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mercoledì 25 febbraio 2015

Chi vuole il docente di sostegno? Parte seconda!

(continua da qui)



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Peraltro, salta agli occhi la sfasatura tra l’intento, di per sé lodevole, di innalzare il livello della qualità dell’inclusione scolastica, con quanto previsto all’art. 4 ove si prescrive un numero abnorme di formazione universitaria sulla didattica inclusiva. Così, siamo al solito equivoco: aumentare le conoscenze non significa migliorare le competenze del singolo docente. Per di più, creare la domanda di formazione, sebbene indotta per via normativa, ha l’effetto di aumentare il costo della stessa formazione. Chi se lo sobbarcherà? Il docente! 

Peraltro, il relatore conclude la presentazione dell’articolo in questione scrivendo “I nuovi ruoli di sostegno assicurano una scelta professionale univoca inquadrando tali docenti in appositi ruoli, dai quali non si può uscire, non più con la normale mobilità come oggi avviene, ma solo con il passaggio di ruolo”. Appare difficile comprendere il senso di questa limitazione. Appare una gabbia imposta per amore di attivazione nei confronti dei docenti di sostegno, presenti e futuri, piuttosto che uno strumento per innalzare la qualità dell’inclusione scolastica. Sembra voler dire il relatore, e in ciò sicuramente sostenuto da pareri distorcenti di associazioni e di genitori, ed anche di qualche accademico lontano dalla concreta realtà scolastica, che chi sceglie di lavorare nel sostegno lo fa senza convinzione, senza trasporto, senza vocazione, come tram per passare un giorno alla materia. Di conseguenza, rendendo più difficile questa possibilità, con l’istituzione di un vero e proprio ruolo di sostegno, si eviterebbero i “furbetti”, come ci chiama Faraone, sottosegretario all’Istruzione, coloro cioè che lavorano sul sostegno senza la vocazione di essere docenti di sostegno. A me pare più operante un transfert negativo che altro. In altri termini, attraverso un inasprimento peggiorativo della condizione professionale del docente di sostegno si vuol trasferire metaforicamente su quest’ultimo parte delle sofferenze vissute da genitori e volontari. Aggravare la posizione professionale del docente di sostegno non migliora l’inclusione scolastica né la motivazione o la preparazione di quest’ultimo. Peraltro, appare leggermente incostituzionale modificare lo stato giuridico del docente di sostegno soltanto senza modificare contestualmente quello di tutti gli altri. Perché il docente di sostegno sì? E perché tutti gli altri no? E una volta che la sua mobilità professionale sia resa così impossibile, chi è convinto che migliorerà contestualmente le sue prassi? Ingabbiarlo nel “ruolo”, come erroneamente definito dal relatore, non risponde ad alcuna logica pedagogica o di deontologia professionale, ma solo al desiderio malcelato di “punire” il docente di sostegno, con ogni evidenza reo di non addossarsi parte delle sofferenze di famiglie e associazioni. Francamente, non vi vedo alcun altra ragione. Non è una norma equa. Non è una norma qualificante. Non è una norma premiante l’impegno costante e quotidiano dei docenti di sostegno. Peraltro, a queste condizioni, ma chi si sogna lavorerà sul sostegno con gioia e trasporto?



Anche l’art. 6 risponde al medesimo intento punitivo. Infatti, in nome di una non meglio precisata “continuità”, ma mantra ricorrente nelle cose di sostegno, si istituzionalizza la deriva del sostegno come coppia simbiotica alunno disabile – (suo) docente di sostegno. Infatti, scrive il relatore “permanenza decennale nel posto di sostegno”. Perché? Cosa cambia rispetto al vincolo attuale, di cinque anni? Perché dieci anziché, poniamo, quindici? O venti? O cinquant’anni? Qual è il timore del relatore? E dei familiari? E delle associazioni? Perché legare il docente di sostegno nel ruolo per dieci lunghi infiniti spossanti usuranti anni? In cosa dovrebbe, pertanto, migliorare la qualità delle sue prestazioni? Sembra un ergastolo, una pena subita senza colpe, un’espiazione simbolica per i sensi di colpa e per le sofferenze quotidiane patite da altri. Invece, per i docenti precari sul sostegno scatta l’obbligo una durata dell’incarico di durata superiore all’anno, “a seguito di contrattazione collettiva”. E siccome di contrattazione collettiva non si vede manco l’ombra, dato che ogni anno il Governo reitera il blocco della contrattazione sine die, e il contratto è scaduto nel 2009, per i precari si vede un danno minore rispetto ai colleghi di ruolo. Forse colpevoli di essere di ruolo. Probabilmente colpevoli di essere docenti di sostegno. Sicuramente debitori nei confronti dei genitori stressati dei propri alunni …



La chiosa finale denuncia, a mio onesto modo di vedere, la maniera usuale della parte datoriale di ignorare del tutto l’opinione dei sottoposti, sui quali si glissa, per cercare sponde e consensi presso le “associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari”. Di conseguenza, senza discussione, senza condivisione, senza consultazione, il miglioramento delle prassi di inclusione scolastica viene imposta ex lege dall’alto. Siccome, parte della presente proposta, verrà incorporata nel famigerato decreto scuola di fine Febbraio 2015, e sul quale con ogni probabilità verrà anche posta la questione di fiducia, appare svilente qualsiasi tentativo di migliorare la cultura di sfondo del presente provvedimento. A nessuno importa l’opinione delle parti in causa, il parere di chi in prima persona porta avanti questo lavoro, tutto viene imposto dall’alto senza discussioni, e con il consenso di associazioni, improvvisamente divenute sponsor importanti per interventi legislativi restrittivi, punitivi e peggiorativi. Tanto, chi vuole il docente di sostegno?


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Fornita la cornice, il relatore riassume i contenuti dei singoli articoli. 
Mettiamo da parte, allora la relazione, e leggiamo alcuni degli articoli, a mio avviso, più rilevanti.

L’art. 1 punto b) prescrive “effettiva presa in carico da parte degli insegnanti curriculari degli alunni con disabilità frequentanti le classi loro assegnate”. E questo andrebbe bene. Sono le modalità a suscitare alcune perplessità. Infatti, lo stesso comma aggiunge con “predisposizione, attuazione e alla verifica del piano educativo individualizzato e del piano degli studi personalizzato”. Una beffa burocratica sulla falsa riga di quanto prescritto dalla L. n. 170 del 2010: un PEI e un PSP, valutazioni generose e quel che l’alunno fa, fa.

L’art. 1 punto f) impone alle istituzioni scolastiche di “indicare nel piano dell’offerta formativa criteri e strategie di accoglienza e di realizzazione del diritto allo studio degli alunni con disabilità”. Francamente, mi pare una prescrizione del tutto superflua: si fa già oggi. A cosa serve imporlo? I desideri di chi vengono pertanto soddisfatti? Degli utenti medesimi? Io non credo. E, soprattutto, come migliora la qualità dell’inclusione? Peraltro, è in sede di bilancio sociale che di documentano le prassi realizzate, non nella previsione generale. Come giudichi un’istituzione dalle poche righe che dedica agli alunni disabili? Non puoi. Ma al legislatore questo importa.

L’art. 1 punto h) impone l’istituzione “di appositi ruoli per il sostegno didattico”. L’unica domanda possibile è: perché? Cui prodest? Non al docente di sostegno, incattivito dalla prigionia cui viene costretto per legge. Non all’alunno disabile, sostanzialmente indifferente a che il personale in organico di diritto sia immobilizzato nel ruolo di sostegno. Peraltro, non si comprende perché nel calcolo della prigionia non vengano conteggiati gli anni di pre – ruolo. Questo al legislatore sembra non importare.

L’art. 1 punto l) prevede la “garanzia della somministrazione di farmaci in orario scolastico agli alunni per i quali l’autorità sanitaria ne ha prescritto l’uso”. Divertente. Non possiamo passare farmaci agli alunni normodotati, ma possiamo addirittura somministrarli a quelli disabili? E chi si assume una tale responsabilità? Ci verrà forse imposto un patentino di pronto intervento sanitario? Ma sì, tanto che ci siamo!

L’art. 1 punto m) è, a dir poco, pericoloso. Infatti, prevede l’individuazione di “livelli essenziali delle prestazioni scolastiche, sanitarie e sociali necessarie a realizzare l’inclusione scolastica”. Ovviamente, si tratta di livelli assenti nella presente legge, se ne prevede la loro imposizione. Peraltro, come nel caso del comma precedente, appare ridondante la precisazione di cosa sostanzi l’inclusione scolastica: scuola, sanità e società! E il tutto deve passare per la scuola … insomma, meno che mai il docente di sostegno continuerà ad essere un insegnante. Forse, sarà un infermiere dedito al proprio alunno, un assistente particolare e personale di quest’ultimo, e si interesserà del catetere da sostituire, del farmaco da somministrare, delle aspettative lavorative, della burocrazia sociale, e così via! Pertanto, e finalmente, il docente di sostegno supplirà in ciò alla famiglia la quale, così, potrà per alcune ore non dover pensare a quel figlio/a così gravoso!

L’art. 1 comma 3 sostiene che rientrano “fra i bisogni educativi speciali” le aree della disabilità, dei disturbi evolutivi, dei disturbi specifici dell’apprendimento e dello svantaggio socio-economico, linguistico e culturale. Alè! Il sostegno scolastico diviene il contenitore di qualsiasi special needs! A ciascuno il suo PEI, a tutti il proprio PSP, normale didattica per ciascuno, e tutti contenti! Abbiamo innalzato la qualità dell’inclusione. Almeno così recita la legge.

L’art. 4 comma 4 recita “Sono istituiti quattro ruoli per il sostegno didattico”, ciascuno per ogni grado scolastico. Il comma 4 “restringe” la mobilità professionale prescrivendo che il passaggio di ruolo di sostegno a quello di scuola dell’infanzia o primaria “può avvenire solo secondo le norme che disciplinano il passaggio di cattedra”. E questo appare ridondante: è tutt’ora così! Perché il legislatore precisa “solo secondo le norme”? Il comma seguente aggiunge “Il passaggio di cattedra per la scuola secondaria di primo e di secondo grado, fermo restando il possesso dei titoli relativi al percorso di formazione e al tirocinio – formativo attivo, può essere disposto sulla base delle disponibilità dei posti messi a concorso per il passaggio di cattedra”. Quindi, con una restrizione iniziale di disponibilità utili per ottenere il passaggio di cattedra. Resta la perplessità di fondo: un docente immobilizzato come può innalzare la qualità delle sue pratiche professionali? Pensando, magari, che siccome di lì non può muoversi e, quindi, tanto vale dedicarsi al proprio lavoro? Se così fosse, il legislatore, e con esso i familiari e le associazioni, hanno proprio una bassissima considerazione degli insegnanti, prima ancora che di quelli di sostegno! Una concezione, peraltro, che è lontana anni luce da quel che è per davvero tale lavoro! E questo, a ragion veduta, però, poco importa dal momento che si stanno imponendo restrizioni e punizioni sulla base di una visione preconcetta, ed anche un po’ ideologica, a dire il vero, di cosa consista il lavoro di docente, e segnatamente quello di sostegno!

L’art. 6 recita “al fine di garantire la continuità del diritto allo studio degli alunni con disabilità, i docenti specializzati in attività di sostegno con contratto a tempo indeterminato, prima di chiedere il passaggio di cattedra su posto disciplinare, sono tenuti a coprire il posto in organico di sostegno per un periodo non inferiore a dieci anni, assicurando comunque il sostegno agli stessi alunni per la durata di un intero ordine o grado di istruzione”. Ripeto la domanda: perché? Attualmente, il vincolo è quinquennale, come si migliora il diritto allo studio innalzandolo arbitrariamente a dieci? E come mai non vi si conteggia pure il servizio pre – ruolo? Peraltro, è deformante, da un punto di vista professionale, il vincolo posto in essere al singolo alunno disabile per l’intero ordine o grado di istruzione. Siamo docenti o assistenti? E la presa in carico, non era collegiale? Perché, dunque, il docente di sostegno deve essere legato all’alunno disabile? Peraltro, chi lavora a scuola sa benissimo che il rapporto minimo tra docente di sostegno e alunni disabili è mediamente di uno a due/tre, quando non quattro o cinque. Quindi, il docente di sostegno in questione dovrebbe seguire per l’intero ordine o grado di istruzione tutti e due/tre/quattro/cinque alunni? Il legislatore forse è miope o forse ignora come vadano le cose a scuola, ma tale vincolo è del tutto dispregiativo della professionalità del docente di sostegno, abbassato alla stregua di un assistente socio – sanitario e legato a doppio filo ai propri assistiti …

L’art. 10 per prevenire l’ondata di ricorsi giurisdizionali elevati negli anni scorsi da parte delle famiglie, istituisce la procedura della conciliazione obbligatoria prima di adire alle vie legali.

L’art. 16, infine,ribadisce una costante nel processo riformatorio in ambito di politica scolastica, vale a dire il riformare il tutto a saldi invariati. Cioè, a costo zero oppure producendo economie per le finanze pubbliche. In questo caso, si prescrive che dalla presente legge “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ergo, se aumenta la formazione imposta, il suo costo ricade sugli operatori per i quali vige l’obbligo di surplus conoscitivo. Invece, da un punto di vista sistemico, se la coperta corta è la stessa per tutti, tra chi tira di qua e chi tira di là, qualcuno rimarrà scoperto. Chi?




L’impressione finale è dolorosamente negativa. La presente legge farà sì contenti alcuni stakeholders, nell’ignorare i portatori di interesse chiamati in causa direttamente, come i docenti, ma anche il personale ATA e gli stessi dirigenti, ai quali tutto viene imposto ex lege, ma non serve affatto ad innalzare la qualità dell’inclusione scolastica. Peraltro, in aggiunta, suscita dei brividi sinistri l’inserimento di DSA e BES nella gestione della disabilità. Infatti, sembra che il legislatore voglia sostituire il docente di sostegno con la presa in carico collegiale come già avviene per i DSA e i BES. Senza ulteriori oneri finanziari, dunque, significherebbe un passaggio di consegne dal sostegno al PSP, dalla cura particolare alla cura generale, e di facciata, del consiglio di classe. In fondo, la legge n. 170 del 2010 è, a mio onesto modo di vedere, il cavallo di Troia che, forse, fagociterà presto il sostegno scolastico, con il gaudio dei familiari, la soddisfazione delle associazioni, il piacere di colleghi curriculari, dirigenti e personale ATA. 



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La morale conclusiva della disamina della presente legge è: chi vuole il docente di sostegno? Di certo, non io …

lunedì 23 febbraio 2015

Paradossi della valutazione!

"Queste politiche sono in corso ancora a uno stadio sperimentale; cionostante sono state annunciate, e amplificate da una campagna sui media, da retoriche ideologiche di disprezzo e vergogna per gli insegnanti, assimilati in questo ai dipendenti pubblici 'fannulloni', per additare alla pubblica opinione la loro resistenza contro la valutazione. In questo, i dirigenti scolastici sono dall'autonomia ad oggi, paradossalmente, risultati indenni come valutati, ma appena possibile arruolati come valutatori degli insegnanti"

(R. Serpieri, Senza leadership: la costruzione del dirigente scolastico, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 61)

Ed è così.

Purtroppo.

Nessuno può valutare i dirigenti scolastici, ma questi ultimi prontamente sono disponibili a valutare gli insegnanti.

Ecco come va la linea gerarchica a scuola, dai superiori ai sottoposti, i primi delegano e valutano, i secondi subiscono, pagano di tasca propria e sono valutati sulla base delle ore di volontariato che erogano liberamente alla propria sede di servizio.

Ecco, il futuro! Ecco, la buona scuola!



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mercoledì 18 febbraio 2015

Chi vuole il docente di sostegno? Non io ...


In precedenza mi sono dedicato a commentare la proposta di legge, ad opera di FISH e FAND, che, a mio avviso, cancellerebbe di fatto, e paradossalmente, il sostegno scolastico e, con esso, anche di quarant’anni di integrazione scolastica degli alunni disabili.


(url immagine: http://www.mauriziodimatteo.it/foto/fish.gif)



In questa sede, invece, procederò ad analisi della proposta di legge C.2444, attualmente in discussione alla Camera dei Deputati, e presentata in giorno 10.06.2014. Si tratta di una proposta contente “Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali”.


A mio onesto modo di vedere, vi sono all’opera molti slittamenti che prefigurano davvero una pericolosissima deriva delle politiche sull’inclusione scolastica, ivi compreso anche il rischio di una nuova segregazione, diversa da quella passata solamente perché stavolta il trattamento speciale avrebbe luogo nelle scuole normali. Probabilmente, in questi slittamenti giocano un ruolo importante alcuni equivoci e malintesi, veicolati dalla posizione distorcente delle associazioni di categoria e di assistenza alle persone disabili, congiunti a calcoli ragionieristici dei tecnici dei Ministeri coinvolti. Ma andiamo con ordine.


La relazione introduttiva recita “La Legge quadro n.104 del 1992 rappresenta il punto di riferimento fondamentale per la regolamentazione organica del diritto all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità”. E sin qui, nulla da eccepire. È esattamente così. Poi, però, si prosegue: “Tale legge fondamentale è però datata”. Quindi, par di capire, vi sono delle evoluzioni, culturali, sociali, medici, che ne modificano in profondità il quadro di riferimento, vale a dire la disabilità, e tali da richiederne un aggiornamento. Ma quale aggiornamento? E quali sono tali mutamenti? Scorrendo la relazione introduttiva, a parte una superficiale brevissima storia della disciplina e della legislazione scolastica, si indica la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità “che introduce anche in Italia il principio di inclusione scolastico, più ampio di quello di integrazione, poiché si fonda sui diritti umani e sui criteri dell’International Classification of Functioning and Health (ICF) dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)”. Ergo, pare di capire, la nozione di disabilità, espressa nella L. n. 104 del 1992 è sorpassata perché nel frattempo si è passato a parlare di inclusione scolastica, di diritti umani per persone disabili e perché non si usa più il paradigma impairment – disability, alla base del manuale diagnostico DSM, ma il paradigma ICF? A prescindere dalla considerazione banalissima che tale ricostruzione è del tutto vaga, oltre che superficiale, si avverte una sinistra sensazione la quale suggerisce di procedere velocemente oltre perché quanto appena dichiarato è solo una giustificazione posticcia di quel che si desidera realizzare in concreto. Così, si scrive anche che con la legge n. 170 del 2010 sono stati riconosciuti i  “diritti all’inclusione anche di alunni con disturbi specifici di apprendimento (DSA)”. Questo è vero, ma rimango perplesso: cosa c’entrano le learning disabilities con i soggetti individuati dalla legge n. 104 del 1992? Cosa si vuol sostenere davvero dietro l’etichetta simpatica di “inclusione”? E come mai vi si insiste sopra così tanto rispetto a quella, evidentemente concorrente, di “integrazione”? Ancora, la relazione sostiene “principi che sono stati estesi anche agli alunni con altri bisogni educativi speciali (BES)”. Sì, d’accordo, e allora? Improvvisamente, il legislatore si ricorda dei disagi provocati di recente dai tagli al settore istruzione per ravvisare in ciò un peggioramento della qualità dell’inclusione scolastica. Peraltro, si è assistito alla deriva della “delega” dell’intero progetto inclusivo al docente di sostegno, “come alcune ricerche hanno mostrato”. Sarebbe bello sapere di quali ricerche si stia parlando, ma la relazione non lo dice. La presenza di alunni disabili, DSA e BES nella medesima classe comporta “un calo nella qualità del processo di inclusione scolastica” anche per mancanza di un’indicazione chiara dei “livelli essenziali delle prestazioni”. A questo punto, resto confuso: l’ammissione dei DSA e dei BES non era una progressista evoluzione dell’inclusione scolastica? Per quale motivo adesso vengono annoverati come parte del problema? Eppure l’intera proposta di legge si presenta come miglioramento della qualità dell’inclusione anche per loro. 

Tuttavia, trovo pericolosa l’enfasi sul riconoscimento giuridico della loro ammissione a scuola. Non perché non siano soggetti meritevoli, tutt’altro, ma per la natura di cavallo di Troia del loro relativo trattamento scolastico. Infatti, la legge n. 170 del 2010 esclude la possibilità di servirsi di docenti di sostegno, probabilmente per mere ragioni di bilancio pubblico, investendo del loro trattamento l’intero consiglio di classe, chiamato ad elaborare collegialmente un Piano Educativo Individualizzato, in (falsa) analogia con il medesimo progetto predisposto per gli alunni disabili, e tutta una serie di misure facilitanti atti a superare l’ostacolo del disturbo non neurologico al successo formativo. Fatto questo, ne consegue, sulla base della mia seppur misera esperienza, un atteggiamento lassista consistente nel promuovere a tavolino alunni certificati DSA onde evitare rogne. Di conseguenza, l’impressione finale è che gli alunni DSA vengano abbandonati a sé stessi dal consiglio di classe e che il successo formativo non derivi affatto dal successo del Piano redatto o dall’impegno quotidiano dei docenti, ma dal mero timore di avere guai. Negli ultimi anni, d’altra parte, si è registrato un boom di certificazioni, e la ragione è semplice: le famiglie piuttosto che passare per le forche caudine delle certificazioni di invalidità, con in più lo stigma infamante del docente di sostegno per i propri figli, preferiscono di gran lunga aiutare questi ultimi con jolly sugli studi. Senza impegno e senza sforzi, gli alunni DSA arrivano a fine anno … chiediamoci, però: questa è inclusione? No, non credo. Lo stesso accade per i BES: presa in carico collegiale, piano personalizzato, esoneri, regali, etc. Inclusi nella normale didattica? Sì, solo a parole però. Ora, la stessa tecnica si propone di soppiatto anche per gli alunni disabili: troppo a lungo il progetto inclusivo è stato delegato al docente di sostegno, è ora che se ne faccia carico l’intero consiglio. E come? Come è stato fatto con i DSA? E con I BES? Vale a dire progetto collegiale, regali e cosa succede succede? Ah, dimenticavo: senza docente di sostegno. E questo, temo, sia il punto, l’idolo polemico di questa deriva di politica educativa: tagliare gli organici al fine di derivare economie! L’inclusione, da questo punto di vista, è solamente uno strumento, nient’altro! Con buona pace delle associazioni! E degli alunni in questione!



(url imamgine: http://www.iis-calvi.com/portale/images/dsa.png)


La relazione prosegue, dicendo che in Italia la “scelta inclusiva” ha cominciato ad operare “a partire dalla fine degli anni sessanta”. Non mi risulta, ma se lo dice il legislatore … Non sfugga l’auspicio del relatore che la presente proposta di legge venga approvata quanto prima dal momento che contiene “norme che possono essere attuate con invarianza finanziaria”. Cioè, a saldi invariati. Rimane un piccolo problema: se è una riforma “a costo zero”, dovrà pur esserci qualcuno che ci rimette. No? Altrimenti il gioco economico non funziona. Bene, chi sarà a rimetterci? Chi il sacro capro espiatorio che paghi i peccati per tutti? La proposta, si sostiene, “è orientata a migliorare la qualità dell’inclusione scolastica cercando di eliminare le cause negative indicate e individuando soluzioni innovative rispondenti alle mutate disposizioni costituzionali e legislative nonché a una maggiore consapevolezza dell’attuale valore per tutta la scuola della realizzazione della qualità dell’inclusione”. Dunque, l’evoluzione della legge n. 104 del 1992 si rende necessaria per rimuovere le cause negative della bassa qualità dell’inclusione scolastica. Provocatoriamente, verrebbe da indicarne la causa principale, ovvero la figura dell’insegnante di sostegno! Esagero? Proseguiamo e vedremo se è davvero un’esagerazione. Una soluzione consiste nella “presa in carico del progetto inclusivo da parte di tutti i docenti curriculari delle singole classi”. Bene, e allora a cosa servirebbe più il docente di sostegno? Come si giustificherebbe la sopravvivenza del fossile docente di sostegno? Se il “sostegno” passa al consiglio di classe, perché dovrebbe sopravvivere il docente di sostegno? Evidentemente, è lui la causa della bassa qualità dei progetti di inclusione, un soggetto ai margini della vita della classe ed estraneo alle logiche didattiche dei colleghi curriculari. Il biasimo, sebbene non esplicito, appare davvero difficilmente negabile. È lui il responsabile del fallimento della legge n. 104 del 1992! Lui il colpevole della mancata inclusione dei soggetti disabili! E lui deve pagare! Come? Con un tratto di penna che lo elimini dalla pianta degli organici. E con lui, ci risparmio pure, salvando le dichiarazioni di principio e i diritti umani, salvi sulla carta! 


(url immagine: http://www.dipendentistatali.org/wp-content/uploads/2013/03/insegnante-di-sostegno.jpg)


Ma il relatore deve ora compiere il salto e giustificare pedagogicamente il superamento del salvagente – docente di sostegno. Egli comincia a dire che la “definizione di BES comprende, oltre alla categoria della disabilità […] anche quella dei disturbi evolutivi specifici […] e quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico e cultural”. Et voilà, il gioco è fatto! BES è l’etichetta onnicomprensiva che consente di superare le precedenti distinzioni tra disabilità neurologic, disabilità evolutiva e disabilità culturale. È tutto special needs! Basta una presa in carico collegiale, un piano educativo individualizzato, qualche misura compensativa, qualche altra dispensativa, maggiore generosità nella valutazione, e di colpo la qualità dell’inclusione si innalza! A chi serve allora il docente di sostegno? A nessuno! Chi vuole il docente di sostegno? Nessuno!


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Fornita la cornice, il relatore riassume i contenuti dei singoli articoli.

(continua

lunedì 16 febbraio 2015

venerdì 13 febbraio 2015

Che fine farà il sostegno scolastico?



Scorrendo la proposta di legge presentata nella versione di Ottobre 2014 da FISH e FAND, salta agli occhi l’art. 4 il quale, ad un’attenta disamina, sembra prefigurare la nascita di una classe di concorso specifica e dedicata al sostegno scolastico. Condizione per accedervi è, addirittura, la laurea magistrale di pedagogia e didattica speciale. I commi (7) e (8) mirano a imporre restrizioni alla possibilità per i docenti in organico di diritto, vale a dire assunti a tempo indeterminato sui posti disponibili, di “fuggire” dal sostegno verso altri insegnamenti.
Tralasciando le ovvie finalità dei formulatori della presente proposta di legge, si rendono doverose alcune considerazioni, specie da chi si trova già in ruolo e conosce il sostegno scolastico “dall’interno”, vale a dire nel concreto farsi delle cose.

Prima considerazione. Il futuro insegnante di sostegno viene visto non più come un “tuttologo” che cerca di mediare gli apprendimenti curriculari, ma come l’esperto biomedico. Ne consegue, probabilmente, salvo sorprese o modifiche in sede di conversione in legge della stessa, che il docente di sostegno diverrà a breve un mediatore speciale. Una sorta di assistente alla mediazione didattica tra la classe e l’alunno disabile. Se così fosse, non parlerei di progresso del ruolo del sostegno didattico ma di mero scadimento in una sorta di servizio alla persona. Ma se così è, non  appare allora punitivo imporre ex lege il conseguimento di un titolo formativo così “alto” e dispendioso? Vero è che i disabili sono, prima di ogni cosa, persone e, dunque, necessitano di supporti adeguati per superare gli ostacoli socio-culturali che ne impediscano il concreto sviluppo, ma perché il docente di sostegno dovrebbe divenire un simbiotico badante? A quale pedagogia speciale corrisponde tale assunto? Credo, in tutta sincerità, a nessuna. E se così è, a cosa si dovrebbe addebitare tale investimento emotivo da parte delle associazioni dei disabili e dei loro familiari? Ho una risposta anche a tale interrogativo, ma vi arriverò in seguito.



Seconda considerazione. L’art. 5 contempla l’aggiornamento alle tematiche e tecniche del sostegno per il personale curriculare. In modo particolare, il comma (3) impone ai docenti in anno di prova il conseguimento di almeno 30 CFU sull’«inclusione scolastica». Anche qua si evince una tendenza “punitiva”, forse eccessivamente rigorosa sui futuri operatori dell’inclusione scolastica. Il seguente comma (5) estende tale tendenza imponendo a tutti i docenti con alunni disabili nelle loro classi di frequentare almeno un corso annuale “sugli aspetti della didattica dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali non inferiore a 25 ore” tenuti da Università. Problema: chi sarà chiamato a foraggiare tale imposizione ex lege di formazione di livello universitario? La P.A. forse? Non scherziamo. Al massimo, potrebbe darsi il caso che se ne facciano carico singole istituzioni scolastiche particolarmente “illuminate” e “ricche”. Tutte le altre, ovviamente, non potranno. E, dunque, sarà infine il medesimo operatore scolastico, già vessato sotto altri aspetti e per altri capitoli di spesa, a doversi sobbarcare anche questo ulteriore onere formativo. È giusto? Chissà! Il comma (6), poi, impone l’uso ad hoc delle ore funzionali all’insegnamento: “programmazione per una presa in carico collegiale della didattica della classe”. Questo, forse, potrebbe essere utile, ma suscita più di un sospetto l’imposizione autoritaria.



Terza considerazione. L’art. 6 della succitata proposta di legge, “lega” il docente di sostegno, iperformato, plurispecializzato, al proprio alunno, innescando una catena termporale di rinforzo negativo ad un legame simbiotico tra i due: il docente di sostegno c’è perché c’è l’alunno disabile. E, in una sorta di matrimonio infelice, il primo segue il secondo ovunque vada, nella buona come nella cattiva sorte, nella cattiva come nella buona scuola … Ora, beninteso, la continuità didattica è un argomento delicato e ne comprendo le ragioni didattiche. Ma la soluzione mi pare peggiore del male. Infatti, una delle cause peggiori alle disfunzioni dell’attuale regime è dato dall’isolamento disciplinare del docente di sostegno il quale finisce per instaurare con l’alunno disabile una doppia e biunivoca relazione ambivalente. Due termini insolubili, irriducibili al contesto di riferimento, costituenti un negativo rapporto simbiotico. Ora, santificare ex lege tale rapporto, migliora forse l’integrazione scolastica? Ho i miei dubbi, anche molto seri. L’art. 9 è, a mio sommesso parere, interessante dal momento che istituisce l’organico di rete su più scuole.



Considerazione conclusiva. L’art. 16 blocca qualsiasi rischio di aumento della spesa corrente. Quindi, il sostegno scolastico, come tanti altri capitoli della politica scolastica, dovrebbe migliorare a saldi invariati. Ma trattandosi di un provvedimento generale, ne tralascio ogni altra considerazione limitandomi al destino del sostegno scolastico, dal momento che è questo che mi interessa direttamente. Sono, a mio avviso, tre gli elementi portanti della presente proposta di legge: a) l’imposizione normativa severa; b) l’eccesso formativo; c) il peggioramento del ruolo del docente di sostegno. Le tre cose vanno di pari passo e si confermano a vicenda. Il docente di sostegno deve possedere un bagaglio formativo e di nozioni superspecializzato sulla didattica speciale. Ma questo come favorisce la pratica inclusiva? Per di più, l’accento posto sulla mediazione “speciale” suscita più di un sospetto. Infatti, molta importanza viene attribuita alla mediazione didattica la quale, dirigendosi verso utenti “speciali” non può ricalcare le stentate e ripetitive pratiche di mediazione didattica curriculare. Ma, allora, e di conseguenza, cosa verrebbe a fare infine il docente di sostegno? Non più il docente, regista dell'integrazione scolastica, ma una sorta di mediatore, un trasmissore, un canale comunicativo tra la classe (il docente di classe) e l’alunno disabile. Questo è, sotto ogni punto di vista, uno scadimento qualitativo del ruolo del docente di sostegno. Purtroppo, però, tale dequalificazione è inversamente proporzionale al potenziale formativo che viene richiesto: tanto più è la “specialità” di informazioni imposte ex lege, tanto maggiore è il suo basso livello professionale. Registriamo, cioè, un eccesso di specializzazione che, però, non si genera valore aggiunto, ma una riduzione del tipo di prestazioni professionali richieste. L’inflazione formativa, infatti, regge il gioco alla falsa impressione dei proponenti della presente proposta di legge secondo la quale un personale iperspecializzato e pluriformato dovrebbe fornire un servizio decisamente migliore. Ma così non è, non può essere dal momento che la sua funzione scade decisamente al rango di un assistente alla comunicazione, alla pratica didattica ordinaria, ai bisogni speciali del proprio alunno, e non, beninteso, dell’intera classe. Veniamo, così, all’ultimo spunto generato dalla lettura della presente proposta di legge. Il futuro docente di sostegno assume la funzione finale di un erogatore permanente e per l’intero ciclo di istruzione di servizi alla persona disabile … cioè, in breve, il docente di sostegno cessa di essere un docente contitolare della classe ove è iscritto l’alunno disabile per divenire l’assistente personale di quest’ultimo. Ma l’assistenza non comporta nulla in termini di miglioramento del servizio di inclusione scolastica. Forse, migliorerà l’igiene personale o l’autostima dei fruitori finali ma dovremmo chiederci se ne valga la pena. E qui concludiamo le presenti riflessioni. Infatti, la deriva inscenata nella presente proposta di legge non è avulsa dal contesto generale. Cioè, gli utenti come le loro famiglie vivono le medesime tendenze generali degli altri utenti del servizio pubblico di istruzione: le famiglie non vogliono affatto istruzione e docenza, ma sorveglianza ed assistenza. Una sorta di supplenza mattutina del loro ruolo genitoriale per pargoli incapaci di intendere e di volere, ma distruttivi. Allora, se sono le famiglie degli studenti normodotati a chiedere una scuola che assista i propri figli, per quale motivo non dovrebbero chiedere altrettanto le famiglie di figli disabili? Prova generale ne sia la richiesta, a mezza voce, di una progressiva estensione del tempo scuola, nell’arco della giornata e lungo l’anno stesso: non più solo la mattina e non più solo sino ad inizio giugno. La logica è la medesima: sorvegliare, assistere, tenere compagnia ai propri figli perché i genitori non si fidano di lasciarli soli a casa. Non si chiedono né istruzione né formazione, per quelle ci sono internet e i corsi certificati, ma un servizio accettabile, da un punto di vista qualitativo, e non costoso di baby sitteraggio. La stessa dinamica si verifica puntualmente per l’insegnamento di sostegno: non formazione, ma compagnia e soddisfattore di bisogni speciali. 


Così, mi sia permesso il pensiero "ardito", oltre che aulico, muore l’istanza stessa dell’integrazione scolastica, muore il sogno democratico della scuola di Comenio, del “tutto per tutti”, e ci incamminiamo spediti verso la scuola separata e speciale, del “qualcosa ad alcuni”. Tutti contenti, però. E come in tutte le rivoluzioni, ciò accade sotto scroscianti applausi.




mercoledì 11 febbraio 2015

Chi impara?

"L’attenzione alla crescita professionale dell’insegnante, la creazione di ruoli di leadership a livello di curricolo, lo sviluppo del coaching fra pari, l’introduzione di programmi di mentoring, la sperimentazione di forme di «pianificazione collaborativa», nonché lo sviluppo di una gestione e un sistema decisionale che facciano dell’istituto scolastico il loro punto di riferimento, sono tutte testimonianze di come molte scuole e sistemi scolastici cerchino oggi di coinvolgere gli insegnanti nella vita e nelle attività che avvengono al di fuori dell’aula, con lo scopo di far loro assumere maggiori responsabilità in materie di politiche e pratiche che vengono adottate in tale ambito"

(M. Fullan – A. Hargreaves, Cosa vale la pena cambiare nella nostra scuola? Definire  raggiungere significativi obiettivi di miglioramento, Erickson, Trento, 2005, p. 22)

Tutto questo mi sta bene. Mi resta solo una domanda: come mai viene sistematicamente ignorata la contro - parte di qualsiasi servizio di istruzione, ovvero gli alunni? Come mai non se ne tiene conto? E come mai si reputa, a torto, che il docente abbia la soluzione ad ogni problema? L'insegnamento non è mai un flusso unidirezionale, ma sempre una relazione diadica e dinamica. Il docente non insegna se non v'è chi impara!

Ricordiamocene ogni volta che ambigui decisori politici intendano punire i docenti per il semplice fatto che sono docenti o premiarne alcuni sulla base della fortuna toccatagli in sorte di avere alunni motivati, educati e seguiti a casa ...

domenica 8 febbraio 2015

Famiglia disabilitata



(url immagine: http://image.anobii.com/anobi/image_book.php?item_id=01abddb868a7d8b1ee&time=&type=4)

Si fa presto a dire handicap ...

Ed ancor prima a certificare la disabilità delle persone ...

Meno prima si fa ad immaginare le ripercussioni familiari della nascita di una persona disabile. A questa, diciamo, "pecca" fa fronte il recente volume di Chiara Milizia dal titolo Mamma disabilitata. Storia vera di una giovane coppia alla nascita di un figlio autistico.

L'autrice tratteggia in chiave romanzata la personale, e familiare, esperienza di dolore, rabbia, depressione, tristezza, impotenza, rifiuto seguita alla nascita del figlio Cesare. In modo particolare, è apprezzabile la descrizione delle pericolose oscillazioni del rapporto di coppia dall'avvertimento dei primi segnali di "disturbo" sino alla diagnosi ufficiale.

Cosa succede in famiglia quando nasce un componente disabile? La famiglia, con il suo complesso di relazioni personali, non è un monolite immobile, ma un luogo di transito dinamico di rapporti personali. In genere, però, l'equilibrio si spezza, e per sempre, trascinando in una situazione di crisi, di conflittualità, di improvvisi sali-e-scendi, di repentini giri della morte, i suoi attori, i correlativi rapporti interpersonali.

La prima, naturale, reazione è quella del rifiuto, della negazione ostinata del problema in quanto tale. Scrive l'autrice "Handicap, disabilità, parole che le facevano paura, ora erano entrate a pieno titolo nella sua vita. Era la madre di un handicappato, addio feste, viaggi, carriera favolosa". E la perdita della serenità familiare ha ripercussioni anche sulla vita professionale. Come conciliare le ansie personali, anche il senso di colpa che accompagna la quotidianità con un figlio disabile, con l'impegno richiesto dal lavoro? Semplicemente, non si può. E difatti l'autrice subisce destituzioni e trasferimenti d'ufficio nel lavoro. 

Ma sono soprattutto le difficoltà familiari a farla da padrone. Il marito Stefano, il padre di Cesare, medico a sua volta, fatica ancora più della moglie ad accettare il destino esistenziale del figlio, a rassegnarsi alla condizione di "specialità" del figlio, e non solamente per limiti culturali della sua famiglia di origine. L'unica spia di malessere è la fuga: egli fa di tutto per non stare in casa, per non avere a che fare con un figlio così sui generis, per non fare i conti con la "vergogna" in casa sua della disabilità

Tuttavia, è la madre che si fa carico in prima persona delle difficoltà, del riconoscimento sociale della malattia, e che registra le incomprensioni, i rimproveri degli altri, l'ostilità del prossimo, di quanti hanno paura della diversità, dell'ignoranza degli altri ...

Durante un colloquio psicologico, la madre registra le parole del medico: "La disabilità certe volte è più negli occhi di chi la guarda [...] Troverà sempre qualche idiota pronto a sparare a zero".

Ed è così. La disabilità sfida le nostre convinzioni, le nostre radicate credenze, ma, e soprattutto, mette in discussione le nostre apparenti certezze. Questo processo di erosione e di sconquassamento dei pre-esistenti equilibri viene vissuto in prima persona da tutti gli attori della famiglia di riferimento. Se il marito scompare letteralmente dalla scena, salvo presentare sintomi di ansia psicologica, la madre stessa non è da meno. In un primo momento scarica sul marito, e sulla sua famiglia di origine, la causa di tutto, la presenza di qualche tara genetica, di qualche variabilità familiare. Quando, però, diventa evidente che le cose non sono così semplici, e che non v'è alcun colpevole da additare, e sul quale scaricare il proprio risentimento, anche lei cerca di evadere, di fuggire, di sottrarsi all'impegno, alle fatiche, alle frustrazioni che un figlio così impone e comporta, sovente suo malgrado.

Comincia così un tira-e-molla con possibili flirt, con altri uomini, metafore del desiderio inconscio di cambiare vita, di rifarsi l'esistenza, di trovare nuove gratificazioni rispetto ad una routine oramai insoddisfacente. Il problema, però, è che lei stessa non se ne rende conto, vivendo come scissa tra la fedeltà al quadro familiare, punto di riferimento imprescindibile per Cesare, e il bisogno personale di una vita diversa, più felice, più ricca di soddisfazioni.

Tuttavia, decide di chiedere aiuto e viene indirizzata da un consulente familiare al quale espone le sue difficoltà, i suoi timori, le sue ansie, i suoi problemi. E la diagnosi è chiara: "Quando in famiglia c'è un figlio disabile gli equilibri saltano, è difficile che una coppia resista a tutte le tensioni a cui è sottoposta [...] Lei ora vede in quest'uomo nuovo un diversivo e in questo modo non sta facendo altro che spostare il proprio baricentro, ma la sua vita non è con lui, è a casa sua".

Una volta che la realtà le viene sbattuta in faccia, Chiara comprende la radice dei suoi problemi e decide, pur con sofferenza, di affrontarli di petto.

Le viene ancora detto "I figli ci sono dati in prestito, assorbono l'atmosfera di casa, ma maturano per conto loro [...] Suo figlio ha dei limiti, impari a conviverci, a non scambiarli per mancanze sue: dipendono dal so disturbo e non è fuggendo che si sentirà meglio".

Ed è così. Un equilibrio che cambia, l'inizio della crisi, in attesa di un nuovo punto mediano di oscillazione, non è la fine di tutto. Ma un nuovo inizio, anche se più difficile di prima. 

Anche Stefano comincia a prendere coscienza della nuova situazione e, messe da parte le sue resistenze personali, decide di impegnarsi davvero nella nuova dimensione.

A conclusione del volume, l'autrice scrive: "ora si sentiva bene, forse per la prima volta nella sua volta. Aveva affrontato e vinto una battaglia durissima. Certo la guerra non sarebbe mai finita, ma ora sapeva di non essere sola. Aveva superato tutti i suoi limiti, le sue paure e i vincoli che da una vita l'avevano condizionata, ora non era più una mamma disabilitata, era la mamma di Simona e Cesare, e di nuovo la moglie di Stefano".

Una lettura educativa per tutti. Soprattutto per quanti non esperiscono in prima persona la disabilità, propria o di prossimi.

venerdì 6 febbraio 2015

Valutare ...

Cos'è la valutazione scolastica? E cosa c'entrano gli apprendimenti? Nel video che segue alcune informazioni importanti sulla valutazione INVALSI ...


domenica 1 febbraio 2015

Ebook

Ultima produzione di mera gloria: la versione ebook del volume Vie della storia, vie degli uomini. Profili per la Secondaria di Secondo Grado, ISBN: 9788891088994. Buona lettura!