Ancora Branduardi ...
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martedì 30 settembre 2014
lunedì 29 settembre 2014
Il disagio della (sub)cultura pentastellata ...
Facile e sempreverde è il fenomeno delle sotto - culture, oggi tanto brulicanti a causa di una marcato disagio socio-culturale a comprendere e a saper gestire la nostra realtà complessa e pluricentrata.
Comunque, per chi ha occhi per guardare ed orecchie per comprendere, è divertente scoprire in quanti modi diversi sia possibile sprecare la propria intelligenza.
Qui un elenco parziale delle fantascemenze dei pentastellati! Buona lettura e buon divertimento, seppure amaro!
(url immagine: http://www.ideativi.it/public/Blog/tastobufala.png)
domenica 28 settembre 2014
Quando e con quanto andrai in pensione?
Io in pensione non ci andrò (perché le statistiche dicono oggi che domani si sarà attivi anche ad ottant'anni ... non ci credo, ma forse sarà vero).
Invece per i fortunelli che potranno andare in pensione, semplicemente perché più "anziani" di me, con l'applicazione seguente (tratta da: http://miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/pensione?ref=HRF-1) potranno calcolare quando e con quanto saranno collocati a riposo (beati loro!).
Invece per i fortunelli che potranno andare in pensione, semplicemente perché più "anziani" di me, con l'applicazione seguente (tratta da: http://miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/pensione?ref=HRF-1) potranno calcolare quando e con quanto saranno collocati a riposo (beati loro!).
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Che ne sai della tua pensione? >>> |
DATI PERSONALI AD OGGI | |||||
Data di nascita | Sesso | ||||
Anzianità accreditata | CAP | ||||
Reddito annuo netto | E. | Previsione di carriera |
Inquadramento | |
RISULTATI ATTESI (VALORI IN BASE ANNUA) | |
Inserire tutte le informazioni.
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Premesse di Calcolo | |
Per una corretta lettura delle previsioni conviene precisare che:
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Ipotesi di base del calcolo:
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sabato 27 settembre 2014
De Misteribus
Cosa ha detto il sindaco di Napoli? Ascoltiamolo ...
«Non mi lascio trascinare da chi oggi vorrebbe da me un attacco alla magistratura - precisa - Vengo da quattro generazioni di magistrati, sono magistrato e penso che in magistratura ci siano diversi magistrati collusi e corrotti, che non applicano la legge secondo rispetto della Costituzione»
Bene, e quindi?
«La magistratura va rispettata, ma non è che quando sbaglia può determinare le sorti della democrazia - prosegue - e deve avere il coraggio di guardare al proprio interno quando accadono cose strane, torbide, inaccettabili e invito chi ha il dovere di farlo, e cioè l'autorità giudiziaria, a verificare nella sua autonomia se in quel processo è filato tutto liscio, se non ci sia stato qualche comportamento anomalo di qualche pezzo appartenente alle forze dell'ordine»
D'accordo, ma intanto c'è una sentenza, caro sindaco, ora che vuol fare? Aprire un contenzioso?
«Non mi dimetto, lo facciano piuttosto quei giudici»
Parole forti, forti, forti, di uomini che, assaporato il piacere del potere, non vogliono più distaccarsene? Questo è un mistero, ma resta la seguente considerazione amara: può la giustizia divenire ingiusta nel momento in cui va contro i nostri interessi personali? Insomma, personalmente, non ci vedo nulla di male se ex legge Severino scattasse una sospensione temporanea dalle funzioni di sindaco per De Magistris, un uomo comunque condannato per abuso d'ufficio da un Tribunale della Repubblica.
Come dico da sempre, l'uomo De Magistris non anteponga la sua carica pubblica alle sue responsabilità personali perché ne va del bene di tutti, e non solamente del suo ...
(url immagine: http://www.paralleloquarantuno.it/media/upload/2014/05/ASTENSIONEFOTO.jpg)
giovedì 25 settembre 2014
Dove per utopia?
"Non c'è posto per la filosofia accademica, che parla nella più totale libertà, senza tenere conto delle circostanze. Ma ce n'è per una filosofia più civile, che tiene conto del contesto drammatico, al quale cerca di adeguarsi, recitando una parte in carattere con lo spettacolo che si rappresenta"
(T. Moro, Utopia, Newton Compton, Milano, 1994, p. 39)
Filosofia "accademica", astratta e retorica, e filosofia civile, concreta e aderente alla realtà ...
Un motivo "vecchio" che a volte ritorna, come quello di utopia, la mitica isola ove si concreta il sogno platonico della filosofia (civile) al potere!
Ma come il suddetto motivo di attrito tra due concezioni purtroppo contrapposte di filosofia, si tratta più un mito ideale che di un modello politico concretizzabile!
Eppure, è proprio in questa tensione irrisolta, oltre che non scomponibile, che si cela tutto l'estremo fascino di qualsiasi utopia, un non luogo che però mostra in negativo tutto quel che non va nel nostro di tempo e di spazio ...
Per Utopia? Sempre dritto, senza mai fermarsi, senza mai raggiungerla, restano solo infiniti kilometri ancora ...
(url immagine: http://www.orizzonteuniversitario.it/wp-content/uploads/2012/10/Utopia.jpg)
sabato 20 settembre 2014
Articolo 18
(url immagine: http://www.forexinfo.it/IMG/arton21218.jpg)
Tutti contro l'articolo 18!
La colpa della crisi è sua, dicono in molti!
L'economia non si riprende a causa sua, asseriscono quasi tutti!
Ma cosa dice questo benedetto articolo?
Ne riporto il testo completo:
"Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. (2)
Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. (2)
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione. (2)
Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma. (2)
Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo. (2)
Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo. (3)
Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo. (4)
Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti. (29) (4)
Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all'ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all'ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie. (4)
Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo. (4)
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore. (5)"
Bene. Ora desidero sapere in che modo queste tutele blocchino l'economia ...
Ah, dimenticavo, non m'intendo di economia ...
mercoledì 17 settembre 2014
Aldo Moro, una storia italiana
(url immagine: http://giotto.ibs.it/cop/copj170.asp?f=9788831544894)
Normalmente
la vicenda di Moro viene incastonata nella critica al partitismo monocolore
della DC e all’eccesso di strategia letta nei termini una ricerca di
mediazione fine a sé stessa, e non per raggiungere dei risultati veri e propri.
Questo modo di porre le cose in merito alla dolorosa vicenda morotea non rende
giustizia né all’uomo né al politico che si fusero nella persona di Aldo Moro.
In tal senso, apprezzo il volume di Danilo Campanella, Aldo Moro. Politica,
filosofia, pensiero, edito da Paoline, perché consente di collegare
quell’esito, la strategia della mediazione, antecedente e, forse, anche causa,
al suo sequestro, con le sorgenti da cui scaturì la sua stessa mossa politica,
così strettamente “italiana” da venir sostanzialmente rigettata e negata.
Questo perché, sotto ogni punto di vista, la vicenda, prima di tutto umana, di
Aldo Moro è la vicenda stessa della nostra storia, è la medesima cifra di
lagrime e sangue della nostra storia recente. Paradossalmente, infatti, e a
riprova di questa mossa di rifiuto, la medesima strategia del contatto, della
mediazione, della discussione, del dialogo, se si preferisce, è stata rifiutata
pubblicamente negando all’uomo qualsiasi contatto con i rapitori, la strategia
della fermezza in luogo di quella dell’incontro, la rigidità istituzionale a
fronte dell’umana pietà.
Per
comprendere il contributo prezioso di Moro all’intera storia italiana del XX
secolo bisogna conoscerne la biografia, l’intero percorso intellettuale.
A
prima vista, emerge con forza «la sua forte tempra morale» (p. 18), connessa ad
una precisa «concezione etico-politica» (p. 18). Il punto di partenza per il
suo intero itinerario è il superamento dell’organicismo idealistico, con
annessa «contestazione della statolatria e della deificazione dello Stato» (p.
18); in luogo del promemoria fascista, pro patria mori, Moro oppone la
sua concezione politica dello Stato al servizio dell’uomo, e «non l’uomo per lo
Stato» (p. 18).
In lui
è sempre presente, sin dall’età più giovane, la «tendenza all’inclusione» (p.
19), a coinvolgere «tutte le realtà popolari nei processi di democratizzazione
e di sviluppo» (p. 19). Anche alla Costituente, egli intese sempre
avversare ogni atteggiamento strumentale, desiderando piuttosto «favorire
l’emergere di un orientamento aperto al dialogo» (p. 20). Sin da giovanissimo, «dedito
alla cura dei valori spirituali e morali, ai valori assoluti della vita, alla
riflessione sui misteri dell’amore e della morte» (p. 26). Forgiò così il suo
carattere alla «duttilità relazionale, diplomazia nei rapporti interpersonali,
tenacia nei propri intenti e gentilezza» (p. 27).
Prendere
in considerazione la biografia di Moro espungendone, però, la natura di credente,
è un po’ come si fa oggi: si considera il mondo come quel che rimane una volta
che sia stata tolto tutto quel che fa riferimento all’esperienza di fede.
Eppure, è innegabile come sin sotto il fascismo, Moro fu coerente con il suo
stile di vita improntato al rapporto diretto e quotidiano con la trascendenza.
Infatti, desiderò «operare cristianamente per il bene dell’umanità» (p. 29). D’altra
parte, è proprio in contrapposizione con lo stile di vita fascista che ci
concretò il suo muovere i passi nello spazio pubblico. In modo particolare, si
scontrò con «una concezione di Stato totalitaria» (p. 36), negante la libertà
umana intesa nei termini di sviluppo personale delle proprie potenzialità
umane. Decisamente, lo Stato etico gentiliano, la forma par excellence
della concezione fascista di Stato, produceva «disastri antropologici» (p. 37;
dei quali era testimone Moro stesso. Il punto era, quindi, «ricostruire la
coscienza morale degli italiani» (p. 38) attraverso un «approfondimento di
valori etici» (p. 38). Innovativa, in tale contesto e progetto, fu la riscoperta
di Tommaso d’Aquino con la messa al centro della «mediazione come costume
politico e fondamento della cultura riformista» (p. 38) successivo al
disfacimento del fascismo. L’irrompere della pluralità, come cifra costante al
superamento del monolite idealistico, di stampo gentiliano, dà modo a Moro di
valorizzare la nozione di mediazione, che deriva dalla sua cultura
confessionale, come luogo aperto all’incontro e allo sviluppo dei talenti
personali, senza preclusioni e senza divisioni ideologiche. In questo, egli è
decisamente un figlio del suo tempo, ma che, com’è peraltro normale, declina a
modo proprio, e in maniera originale.
Per
Moro, «lo scopo del cristiano non era tanto quello di fare del mondo il regno
di Dio, ma di trasformarlo in un luogo di vita pienamente umana» (p. 40) le cui
coordinate di riferimento sono, in buona sostanza, «la giustizia e la libertà
della persona» (p. 40). Attraverso il personalismo di Maritain, e di
Mounier in modo particolare, la riflessione morotea giunge a concepire l’essere
umano nei termini di una persona, vale a dire un essere «aperto agli
altri, alla scoperta, al prossimo, come anche al trascendente» (p. 45). Di
conseguenza, lo Stato «è da considerarsi un momento unitario di consapevolezza
giuridica dell’azione» (p. 49), un momento che «non assorbe l’intera vita del
cittadino» (p. 49) la quale, al contrario, «si realizza nella società e
soprattutto nella vita privata» (p. 49).
Moro
rifiuta decisamente la concezione contrattualista di Stato, e, quindi, anche di
società, in favore di una prospettiva relazionale secondo la quale la società
«è costituita dall’insieme dei rapporti che le persone stabiliscono fra loro» (p.
50) al fine di «provvedere allo sviluppo della propria personalità mediante una
comunione di vita» (p. 50). Quindi, può ben dirsi come la persona sia «finalità
oggettiva della società civile» (p. 51) e come la società civile preceda la
persona riguardo agli obblighi e prestazioni «richieste dalla società e delle
sue finalità naturali» (p. 51). Pertanto, l’uomo appare parte della società e
ad essa sottomesso «per il raggiungimento del bene comune» (p. 52) e, in quanto
persona, «costituisce il fine stesso della società di cui lo Stato è l’espressione»
(p. 52). Forte di questi convincimenti, oltre che della sua personale
esperienza di fede, Moro entrò anche nel terz’ordine dei domenicani, «assumendo
il nome religioso di fra Gregorio» (p. 53).
Nella
visione filosofico-politica morotea «i cittadini non vanno «accontentati» ma
«guidati», senza tuttavia ingerenze ideologico-politiche o confessionali» (p.
60). Ciò basta da solo a comprendere l’importanza della mediazione nella
visione politica morotea dal momento che «il continuo dialogo tra corpi
intermedi va a sostituire la ricezione dei «desideri» dei cittadini da parte degli
uomini politici attraverso il dialogo» (pp. 60 – 1) con costituzione di un vero
e proprio «sistema ciclico, spiraliforme» (p. 61) in netta contrapposizione con
quello usuale di natura piramidale. Dovendo mettere a frutto i propri doni
e considerando lo spazio pubblico come luogo di profezia, e realizzazione dell’umano,
Moro interpreta il pluralismo dei partiti dell’età repubblicana come positivo
dal momento che essi sono strumenti «e non il fine della politica» (p. 82). Il
pluralismo, dunque, non è il fine della democrazia, ma solamente una condizione
affinché ciascun uomo possa progredire nella sua stessa umanità. E in tale
assetto, a nulla conduce la mancanza di dialogo o di mediazione tra le parti.
Nel corso degli anni sessanta, essendo ben consapevole dello sviluppo coevo
della società di massa e di consumo, come effetto dell’irruente
industrializzazione del Paese, Moro ritenne che bisognasse coltivare l’inclusione
sociale, vale a dire le «condizioni politiche ottimali per coniugare la tutela
dei diritti con il rispetto della legalità» (p. 88).
Democristiano,
Moro tenne una barra politica del tutto peculiare perché a fronte della
corrente dorotea, egli fu un tenace assertore di una forma di umanesimo
popolare da intendersi come una prospettiva politica in forza della quale
la politica viene coniugata «con la libertà creaturale dell’uomo» (p. 99). In
questo senso, e discostandosi dalla linea di Murri, Moro si colloca nel solco
di Rosmini e di Sturzo, posizione che trova consonanze con il pontificato di
Paolo VI, amico di lunga data proprio del Nostro. Quindi, essere democristiano
«non significava affatto aderire a una opzione confessionale o partigiana, ma
vivificare le ragioni di una scelta ideale che arricchisce la democrazia di
valori» (p. 107). Moro rifiutò le facili seduzioni del potere fine a sé stesso,
che pure fu una delle componenti della DC, saldo al convincimento che coltivare
la fede cristiana significasse tutelare il diritto e «lo portava al superamento
di antiche delimitazioni partitiche, come conseguenza dell’universalità del
messaggio cristiano» (p. 107). Da questo punto di vista, dunque, la stessa
sorgente cristiana lo spinse a tutelare la libertà personale non in senso
privatistico e/o individualistico, ma sempre all’interno dello spazio pubblico,
integrandola cioè con «il vincolo della solidarietà» (p. 108).
Può
ben sostenersi come il progetto morotiano, di società e di politica umane,
provenga «da lontano» (p. 115), una lunga parabola con alti e bassi, non
dipendenti, però, dalla sua volontà o dalla sua coerenza come uomo della
politica e di fede.
La
ricerca del contatto, del dialogo, della mediazione, al fine di andare oltre
«gli stereotipi ideologici e le differenze partitiche» (p. 116) in cerca del
«bene comune» (p. 116), «non venne sempre compreso» (p. 116). Ad una folta
opposizione interna, anche nella sua stessa parte democristiana, si aggiunse
una potente opposizione internazionale. Il suo ideale, cristiano, umano e
politico s’infranse con la Realipolitik della geopolitica mondiale, e
con la realtà storica della cortina di ferro. Se Moro pensò che i tempi
fossero maturi per un superamento della conventio
ad escludendum nei confronti del
PCI, dello stesso parere non fu Kissinger il quale ebbe modo di mettere
duramente in guardia Moro stesso. I due progetti di centrosinistra, o delle convergenze parallele, sebbene tentati in due differenti decenni,
non piacquero, e non furono capiti.
Piuttosto, secondo Campanella, tanto Moro quanto
Berlinguer furono, ciascuno per parte propria, «appaiono oggi come veri
innovatori» (p. 119) dal momento che idearono un «progetto di incontro e di
conciliazione» intesa nei termini di «alternativa democratica tra le forze di
ispirazione socialista e le forze di ispirazione cattolica» (p. 119). Il
tentativo, com’è noto, non poté realizzarsi a causa «della prematura scomparsa
dello statista pugliese» (p. 119). Infatti, il 16 marzo 1978 le BR rapirono
Moro. Cominciarono i cinquantacinque terribili giorni di un’autentica tragedia
di Stato, durante i quali la politica nazionale si mostrò incerta e poco
trasparente nella gestione dell’affaire
Moro. A tratti sembrò che si aprisse qualche
spiraglio, qualche flebile speranza di riavere incolume Moro, ma così non fu. Il
Nostro venne assassinato il 9 maggio 1978, a conclusione di un iter iniziato con il sequestro ma probabilmente già
scritto, già deciso, con un verdetto formulato prima ancora di intraprendere il
rapimento stesso. Con il ritrovamento del cadavere in via Caetani a Roma,
idealmente a metà strada tra le sedi del PCI e della DC, termina la stagione
della speranza di una vita civile condivisa, nel rispetto dell’altrui libertà.
E tuttavia non «si assisterà ad alcuna
manifestazione pubblica, ad alcuna cerimonia, ad alcun discorso, alcun lutto
nazionale» (p. 139). La famiglia, comprensibilmente sconvolta dall’accaduto e offesa
dall’ambigua ed opaca gestione del sequestro da parte delle istituzioni, si
chiuse nel suo dolore e rifiutò la scena pubblica per i funerali del congiunto.
Aldo Moro venne sepolto con cerimonia privata a
Torrita Tiberina. Invece, il Paese visse la grottesca cerimonia dei funerali
pubblici, e di Stato, senza salma, un «funerale simbolico» (p. 139) per
ricordare l’amico, l’uomo
buono, mite, saggio, innocente, come ebbe a dire nella medesima occasione Papa Paolo VI, amico di
lunga data.
La franchezza, unita all’acume nell’analisi geopolitica, fanno del testo di Campanella luogo non partigiano né agiografico per conoscere le reali direttrici dell’esperienza privata e pubblica di Aldo Moro, una lettura che non si può non consigliare se si desidera comprendere davvero il senso della nostra storia recente.
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lunedì 15 settembre 2014
domenica 14 settembre 2014
Autopromozione
"Secondo Losano l’itinerario speculativo di Hans Kelsen è intimamente contraddittorio dal momento che da un iniziale logicismo approda ad un finale irrazionalismo in materia normativa. In linea generale, concordo con tale giudizio. Piuttosto trovo che sulle ragioni di tale sorprendente evoluzione non ci sia molto da dire dato che è l’esito esatto di una premessa metodologica precisa e consistente nella distinzione tra Sein e Sollen, o, per meglio dire, tra la conoscenza e la valutazione, o, il che è del tutto equivalente, tra la scienza e il diritto. In altri termini, posto in essere questo salto logico tra
la prima e la seconda, quale fondamento razionale possiamo trovare nelle valutazioni giuridiche? E segnatamente per le specifiche proposizioni che le realizzano? Kelsen, fedele sino alla fine a questo iato, a questa distinzione, a tale netta polarità, «critica tutti i tentativi di ricondurre il dover essere all’essere», mettendo così capo ad una concezione della norma ove in primo piano v’è solamente la volontà, vale a dire un atto della volontà in tutto irriducibile alla ricostruzione teorica, e, quindi, consegnato ad un sostanziale irrazionalismo in forza del quale le norme hanno luogo, punto e basta. Losano, al riguardo, appare esplicito quando scrive che «Concependo le norme come atti della volontà ed escludendo l’applicazione della logica ad esse, Kelsen ha reso ancora più profonda la separazione tra il mondo dell’essere e quello del dover essere e, quindi, ha reso ancora più coerente il suo sistema teorico-giuridico fondato su questa separazione», un’ulteriore depurazione radicale, prevista nella sua teoria “pura” del diritto, che, però, è appena il caso di farlo notare, avviene «a caro prezzo»"
(articolo completo qui)
venerdì 12 settembre 2014
L'arte di insegnare ...
Il
testo di Isabella Milani, pseudonimo di un’insegnante, dal titolo L’arte di
insegnare. Consigli pratici per gli insegnanti di oggi, è interessante
sotto molti punti di vista, in modo particolare per la tipologia di lavoro che
svolgo, nei suoi alti come nei suoi bassi. Vista la sua mole, però, dovrò
limitarmi a prenderne in esame solamente alcuni punti.
In
primo luogo, un docente dovrebbe sapere che gli alunni in genere, e soprattutto
quelli “difficili”, ci vedono come ci vediamo noi, vale a dire che «comunichiamo
loro l’idea che abbiamo di noi stessi» (p. 21). Di conseguenza, avere una bassa
autostima, ad esempio, esercita una profonda influenza negativa circa il nostro
ruolo di insegnanti. Un insegnante con le idee confuse circa il proprio ruolo
non saprà mai gestire in maniera efficace una classe. Non si dovrebbe mai farsi
mancare di rispetto, così come dovrebbe esservi rispetto reciproco. Infine, un
docente non dovrebbe mai fare l’«amicone», altrimenti salterebbe del tutto
l’asimmetria del rapporto educativo.
Un
altro elemento importante, da tenere in altissima considerazione, è la
composizione del gruppo classe, vale a dire la complessità delle dinamiche
interne alla stessa. Di conseguenza, ciascuna classe è diversa, non ne esistono
due uguali. Ne deriva, ovviamente, che strategie efficaci in una classe possono
non andare bene in altre. Gli alunni presi a solo sono diversi da come si
presentano calati all’interno di un gruppo classe. Pur essendo tutti diversi,
però, gli alunni sono simili, vale a dire che rientrano in determinate
categorie o insiemi di categorie (p. 38). A ciascuna categoria corrisponde una
tipologia di alunno, dal timido al demotivato, dal prevenuto al simpaticone,
passando per i DSA, l’alunno straniero e l’alunno diversamente abile. L’estrema
eterogeneità nel processo di composizione della classe si riverbera
sull’estrema complessità delle dinamiche relazionali interne al gruppo classe
In genere, però, se si riesce a gestire gli alunni “difficili” la difficoltà
nel tenere la classe diminuisce in maniera considerevole. Il problema, infatti,
è riuscire, pur nei numeri elevati, si parla di almeno trenta alunni per
classe, ad instaurare un rapporto personale e diretto con ciascuno (p.
44). Almeno ciò sarebbe quel che
andrebbe fatto, ma non è possibile. Pertanto, la cosa migliore è dimostrare
simpatia e reale interesse per ogni alunno.
Importante
è anche la prima entrata in classe, in quel preciso istante si decidono i
destini dell’anno scolastico. Infatti, bisogna dare l’impressione «di essere la
persona che loro si aspettano come insegnante» (p. 49), preparata, che sa il
fatto suo, che li capirà, che sarà divertente, che sarà giusta. L’entrata in
classe per la prima volta è il momento durante il quale «si stabiliscono i
ruoli» (p. 54) e nulla può essere lasciato al caso. Al contrario, bisogna avere
tutta la classe sotto controllo, comunicare serenità e calma nell’imporre le
regole del rapporto, sempre evitando che si manchi di rispetto. Bisogna, così,
stabilire regole chiare e certe, pretendere un comportamento corretto ed
evitare di generare l’impressione di essere aggressivi.
Un
problema, sovente ignorato nella concreta pratica didattica, è la conoscenza
del linguaggio del corpo. Infatti, se la voce è lo strumento principale della
relazione con la classe, non si dovrebbe mai dimenticare che comunichiamo anche
con il nostro corpo ed eventuali incoerenze tra quanto detto a voce e quanto
espresso tramite il corpo abilita comportamenti scorretti da parte degli
alunni. Se gli alunni capiscono quel che pensiamo di noi stessi, anche noi
dovremmo essere capaci della stessa cosa ed anticipare i loro movimenti o le
loro intenzioni. Se comunichiamo loro come ci sentiamo o ci vediamo, bisogna
allora prestare la massima cura alla nostra immagine, dimostrando sempre
tranquillità, fermezza, autorevolezza. Dunque, se al contrario, si hanno
difficoltà con le classi, bisogna studiare la genesi di tale rapporto, come mai
si è arrivati a questo esito, cosa non ha funzionato e ingegnarsi su come
risolvere la situazione, ricercando quali correttivi siano possibili, come
migliorare il proprio portamento o il proprio ruolo in cattedra.
Un
insegnante capace è colui che appare come una guida, vale a dire una figura
«che insegna e aiuta a crescere» (p. 101), in una progressiva costruzione di
autorevolezza che si costruisce ogni giorno, anche perché sono gli alunni che
danno autorità o, meglio, autorevolezza. La disciplina non si ottiene con la
paura o con la promessa di ritorsioni, ma con la ferma imposizione di un ruolo
docente chiaro e giusto. Anche perché gli alunni di oggi sono, per lo più,
alunni educati male e vivono contesti di povertà educativa e culturale. Di conseguenza,
se l’educazione non viene loro impartita almeno a scuola, dove altro possono
incontrarla? Spesso, però, se scambiano la scuola per la pubblica piazza, la
colpa è nostra, come classe docenti, e non loro. In tal caso, «non diamo la
colpa ai ragazzi» (p. 115).
Spesso
dimentichiamo anche, colpevolmente, che a scuola non si insegnano solamente
contenuti, e che, invece, dovremmo insegnare loro un metodo di studio, quel che
serve loro per «studiare in autonomia» (p. 118). La lezione, dunque, dovrebbe
essere partecipata, costruita mediante la partecipazione attiva da parte degli
alunni, i quali, quindi, vanno coinvolti, e non un’enorme quanto noiosa
esposizione ad un megafono. I docenti dovrebbero essere «convincenti,
interessanti e autorevoli» (p. 123). Altrimenti, si pretende forse che gli
alunni studino senza merito da parte nostra? Senza impegno da parte nostra? Senza
motivazione al compito da parte nostra? Rispetto alle aule di oggi, è solo
nostalgia di un passato mitico, probabilmente mai verificatosi.
In
ogni caso, i docenti devono mettersi in discussione e analizzare bene le
proprie pratiche educative e didattiche. Al riguardo, è interessante il
paragrafo dedicato alla motivazione degli studenti. Cosa si può fare per
motivarli allo studio? La motivazione non è innata, ma va attivata e potenziata
da parte del docente che ha chiaro in mente cosa vuole fare e cosa desidera
ottenere dai suoi alunni, che combatte la noia, che non perde mai il controllo
dell’attenzione della classe e che riesce a mostrare ai propri alunni come si
studia e che chi non sa non riesce a scegliere.
Trovo
illuminante il capitolo sulla disciplina ove l’autrice sfata il mito della
diseducazione dei giovani alunni. Talvolta, a dire il vero piuttosto spesso,
«ci sono colpe che i ragazzi non hanno» (p. 188). I ragazzi maleducati sono
stati, molto più semplicemente, «educati male» (p. 189), e a nulla serve
sperare che un giorno i ragazzi male educati scompaiono dalla circolazione.
Semplicemente, non avverrà e classi con alunni simili vanno gestite, nonostante
tutto. Come? Milani propone una road map fatta di alcuni passaggi
fondamentali, In primo luogo, la lezione vera e propria non può cominciare se
non si è gestita la classe e non si è ottenuto silenzio. Se la classe non ascolta,
a cosa serve cominciare la lezione? Se l’attenzione non è attiva e rivolta al
docente, a cosa serve tenere una lezione destinata a scivolare via? L’attenzione
dovrebbe essere massima anche durante l’interrogazione alla quale, di buona
norma, dovrebbe partecipare tutta la classe e non solamente i diretti
interessati. Nel caso di classi difficili, poi, ci sono alcuni passi da
compiere, sia prima di conoscerla davvero (informandosi con i colleghi e
leggendo la presentazione della classe stilata dagli insegnanti che l’hanno
avuta in precedenza) sia pianificando nel dettaglio il primo incontro con la
classe. A questo punto, l’autrice stila un elenco di possibili situazioni
concrete di classe difficile, suggerendo anche cosa fare, quali azioni
compiere, quali strategie mettere in campo, sempre al fine di ristabilire i
ruoli e l’autorevolezza. Bisogna saperla gestire, guadagnarsi la loro fiducia,
resistere, modificare le nostre pratiche, aiutare i ragazzi svantaggiati,
interessarci loro, a come vedono e vivono la scuola, ma, in ogni caso, non
bisogna «tollerare comportamenti irrispettosi» (p. 203), nemmeno la minima
«mancanza di rispetto» (p. 203). Allora, bisogna addestrare la propria mimica
facciale, il tono vocale, ad avere le idee chiare su cosa fare e come. I
docenti devono sapere che se un alunno «si comporta così, la colpa è anche
nostra» (p. 207). La scuola deve sempre «recuperare e rieducare» (p. 207). Le
punizioni, in genere, servono a poco, quasi sempre a incrudelire il rapporto. Invece,
se «si riesce ad avere un buon rapporto con la classe e con gli alunni, non c’è
bisogno di provvedimenti disciplinari» (p. 228).
L’ultimo
capitolo è dedicato al rapporto con gli adulti, sia tra colleghi sia con il
personale ATA sia con i genitori dei nostri alunni.
Si
tratta di un volume che presenta una serie di suggerimenti pratici in vista di
situazioni concrete e reali, a differenza, ad esempio, delle situazioni
idilliache ma irreali della teoria pedagogica e/o didattica accademiche. Non un
manuale di sopravvivenza nelle classi complesse di oggi, ma qualcosa che vi si
avvicina e che mette in chiaro i difetti del ruolo docente ma anche cosa si
potrebbe fare per invertire la china e per ribadire la centralità della scuola
nella formazione ed educazione dei nostri giovani male educati e soverchiati da
moltissimi modelli negativi enfatizzati dai social e mass media.
mercoledì 10 settembre 2014
Vademecum per un insegnante efficace
Gira sui social media la seguente immagine, graziosa in sé, per carità, su quali pratiche e quali comportamenti un docente dovrebbe assumere, sia in pubblico che in privato, per risultare alla fine un insegnante efficace.
Un elenco, a suo modo "sintetico", di buone prassi capaci, forse di per sé sole, di rendere un insegnante un bravo insegnante, vale a dire un insegnante efficace, o, com'è facile e in voga dire oggi in Italia, meritevole.
Bene, quali sono questi 27 modi additati? Elenchiamoli di seguito:
1. Crea una prospettiva globale;
2. Incoraggia gli studenti a porre domande;
3. Non mascherare o coprire i dubbi degli studenti;
4. Garantisci agli studenti tutti gli strumenti per il loro successo;
5. Dormi sano e riposa bene;
6. Segui una dieta sana;
7. Non alzare la voce, keep the calm;
8. Supporta gli studenti a lungo;
9. Cresci assieme alla classe;
10. Keep the network con i migliori insegnanti;
11. Mantieni i contatti con le famiglie;
12. Informati sulle migliori strategie di insegnamento;
13. Garantisci sicurezza con le tue lezioni;
14. Mantieni alto il tuo livello di energia;
15. Scopri i talenti di ciascun alunno e coltivali;
16. Indaga sulle nuove scoperte con la classe;
17. Integra con la musica all'interno della classe;
18. Sfida i tuoi studenti un po' oltre le loro capacità;
19. Incoraggia l'esternazione del pensiero;
20. Consenti ai tuoi alunni di esprimersi con l'arte;
21. Lascia che gli alunni cancellino 'ieri' con un pulito e nuovo 'oggi';
22. Integra con i social media;
23. Premia i grandi tentativi;
24. Sperimenta con gli alunni;
25. Scarica una lezione per svolgere attività di gruppo;
26. Chatta in ambienti sicuri con gli alunni;
27. Consenti l'apprendimento tra pari.
Bene, cosa possiamo dire a questo punto dopo aver scorso l'elenco di ben 27 modi di insegnamento efficace? La prima impressione è che sia un elenco di desiderata scritto non da docenti o educatori, ma dagli alunni stessi. Infatti, se i modi (1) - (3), (11), (16), (18), (19), (21), (23) sono modalità già realizzate normalmente dal docente in classe, curiosi appaiono i modi (5) - (7) i quali entrano nella vita privata del docente pretendendo di dire cosa il docente dovrebbe fare a casa nel suo tempo libero. Piuttosto, eversivi appaiono, invece, i modi (4) - (9) in quanto sottomettono la funzione stessa dell'insegnante ai bisogni non formativi degli alunni, giustapponendo sullo stesso piano il docente e gli alunni, come se l'apprendimento e/o l'educazione non si collocassero, all'esatto opposto, su posizioni differenti. Il docente non è il compagnone o l'amicone o l'adolescente troppo cresciuto della classe, è un adulto investito di una precisa responsabilità, avere cura dei minori a lui affidati, e una precisa funzione, guidare nei processi formativi. Il rapporto tra il docente e la classe non è mai paritario, per definizione non può esserlo, è decisamente asimettrico, altrimenti non è più un rapporto formale e formativo, ma informale e "da passatempo".
Ma c'è di più. Infatti, i modi (10) - (14) esprimono critiche abilmente dissimulate allo stereotipo del professore: autoreferenziale; spocchioso; non disponibile al dialogo; arretrato; debole. Un insegnante da libro cuore, cioè, non i leoni oggi in cattedra. Forse anche per questo tanto invisi agli alunni, in quanto allergici alla loro omologazione a parti "cresciutelle" della classe.
Il modo (15) mi appare pleonastico, ma la sua elencazione esplicita mi dà da pensare. Forse, l'estensore di questi modi teme o pensa che il docente non faccia normalmente ciò? Delle due l'una: o è in mala fide o desidera un impossibile non meglio specificato.
I modi (17), (20) e (22) sono addirittura comici dal momento che prefigurano un idealtipo di docente che dovrebbe non utilizzare altri strumenti per meglio entrare in sintonia con i propri alunni, ma utilizzare questi ultimi tout court, come se l'insegnante efficace fosse quello che rappeggia in classe o che chatta con i social network o che accetta ed apprezza qualsiasi tentativo artistico dei propri alunni. Dov'è il fatto educativo in tutto ciò? Semplice, a mio modesto avviso, non c'è, e non può esserci perché questi modi rispondono al medesimo sogno proibito dell'alunno medio, vale a dire un docente meno docente e più immaturo, una figura meno adulta e più "spassosa", un educatore meno rompi e più "scialo". Noi non dobbiamo affatto abolire la distanza generazionale, anche perché non è nostro compito, peraltro nemmeno auspicabile, ma dobbiamo farcene carico in un'ottica di gestione degli effettivi bisogni formativi degli alunni. Solo all'interno di questa cornice, si potrebbe pensare ad un'integrazione complementare che integri i modi (17) e (22). Ed anche il modo (26).
I modi (24), (25) e (27) mi paiono mere repliche di attese espresse in precedenza sotto altra forma, e che rispecchiano appieno, oltre il più ragionevole dubbio, la mano adolescente che si cela dietro, e che vagheggia un superamento mitico, oltre che onirico, dello stesso fatto educativo.
Se poi mi sbaglio, ed è una mano adulta, le pongo le seguenti questioni:
1) come mai l'immagine di insegnante destinatario di questo elenco di 27 modi di insegnamento efficace è stereotipata oltre che fortemente monistica?
2) come mai questo elenco di 27 modi di insegnamento efficace dimentica colpevolmente la natura duale del rapporto d'insegnamento? Non basta, a mio modesto modo di vedere, e sulla base della mia seppur breve e fragile esperienza, mettere in campo da una sola parte uno soltanto o tutti assieme dei 27 modi qui elencati. Se la classe, fatta di alunni e insieme complesso di precise relazioni interpersonali, è refrattaria o demotivata o insensibile o estranea o interessata ad altro, l'insegnamento non sarà mai efficace.
3) perché l'insegnante deve essere efficace mentre l'alunno può restare quello che è? E non essere, a sua volta, un buon alunno? Un alunno educato? Uno studente efficace? Purtroppo, nel nostro Regno si dimentica con troppa facilità che gli studenti non sono tutti uguali e che la maggior parte è del tutto estranea alla formazione/educazione. Una classe di maleducati non sarà mai una classe di studenti efficaci. O una classe difficile non consentirà mai ad un insegnante di mettere in campo uno solo dei 27 modi qui indicati. Nemmeno quelli che spudoratamente pretendono di dire cosa l'insegnante deve mangiare o fare nel suo tempo libero. Anche l'alunno dovrebbe dormire e mangiare bene. Ah, questo non si può dire? E allora come mai si trascura bellamente il fatto che quello dell'insegnante è solamente un lavoro, beninteso bellissimo e nobilissimo, ma pur sempre un mestiere, e mai l'unica ragione di vita dei diretti interessati? E, invece, si continua a perpetuare la visione collettiva di questo lavoro come mission, vale a dire come professionalità povera ma che non termina mai, nemmeno quando la campanella segna la fine delle lezioni, anche a casa, anche a letto, anche quando per quelle ore non si è malamente retribuiti? Perché? Sarebbe bello, oltre che utopico, o distopico, rispondere a questa domanda.
Dopo aver letto questo elenco, mi rendo conto di quanti danni abbia fatto alla scuola Robin Williams, o il suo personaggio ne L'attimo fuggente. Il docente non è il compagno di classe degli alunni, se lo è siamo di fronte al fallimento professionale oltre che umano di quest'ultimo.
Ai colleghi dico solo questo: resistiamo! Resistiamo! Resistiamo! Resistiamo!
Anche a costo che ci tirino addosso gli zaini, le sedie o i banchi, anche a costo di finire al pronto soccorso ed essere considerati dei "bugiardi" dagli stessi responsabili, anche a costo di non essere ben visti dal dirigente, impegnato a far vedere quanto è bravo lui a dirigere sulla base dell'aumento delle iscrizioni (e che qualità s'iscrive!!!), e che ti dice "ma lei ha sbagliato! Doveva prevedere e prevenire la reazione!", anche a costo di non essere creduti dai colleghi, anche a costo di andare all'INAIL per espletare le pratiche di infortunio sul lavoro.
Resistere! Resistere! Resistere!
Sarebbe bello se al posto di asettiche e burocratiche linee guida, un ministro scendesse per un attimo, per un'ora, per una volta soltanto, in trincea, a toccare con mano di quante lacrime, sudore e sangue consta la nostra professione, inefficace il più delle volte perché l'utenza è quella che è, perché inefficace è appunto l'utenza, perché impossibile sovente è l'aria che si respira in classe.
Lo so, non accadrà mai, altrimenti la politica dei tagli lineari non sarebbe più possibile, dato che, all'esatto contrario, bisognerebbe investire di più, molto di più, nella scuola, e nel personale, ma è comunque bello lasciarsi cullare da questo sogno!
E allora: resistiamo! Resistiamo! Resistiamo!
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