, piuttosto, una garanzia attiva nel senso di costringere il locutore razionale ad impegnarsi ad evitare la falsità?



Questo Aristotele non lo dice, e non poteva certo dirlo dal momento che l'ostacolo principale alla dimostrazione del principio di non contraddizione è proprio il rischio della circolarità: adoperare per dimostrare il principio di non contraddizione proprio l'oggetto della dimostrazione, ossia il principio medesimo ...




Ma se così è, sinceramente non riesco a comprendere per quale motivo Aristotele senta il bisogno di dimostrare il fondamento del pensiero stesso, il limite invalicabile di qualsiasi dimostrazione.



E penso anche che ciò sia stato così per motivazioni storiche che inevitabilmente ci sfuggono e continueranno a sfuggirci in futuro.