In data 04 Giugno 2015 è circolata in rete la notizia del parere offerto dall'Avvocatura dello Stato alla Corte Costituzionale circa il (reiterato) blocco della contrattazione collettiva nel Pubblico Impiego.
Ora, non sono un giurista, e bene che vada, solo uno "smanettone" del Codice Costituzionale. Così, a naso, offro in questa sede le mie umili divagazioni sulla vicenda.
E' pendente alla Consulta un ricorso avverso al blocco suddetto, il quale, per inciso, è effettivo per la parte economica, e non per la parte normativa, anche se in tutti questi anni la controparte amministrativa non ha svolto alcuna contrattazione collettiva in merito. Un difetto de facto, e non de jure. Ovviamente, agli occhi del dipendente pubblico pesano di più gli effetti economici (a cascata) del blocco suddetto.
Ma andiamo con ordine,
Nel 2009, l'allora Governo Berlusconi vara un blocco triennale dei contratti della Pubblica Amministrazioni. Vale a dire che:
1) i contratti in scadenza, andavano a termine e non venivano rinnovati (per tre anni, i governi successivi hanno nel tempo reiterato il medesimo blocco, e siamo già al 2015);
2) i contratti scaduti non venivano rinnovati;
3) gli anni di blocco, originariamente tre, non venivano valutati ai fini dell'anzianità di servizio.
A questi tre effetti se n'è aggiunto un altro:
4) il blocco degli scatti retributivi per anzianità di servizio.
Tralasciando l'effetto (4), non perché non meriterebbe, ma solamente per chiarezza espositiva, concentriamoci sugli effetti (1) - (3).
Un contratto collettivo nazionale di lavoro ha normalmente una durata temporale, al termine del quale le parti si siedono ad un tavolo e decidono come rinnovarlo. Ora, il rinnovo può essere solamente economico, senza cioè prevedere nulla nella parte regolamentare, oppure riguardare entrambi gli aspetti. Il blocco in questione, però, se ha lasciato aperta la possibilità teorica di una contrattazione collettiva ai soli effetti giuridici, ha escluso la possibilità di una contrattazione collettiva agli effetti economici. Ciò significa che i lavoratori del pubblico impiego si sono ritrovati dall'oggi al domani con un contratto scaduto e con una retribuzione ferma ai livelli previsti dal contratto non più rinnovato. Il danno economico mi pare tanto evidente quanto innegabile: ovvero, retribuzioni congelate ai livelli tabellari previsti con il contratto scaduto. Ciò significa che ciascun dipendente pubblico percepisce uno stipendio immobile nel tempo!
Ma c'è di più. Infatti, l'effetto (4) introduce un ulteriore penalizzazione, non per forza economica, ma previdenziale. Cioè: il dipendente percepisce una retribuzione bloccata a valori economici antecedente e, nel frattempo, gli anni di servizio non vengono conteggiati da un punto di vista previdenziale. Ciò significa che il lavoratore non ha lavorato per gli anni di blocco e che, dunque, non ha prodotto i contributi richiesti. Quindi, a fine carriera lavorativa si troverà con un montante previdenziale inferiore al numero effettivo di anni di servizio, e, di conseguenza, con effetti negativi a cascata sull'importo dell'assegno pensionistico.
Ma tralasciamo ancora questo aspetto, e torniamo agli effetti (1) - (3).
Non rinnovare i contratti del pubblico impiego ha sicuramente prodotto un'economia di riflesso, anche se recessiva perché ha eroso il potere d'acquisto dei salari dei pubblici dipendenti, ovvero un consistente risparmio in tutti questi anni. Un risparmio che la stessa Avvocatura dello Stato calcola in non meno di 35 miliardi di euro. Ciò significa che una preponderante parte della cosiddetta spending review è stata fatta in tutti questi anni, dal 2009 sino al 2015 sulle spalle dei pubblici dipendenti. Anzi, per imitare il gergo che piace agli spiriti imprenditoriali, "con le tasche" dei pubblici dipendenti!
In altri termini, anziché far recuperare ai salari dei dipendenti pubblici il deficit dell'inflazione, la parte datoriale pubblica ha pensato bene di lucrare, in termini di bilancio, e di abbandonare i suoi dipendenti al proprio triste destino.
Un simile risparmio è significato un parallelo indebolimento salariale, e, dunque, sociale, dei dipendenti pubblici, un sacrificio che non ha eguali nel tessuto sociale del nostro Paese, e che suscita sinistri presagi quando il decisore politico di turno si alzerà un giorno per ribadire che "bisogna tagliare" o "fare economie". Retoriche apparentemente neutre, ma umanamente dolorose.
Ora, perché l'Avvocatura dello Stato nel fornire un parere si concentra sull'aspetto economico?
A mio parere, è interessante osservare come l'argomento addotto a favore del blocco suddetto sia di mera natura economicista, vale a dire che si punta esclusivamente sull'eventuale onere economico che deriverebbe dall'abolizione del suddetto blocco. Ma nulla viene detto, o perlomeno è trapelato, circa gli interessi legittimi dei dipendenti pubblici lesi dal blocco suddetto. In altri termini, l'Avvocatura invita la Corte a riflettere sugli effetti economici derivanti dallo sblocco della contrattazione collettiva di lavoro. Anche se, comunque, ribadisce come la contrattazione non sia stata interrotta dato che quella relativa alla parte normativa dei contratti collettivi è rimasta attiva. E pazienza che sia una concessione meramente fattuale, dato che un rinnovo dei contratti per la sola parte normativa non esplica effetti apprezzabili.
Da stime approssimative, sembra che con il blocco suddetto le retribuzioni dei pubblici dipendenti siano più povere del 10%, mentre rimangono immutate le ore lavorate. Ciò significa che, rispetto ai periodi antecedenti il 2009, il pubblico dipendente percepisce di stipendio il 10% meno. Vero che si tratta di un effetto dovuto all'inflazione, visto che i contratti non sono stati rinnovati nella loro parte economica, con recupero della perdita di potere d'acquisto, ma, a ben guardare, si potrebbe pure dire come in realtà dal 2009 sino ad oggi siano stati effettuati dei tagli lineari alle retribuzioni dei dipendenti pubblici nella misura del 10% (stima ovviamente destinata ad aumentare man mano che aumenta la forbice temporale del suddetto blocco) ...
Il sospetto è confermato dalla ferrea volontà del decisore politico di reiterare nel tempo il suddetto blocco, trasformando uno strumento di emergenza, dato l'insorgere della famosa crisi economica, e, quindi, temporaneo, in un provvedimento strutturale di economia pubblica, vale a dire un meccanismo permanente e duraturo di "congelamento" delle retribuzioni pubbliche.
Ma ora viene il problema costituzionale. Se le retribuzioni pubbliche sono più povere, a parità di ore lavorate, può dirsi che il suddetto blocco, soprattutto se prolungato nel tempo, rispetti l'art. 36 Cost.? Il dipendente ha il diritto a retribuzioni adeguate al fine di svolgere un'esistenza libera e dignitosa? Ho i miei dubbi.
Ma c'è di più. Il suddetto blocco rispetta l'art. 39? Detto altrimenti: il suddetto blocco non annulla la contrattazione collettiva? Non configura, dunque, un'ipotesi di condotta antisindacale? Vero che il decisore politico ha lasciato aperta la possibilità per una contrattazione collettiva limitata alla sola parte legislativa, ma possiamo scindere nella disciplina dei contratti collettivi nazionali tra le due parti? D'altro canto, un contratto di lavoro non deve sempre prevedere una correlazione tra prestazione offerta e correlata corresponsione economica? Cosa diavolo sarebbe un contratto rinnovato per la sola parte regolamentare, ma non pure nella sua parte economica?
V'è poi da dire qualcosa sulla deriva economicista dell'Avvocatura dello Stato. Infatti, il problema è l'art. 81 Cost., per come modificato nel 2012, e che introduce in Costituzione il pareggio di bilancio. Di conseguenza, ai fini della valutazione di meritevolezza costituzionale del ricorso avvero il blocco della contrattazione collettiva nazionale di lavoro devono essere presi in considerazione gli effetti negativi sul bilancio dello Stato. Pertanto, se il decisore politico ha operato un risparmio sulla pelle dei lavoratori pubblici, non è detto che la tutela dei diritti soggettivi di questi ultimi possa incidere sull'equilibrio delle finanze pubbliche.
Non ch'io condivida un simile orientamento, ma mi consente una divagazione non costituzionale, e conclusiva, la seguente:
emerge una forte disimimmetria tra il trattamento riservato al pubblico dipendente e il trattamento riservato a tutti gli altri cittadini. Infatti, mentre per l'utilità pubblica, il primo può venir maltrattato, con interventi e provvedimenti negativi e punitivi, per la stessa utilità pubblica, non è possibile derivare effetti negativi per tutti i cittadini, se questi derivano da interventi e provvedimenti positivi per i pubblici dipendenti.
In altri termini, ai dipendenti pubblici viene chiesto di fare la loro parte, quando si tratta di derivare benefici per la collettività, mentre alla collettività non viene chiesto di fare la propria parte, quando si tratta di derivare benefici per i soli dipendenti pubblici.
Cosa deciderà la Consulta?
Quale punto di equilibrio verrà raggiunto nel bilanciamento dei principi costituzionali?
E quale equilibrio tra gli opposti interessi delle parti in causa?
Solo il tempo ce lo dirà.
E non è detto che sarà una decisione "positiva" per i pubblici dipendenti ...
(url immagine: http://www.fps.cisl.it/images/Volantino_Ricorso_BloccoContratti_icon.jpg)