Il dilemma di Jørgensen
Premessa.
Forse per via della suggestione indotta dalla lettura del testo autobiografico della Marzano, Volevo essere una faralla, a causa del quale tornai brevemente sull'argomento, forse a causa dell'interessamento personale, da parte di Antonio Marturano, autore del nuovissimo Il "Dilemma di Jørgensen", sono tornato solo ora a meditare sulla questione.
Certo posso solo rinviare ad un futuro prossimo una trattazione sia pure esaustiva, ma non completa data la sua stessa vastità, del dilemma di Jørgensen. In questa sede, enunzio semplicemente i termini del problema e alcune informazioni sulla storia dell'argomento. Mi riservo di tornarvi sopra in maniera più approfondita e con una rassegna delle principali soluzioni proposte.
Cosa sia il dilemma di Jørgensen.
Si tratta, detto in estrema sintesi, di prendere in seria considerazione la problematicità che sin dai tempi più antichi incontra una considerazione formale delle enunciazioni imperative. Già Aristotele [2003, p. 651], ad esempio, osservava come
l'espressione: ciò
che deve essere, ha infatti un duplice significato. Noi indichiamo
con essa sia ciò che è necessario […] sia quanto è bene
La varietà semantica di espressioni che usino formulazioni normative è problematica perché da un lato si è indotti a considerare queste ultime alla stregua delle enunciazioni indicative ma dall'altro lato, contemporaneamente, ciò appare quanto meno dubbio. Lo stagirita, però, non fa che anticipare una considerazione formale che verrà posta in essere solo dal filosofo neopositivista Jørgen Jørgensen e che successivamente, ad opera di Ross [1982, p. 76], già nel 1941, verrà conosciuta come il dilemma di Jørgensen.
L'epistemologo danese, sul finire degli anni '30, si era posto il problema della significanza delle enunciazioni imperative, specie se poste a confronto con quelle indicative. In altri termini, risulta problematico precisare quale debba essere il trattamento formale con il quale prendere in considerazioni tutte quelle enunciazioni non teoriche, o cognitive, come ad esempio quelle morali o, in un senso certo più astratto, pratiche, le quali, pur non potendo godere del medesimo trattamento logico di cui godono le enunciazioni indicative, denotano una certa logica, ossia il rispetto di un insieme di regole deduttive.
Il problema di Jørgensen, detto altrimenti, è quello di valutare quali possano essere tali regole e se queste ultime abbiano, o meno, un collegamento con le comuni regole della logica. La difficoltà sta nella natura di quest'ultima, la quale si caratterizza principalmente in termini verofunzionali: gli operatori formali funzionano in quanto accettano i valori di vero e/o di falso. E la verofunzionalità, intesa come trasmissione del relativo valore di verità dalle premesse alle conclusioni, diventa garanzia di validità per tutti i ragionamenti deduttivi.
Cosa accade, però, se in suddetti ragionamenti figurano, come premesse e/o conclusioni, enunciazioni imperative? Queste ultime, infatti, sono aleticamente adiafore nel senso che, non descrivendo nulla, non esprimendo cioè una conoscenza intorno alla realtà, non sono né vere né false, ossia non sono verofunzionali.
A rigore, dunque, ci dice Jørgensen (1937 – 8 p. 290), ci troviamo apparentemente di fronte ad un puzzle, un enigma, una difficoltà teorica rilevante: da un lato, la logica trova applicazione esclusivamente presso gli enunciati indicativi, ossia conoscitivi, teorici, cognitivi, descrittivi di stati di cose, mentre gli enunciati imperativi, essendo non indicativi, non conoscitivi, non teorici, non cognitivi, non descrittivi di stati di cose, sembrano essere estranei alla logica; ma, dall'altro lato, gli enunciati imperativi sembrano funzionare secondo una certa logica. Nelle sue parole esatte:
according
to a generally accepted definition of logical inference only
sentences which are capable of being true or false can function as
premises or conclusions in an inference; nevertheless it seems
evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from
two premises one of which or both of which are in the imperative mood
Secondo Conte (2001, p. 641) la proposta di Jørgensen nasce come critica ad una tesi formulata da Jules - Henri Poincaré. Com'è noto, infatti, lo studioso francese pose in essere, sugli inizi del XX secolo, la ben nota distinzione, e separazione, tra scienza, corpus di conoscenze sui fatti, e morale, corpus di massime intorno ai valori. Suddetta distinzione si gioca, però, anche su un altro piano: la prima è una considerazione riguardo a fatti, ossia stati di cose, mentre la seconda è una considerazione riguardo alle valutazioni. I fatti e i valori sono due cose rispettivamente eterogenee il cui dominio di considerazione è certamente distinto. Da qui prende forma il noto dibattito sul Divisionismo tra la scienza e la morale, tra i fatti e i valori, tra la conoscenza e le valutazioni che ha toccato vari settori ed autori della filosofia del secolo scorso, anche se le sue estreme propaggini sono certamente coglibili anche oggi, come lo stesso studio di Marturano (2012) dimostra oltre ogni dubbio.
Tuttavia, quest'ultimo pone in evidenza un elemento in genere trascurato in tutti quegli autori che hanno toccato solo di striscio la formulazione teorica del dilemma di Jørgensen (d'ora innanzi: (DJ)), ossia il nesso che lega tra loro il puzzle del filosofo danese e la ricerca di una logica delle norme, che ha pure attraversato il dibattito analitico del secolo scorso.
Dilemma e logica delle enunciazioni normative.
Il legame che è possibile scorgere tra un trattamento formale adeguato alle enunciazioni imperative e la ricerca di un trattamento formale adatto alle norme è rivelativo delle profonde contaminazioni che hanno caratterizzato le ricerche analitiche in logica, epistemologia, morale e diritto. Si tratta di due facce distinte della stessa medaglia: vedere se, e a quali condizioni, sia possibile estendere il dominio della logica oltre i limiti convenzionali, ossia alle enunciazioni indicative. Come ci ricorda, ad esempio, von Wright (1999, p. 27) ciò lo dobbiamo in parte ai lavori di Mally (1926) e in parte al dibattito conseguente il quale si pone un problema fondamentale
whether
a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the
fact that imperatives – and presumably norms too – lack
truth-value”
Tale
discussione venne, inizialmente, egemonizzata da due danesi
One
was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s
Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous
paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of
current debate
Convenzionalmente, preso atto delle difficoltà logiche di Jørgensen, nell'applicare anche alle enunciazioni non indicative valori di verità verofunzionali, la versione canonica dell'argomento individua due corni del dilemma:
[DJ]
1) è possibile una logica delle norme, a patto che la logica non sia verofunzionale; oppure,
2) non è possibile una logica delle norme, a condizione che la logica sia verofunzionale.
L'alternativa netta di due corni del (DJ) può venir posta nei termini seguenti:
I) è possibile dare luogo ad un trattamento formale adeguato anche per le enunciazioni non indicative, a condizione, però, di estenderne l'ambito di applicazione ben oltre le limitazioni verofunzionali;
II) non è possibile dare luogo ad un trattamento formale adeguato anche per le enunciazioni non indicative, mantenendo ferma la natura convenzionale della logica (valida esclusivamente per le entità verofunzionali).
Nei termini di [Kalinowski 1971 p. 108] l'alternativa è chiara:
o
considerare dette catene di enunciati come ragionamenti, e di
conseguenza modificare la concezione tradizionale della logica
insieme con diverse sue nozioni […], oppure salvare la nozione
vigente di logica negando alle suddette catene di proposizioni il
carattere di ragionamenti
Il (DJ), così inteso, però, combina quattro tesi alternative ai corni (1) e (2):
[DJ2]
a) la logica può anche applicarsi alle enunciazioni non apofantiche, a condizione però di modificarne la natura verofunzionale;
b) la logica non può applicarsi alle enunciazioni non apofantiche, dato che può trovare applicazione solo ad enunciazioni verofunzionali;
c) è possibile una logica delle norme, a seconda che possa trovare adeguata realizzazione la tesi (a);
d) non è possibile una logica delle norme, a seconda che possa trovare adeguata realizzazione la tesi (b).
Com'è evidente, le tesi (c) è collegata alla tesi (a) mentre la tesi (d) alla tesi (b). Rispettivamente, le tesi (a) e (b) danno luogo ai corni (1) e (2) del (DJ), ossia, nella formulazione (DJ2), alle tesi (c) e (d).
Alf Ross coniò nel 1942 proprio l'espressione in questione, “Dilemma di Jørgensen”, esprimendo, nel contempo, tutto il proprio imbarazzo nei confronti di espressioni linguistiche le quali, a rigore, dovrebbero venir espunte dal dominio razionale, via la loro eterogeneità ai valori verofunzionali, ma che pure denotano funzionare secondo una certa logica.
Il dibattito intorno ai corni (1) e (2) incrocia spesso sulla sua strada le ricerche di von Wright, ossia tutti quei tentativi di dare luogo ad una logica deontica, ossia una logica delle enunciazioni normative, da intendersi come tutte quelle enunciazioni del linguaggio umano ove sono presenti i concetti normativi di obbligo, permesso, divieto e facoltà. In questo caso, allora, la logica deontica viene considerata una logica delle norme e tentare di sciogliere il netto contrasto tra i due corni del dilemma equivale a tentare di giustificare la logica deontica, ossia di ostenderne le relative condizioni di possibilità. Nelle parole di Conte [1992, p. 181] l'esistenza della logica deontica mostra che “i confini della logica trascendono l’ambito del vero e del falso” per come, ad esempio, in maniera certo suggestiva ma tutt'ora poco pratica, asseriva anche von Wright [1957, p. vii]:
Deontic
logic gets part of its philosophical significance from the fact that
norms and valuations, trough removed from the realm of truth, yet are
subject to logical law. This shows that logic so to speak, ha a wider
reach than truth
Come
sostiene, infatti, Ross [1978, p. 214]:
Che
la logica deontica sia possibile è oggi generalmente riconosciuto ma
divergono ampiamente le opinioni sull’interpretazione dei suoi
valori e le sue relazioni con la logica degli indicativi
Tale difficoltà, ad esempio, rende conto del parere di Grana [1990, p. 14] secondo il quale la ripresa in tempi recenti del dilemma di Jørgensen risponde all'esigenza di cercare altrove una sua fondazione filosofica, specie da parte di quanti non condividono l'ottimismo di von Wright e che non credono che una tale logica sia possibile.
La ricerca di una logica delle norme prende le mosse dalle difficoltà teoriche sollevate da (DJ). Come ricorda Guastini [1986, pp. 197 – 8]
Vi
è una logica di norme? Da un lato, sembra ovvio che una tale logica
vi sia. Il nostro linguaggio quotidiano ne offre esempi frequenti […]
dall’altro lato, sembra dubbio che una logica di norme vi sia.
Infatti, le norme non sono proposizioni in senso logico, ossia entità
dotate dei valori logici di «vero» e «falso». Quali sono dunque i
valori logici delle norme, posto che le norme abbiano valori logici?
Ciò non è affatto chiaro
Che il funzionamento razionale delle norme diverga da quello comunemente mostrato dalle enunciazioni indicative è presto detto.
La separazione dei fatti dai valori, che tanto ha informato di sé la riflessione giusfilosofica ad esempio, si pone con forza non appena si scorga la netta differenza tra l'etica e la politica. Come ricorda Prior [1949, pp. 36 - 7]: “ Ethics, and also Politics […] are ‘distinguished form all positive sciences by having as their special and primary object to determine what ought to be, and not to ascertain what is, has been, or will be”. Questo perché, per dirla à la Schueler [1995, p. 713]:
A
great deal of the moral philosophy of the last hundred years has been
devoted to trying to understand “the relation between ‘is’ and
‘ought’. On the one side, when we are engaged in genuine moral
reasoning and debite, we seen to take it for granted that various
factual claims support judgments about we ought or ought not to do.
We even seem to regard some such judgments as true (and othres as
false). On the other side, when we reflect on such judgments, it
seems difficult indeed to see how either of these things could be
straightforwardly the case, in view of the very great difference
between factual and evaluative (or normative) judgments
La premessa alla base di qualsiasi declinazione della formazione divisionista è duplice, ossia si fonda su due distinte e complementari tesi [Celano, 1994, p. 43]:
La
posizione divisionista si articola dunque in due tesi complementari:
[1] Affermazioni prescrittive e affermazioni descrittive
(asserzioni) sono, quanto al loro significato eterogenee. [2] Non è
possibile derivare logicamente conclusioni prescrittive da sole
premesse assertive
La difficoltà a costituire un discorso formale adeguato alle enunciazioni pratiche, magari sulla falsa riga di quanto accade invece per le “cugine” enunciazioni indicative, mette capo, forse, alla necessità di una logica pratica, ossia di una considerazione di carattere formale la quale prenda in considerazione le enunciazioni pratiche senza assumere a modello le enunciazioni indicative, concentrandosi esclusivamente sulla natura precipua delle espressioni linguistiche non cognitive. Come asserisce, infatti, Marìn [1991, p. 323] “Jørgensen’s dilemma is unavoidable: The classical concept of deduction, traditionally applied only to sentences susceptible of truth or falsity, must be widened, or else, the possibility of a logic of norms, of directive sentences, must be rejected”.
Con molta probabilità ha ragione Coyle [2002, p. 41] quando “legge” le difficoltà notazionali della logica deontica come il risultato di un basarsi sulle strutture del linguaggio descrittivo.
Tenendo ferma l'adesione iniziale al neopositivismo logico, in fondo, è inevitabile che il Divisionismo produca simili difficoltà. Secondo Villa [2002, p. 388], infatti, “è il linguaggio descrittivo ad essere caratterizzato con maggiore chiarezza e precisione, in positivo, come linguaggio il cui obiettivo ideale è quello di fornire una fedele rappresentazione – di una porzione – della realtà”. D'altra parte, infatti, la logica deontica ha mostrato, sin dagli inizi, una doppia origine: intanto modale, perché derivante dai calcoli modali, in quanto proposizionale, perché derivante da una sorta di “estensione” della logica classica [Lovatti 1997 p. 84].
La lunga sequela di difficoltà formali, culminati in una incredibile serie di formulazioni paradossali, formule tanto sorprendenti quanto indesiderate [Nowell Smith – Lemmon 1960, p. 390], forse perché gli assiomi deontici riflettono solo un senso “specialissimo” delle parole normative che adoperiamo nel linguaggio [Hansson 1969, p. 373], trova la propria origine proprio nella costruzione formale qui in discussione, e come appartenenza al discorso analitico sulla significanza delle enunciazioni non descrittive [Celano 1990 p. 166]. Ha anche generato in passato l'opinione in forza della quale essa, proprio per via delle sue questioni aperte, non potesse svolgere alcun ruolo all'interno della teoria morale, pur influenzandola direttamente [Pizzo 2012 p. 11 e sgg.]. Ciò, però, è un errore in quanto può aiutare a chiarire la natura della contesa tra specifiche teorie morali concorrenti [McCord 1986, p. 179]. D'altra parte, come ricorda Cremaschi [2005, p. 64] nel corso degli anni '40 si svilupparono due diverse tendenze in senso al neopositivismo logico: (1) studio delle possibili conseguenze per l'etica dallo sviluppo della logica; e, (2) riscoperta della critica humiana al passaggio tra «è» e «deve». O, per dirla piuttosto con Rescher [966 p. vi], l'analisi del significato non verofunzionale delle enunciazioni non cognitive.
Dilemma e discorso teorico sulle enunciazioni valutative.
Per Marturano, però, il problema alla base del (DJ) è un'altro: offrire un repertorio teorico in grado di giustificare teoricamente un tipo particolare di inferenze miste, ossia tutte quelle ove gli imperativi figurino in almeno una delle premesse. Cosa questa che, di per sé, costituisce un rovesciamento della tesi di Poincaré secondo la quale gli imperativi non possono essere derivati da premesse nessuna delle quali sia imperativa [Castañeda 1988, p. 20] Seguendo Castañeda è possibile mappare la teoria morale non cognitivista articolandola in tre differenti tesi riguardo alla natura formale dei ragionamenti ove figurino come parti costituenti enunciazioni imperative:
TP) Tesi di Poincaré;
TH) Tesi di Hume;
THA) Tesi di Hare.
In breve,
(a) la (TP) dice che: gli imperativi non possono essere derivati da premesse nessuna delle quali sia imperativa;
(b) la (TH) dice che: i giudizi normativi non sono implicati da premesse nessuna delle quali non sia un giudizio normativo;
la (THa) dice che: nessun indicativo può essere derivato da premesse contenenti imperativi a meno che non possa essere derivato da sole premesse indicative.
Sull’ultima tesi, risultano interessanti le stesse parole di Hare [1968, p. 40]:
La
regola che un imperativo non può figurare nella conclusione di
un’inferenza valida, a meno che non vi sia almeno un imperativo
nelle premesse, può trovare conferma in considerazioni logiche
generali […] nulla può figurare nella conclusione di un’inferenza
deduttiva valida che non sia implicito nella congiunzione delle
premesse i forza del loro significato. Di conseguenza, se nella
conclusione c’è un imperativo, non solo nelle premesse deve
figurare un
qualche
imperativo, ma deve esservi implicito proprio quell’imperativo […]
Il lavoro di Wittgenstein e di altri ha largamente chiarito le
ragioni per cui è impossibile fare questo. È stato argomentato, e
persuasivamente a nostro avviso, che ogni inferenza deduttiva ha
carattere analitico; vale a dire, che la funzione di un’inferenza
deduttiva non è di ricavare dalle premesse ‘qualcosa di ulteriore’
in esse non implicito […], ma di rendere esplicito ciò che era
implicito nella congiunzione delle premesse
In modi diversi, e secondo sensibilità particolari, viene sostenuta la medesima tesi di fondo secondo la quale vige l’eterogeneità di norme (e, valutazioni) e giudizi di fatto. Nelle parole di Celano [1994, p. 43]
La
tesi della eterogeneità di norme e giudizi di valore da un lato e
giudizi di fatto dall’altro lato si configura come la tesi della
eterogeneità di discorso descrittivo e discorso prescrittivo:
l’intenzione comunicativa tipica che presiede alla formulazione di
un’affermazione di fatto è l’intenzione di informare
[….]; l’intenzione comunicativa tipica che presiede alla
formulazione di un’affermazione normativa o valutativa è quella di
guidare
(dirigere,
indirizzare)
l’azione
Questo sembra essere il problema fondamentale per l’etica contemporanea. Nelle parole di Scarpelli [1971, p. viii]
il
problema fondamentale della filosofia morale contemporanea è il
problema della distinzione e dei rapporti tra le proposizioni
descrittive (vertenti su fatti) e le proposizioni direttive
(prescriventi comportamenti, assegnanti valori a comportamenti e
cose): come si dice nella filosofia di lingua inglese, la is-ought
question
Anticipiamo adesso i tre fronti, promettenti sulla scena teoretica, che rispondere positivamente al (DJ) avrebbe per Marturano [2012 p. 146]:
1) non
cognitività degli enunciati normativi;
(2) render conto della
differenza illocutoria tra gli enunciati normativi e descrittivi; e,
(3) rielaborazione del concetto di inferenza e dei connettivi logici.
Per giungere a tali esiti conclusivi, l'autore propende per una riformulazione del (DJ) tenendo conto dei seguenti aspetti del problema:
x) ampliare il concetto
classico di inferenza logica;
xx) costruire una
logica indiretta tra prescrizioni che salvaguardi il concetto
classico di inferenza;
xxx) non si possono fare alcun
tipo di inferenze tra prescrizioni (il discorso normativo è
irrazionale).
Le varie formulazioni che sinora
sono state prospettate del (DJ) si sono concentrate quasi
esclusivamente sull'alternativa netta tra i corni (x) e (xxx) mentre
il corno (xx) è presente solo in Jørgensen [1937 p. 290 e sgg.].
Marturano ([2012 p. 14] propone allora di riformulare il (DJ) nella
maniera seguente:
[DJ3] se gli enunciati
prescrittivi sono privi di valore di verità
c1) il concetto classico di verità
è inadeguato e, perciò, bisogna ridefinire questa nozione in modo
da ampliarla fino a comprendere ragionamenti che possono essere fatti
tra enunciati privi del valore di verità; e,
c2) il concetto classico di
inferenza è l'unico che preserva la nozione di razionalità ragion
per cui il ragionameno tra enunciati prescrittivi, in quanto privi
del valore di verità, è perciò impossibile.
L'alternativa netta tra i corni
(c1) e (c2) riprende ovviamente la distinzione tra i corni (1) e (2).
Il nodo, tuttavia, va ancora sciolto pur rimanendo valida l'istanza teorica alla base del progetto, e scandalo, ed imbarazzo conseguente, di Jørgensen. Su questo torneremo in seguito.
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(immagine tratta da: http://www.denstoredanske.dk/@api/deki/files/14253/=33270299.jpg)