Liberi,
eguali e indipendenti?
(immagine tratta da: http://chronicle.com/img/photos/biz/2408-5702-nussbaum.jpg)
Le persone disabili costituiscono
il più grande scandalo della ragione occidentale, quegli esempi
negativi che la razionalità pura ed ideale non può riconoscere[00]
e che preferisce, di gran lunga, nascondere, dunque, in luoghi
separati, in “altrove”, in modo tale che siano lontani dagli
occhi e da qualsiasi possibile cognizione.
I filosofi, in genere, non si
occupano di disabilità, forse troppo umiliante per i propri
voli della fantasia, forse troppo limitante per la profonda
finitudine che connota le esistenze di coloro che incontrano ostacoli
maggiori rispetto ad altri nello sviluppo della propria personalità.
In questo panorama fortemente
desolante ed arido, riscontro solo una strana eccezione nella
filosofa statunitense Martha C. Nussbaum la quale, al
contrario, ha anche incentrato la sua ricerca proprio sulla
condizione esistenziale delle persone disabili[01].
A mio modesto modo di vedere, il
tema presente ha un'indubbia rilevanza teorica, anche come metro per
valutare l'efficacia delle formule politiche che, in genere, i
filosofi producono nel tentativo di interpretare, o di riformare, a
seconda dei casi, l'ordine sociale.
Tuttavia, prima di entrare nello
specifico del tema in questione, è bene spendere ancora alcune
parole per chiarire alcuni presupposti davvero importanti sulla
disabilità.
Le persone disabili certamente
soffrono la presenza di ostacoli oggettivi di varia natura che
interferiscono immediatamente con l'espletamento di funzioni
personali al punto da rallentarne in maniera tanto vistosa e profonda
l'effettuazione. Il mancato rispetto di uno standar da
parte delle persone disabili spinge a non considerarle
“normali”. Ovviamente, nel caso presente non ha proprio alcuna
importanza parlare di “normalità” o di “ordine” o di
“standard evolutivo”, l'importanza appare solo relativa. La
presenza di un handicap,
pertanto, nell'accezione inglese del termine, vale a dire di “peso
aggiuntivo”, che in questo caso grava sulle spalle delle persone
disabili, e che interferisce con le loro normali funzionalità, è la
differenza che corre tra una persona normodotata, la quale può
tranquillamente contare sulle proprie forze per superare i normali
ostacoli della vita quotidiana, e una persona disabile, la quale non
può contare sulle proprie forze per andare avanti nella propria vita
personale e per sviluppare in maniera adeguata le proprie lecite
aspettative esistenziali. L'interferenza della menomazione fisica con
il pieno sviluppo personale incide o sull'autonomia personale o sulle
capacità cognitive oppure sull'indipendenza nelle relazioni umane.
Detto
questo, sia pure molto brevemente, emerge subito come alcuni aspetti,
di per sé rilevanti, della condizione vissuta dalle persone
disabili, pur nell'estrema generalità di quanto sto dicendo, siano,
in primo luogo, l'estrema dipendenza cui
vanno incontro le persone disabili e, in secondo luogo, la
manifestazione radicale in esse dei limiti della nostra condizione
umana, come la sofferenza, la mancanza di capacità, il bisogno, e
così via. La relazione di cura, la quale, detto per inciso, sovente,
e molto spesso, a dire il vero, caratterizza la condizione
esistenziale delle persone disabili, è talmente importante da far
dire alla Nussbaum come sarebbe bene riformulare tutte le nostre
teorie della giustizia al fine di tenerne conto[1]. Questo perché le
cure alle persone disabili, per la loro durata, coincidente in genere
con quasi l'intera vita di queste ultime, e per la loro natura, sono
molto onerose e tali da incidere in maniera formidabile sulle finanze
della collettività. Il trattamento da riservare loro, pertanto, è
così importante da influenzare la nostra stessa concezione della
giustizia sociale, la nostra stessa idea di diritto. Infatti, hanno
le persone disabili delle pretese, peraltro legittime, vista la loro
condizione, da far valere nei confronti del resto della comunità
oppure no? E se sì, non vanno soddisfatte, costi quel che costi?
Forse ha ragione Dworkin quando asserisce che, in genere, ed intendo
presso il centro occidentale della medesima teorizzazione politica, i
diritti non vengono presi sul serio, e, aggiungo, sempre più
considerati come privilegi che le finanze pubbliche non possono più
concedere, come sprechi che la crisi attuale non può più tollerare.
Ma questo accade perché l'intrinseca asimmetria dei rapporti di
forza tra persone disabili e persone normodotate finisce con il
realizzare il rischio, a suo modo paventato, nella sua prosa
romanzata, da Pontiggia secondo il quale il rischio razzista, con
riguardo al tema attuale, è sempre presente ed agente. Nel momento
in cui si riconosce la diversità
e da questa si prendono le mosse al fine di dedurre diritti
differenti, ossia separati, vale a dire specificatamente in funzione
dei differenti fruitori finali, ecco che ha luogo la
discriminazione[2].
Quando
accade ciò, la giustizia fallisce, ma, e prima ancora, fallisce
l'intelligenza umana, quella stessa meravigliosa creazione di cui
tanto si beano i filosofi, gli stessi che, in genere, preferiscono
ignorare la disabilità tout – court.
Invece, la disabilità è una
cosa concreta, è una declinazione, magari radicale, della medesima
condizione umana e interpella direttamente tutte le nostre teorie
politiche, ed economiche, mette in questione le nostre più profonde
convinzioni, i nostri più radicali convincimenti personali. Solo
riconoscendo nei soggetti disabili la medesima umanità, è possibile
dare seguito ad una riconsiderazione generale in tema di diritti,
giustizia e redistribuzione del reddito secondo il bisogno. In fondo,
infatti, le persone disabili sono “persone”, non “qualcosa”[3],
magari da rifiutare o misconoscere. Al di sotto del mero
riconoscimento di un diritto, v'è un diritto ancor più
fondamentale, ancora più radicale, ancora più “di principio”:
il diritto di avere diritti[4], vale a dire la possibilità, anche
per loro, di essere titolari di diritti, costi quel che costi.
Altrimenti, finiamo con la finzione della giustizia o dei diritti
soggettivi e continuiamo, ma stavolta alla luce del sole, a negare
parità ed eguaglianza di diritti.
Secondo
Nussbaum proprio il tema della disabilità, e della connessa
giustizia dovuta alle persone disabili, dovrebbe spingerci, magari
anche in maniera celere, a ri – pensare il nostro modello politico.
Perché dovrebbe accadere questo? La risposta è tanto semplice
quanto radicale: tutti i teorici del contratto sociale, e, quindi, di
una certa modalità di pensare ai rapporti, in termini di costi
e benefici, tra i
singoli membri della società politica, hanno sempre caratterizzato
il soggetto che entra in relazione, per il tramite del contratto
sociale, come non – disabile.
Anzi, i soggetti che successivamente costituirebbero la comunità
politica sono concepiti come liberi,
eguali ed
indipendenti[5].
In questo modo, i teorici del contratto sociale negano cittadinanza a
tutti coloro che, per vari motivi, o per diversi handicaps, non
possono agire come fanno coloro i quali, al contrario, sono liberi,
eguali ed indipendenti. Infatti, i contraenti del contratto sono gli
stessi per i quali vengono redatti i principi della comunità
politica[6]. Di conseguenza, se le persone disabili non possono
entrare come pari rispetto agli altri contraenti, come uguali tra
eguali, non possono far valere alcuna pretesa successivamente. La
loro esclusione appare dunque tanto radicale quanto criticabile.
L'estromissione doppia, prima
dall'elenco dei contraenti il patto, e dopo dai fruitori dello
stesso, è il simbolo più vistoso dello stigma sociale con il quale,
in genere, si occulta l'umanità[7]. Questo perché, in genere, la
presenza di handicap così importanti spinge a considerare le persone
che ne portano il segno quotidianamente come non – normali[8]. E
questo è un problema “classico”, oserei dire, per la disabilità
in generale[9].
Tuttavia, ciò non significa che
si debbano lasciare le cose così come stanno.
Per la Nussbaum, questa stessa
mancanza è indice del fallimento del modello stesso: i disabili
esistono, non sono scherzi o bizzarrie singole della Natura.
Per affrontare, appunto, questo
problema, rilevante per qualsiasi teoria politica che voglia farsi
apprezzare come realmente valida, Nussbaum sottopone a critica
l'intera tradizione liberale occidentale, e, in modo particolare, il
modello contrattualista, dal periodo classico, con Locke e Hume, sino
al neocontrattualismo, con Rawls sugli scudi.
Il discorso della filosofa è,
nel contempo, pregevole, per l'impegno analitico profuso, e
interessante, per gli esiti imprevisti cui mette capo. Per la
Nussbaum, gli uomini stipulano tra loro un contratto, cioè
«decidono di rinunciare all'uso privato della forza e alla
possibilità di sottrarre i beni agli altri, in cambio di pace,
sicurezza e con la prospettiva di un vantaggio reciproco»[10].
L'idea alla bade di qualsiasi formulazione di marca contrattualista
è che una comunità politica si costituisca in un momento non
storico, ma ideale, come il voluto superamento dello stato di
natura e con lo scambio di pretese naturali con vantaggi sociali.
In modo particolare, gli uomini accettano di rinunciare alla loro
libertà di natura in nome di un vantaggio reciproco altrimenti non
conseguibile. Per gli autori classici, dunque, vi sono dei beni
indisponibili al consumo durante lo stato naturale, ed è in vista di
quest'ultimo, possibile solo dopo il superamento dello stato di
natura, che decidono di uscirne e di accedere ad altre forme di
organizzazione sociale.
Quel che, però, tutte le
concezioni contrattualiste fanno è giustificare teoricamente un
modello di società politica fondata su un insieme di «principi
politici fondamentali»[11], uno dei maggiori contributi della
filosofia politica liberale[12]. Questa società politica mostra come
tutti possono rinunciare al proprio potere «a favore del diritto e
dell'autorità debitamente costituita»[13] a condizione di essere
spogliati dei vantaggi artificiali che alcuni di essi hanno nelle
società reali. In quest'ultimo caso, infatti, avviene che, tolte
tutte le differenze di partenza, gli uomini non possono che
accordarsi «su un certo tipo di contratto»[14]. Ne emerge, allora,
che se il punto di partenza è equo, «i principi che ne emergeranno
saranno anch'essi equi»[15].
La stessa idea procedurale di
società politica, non per forza Stato, precisa Nozick[16], è
presente in Rawls per il quale, avverte invece Nussbaum[17], il
discorso è più complesso, sia con riferimento alle sue fonti sia
con riguardo alla specifica modalità con cui discute alcuni punti
specifici della propria teoria di società politica giusta. Il
punto di partenza resta, però, lo stesso: come assicurare ai singoli
tutti quei diritti che lo stato di natura non consente? Anche Nozick
scorge il medesimo problema, commentando il discorso lockiano: «nello
stato di natura una persona può essere priva del potere di far
rispettare i propri diritti; può non essere capace di punire o farsi
risarcire da un avversario più forte che li ha violati»[18].
Rispetto alla teoria ralwsiana,
Nussbaum individua ben tre differenti problemi irrisolti, e punti
critici per la stessa. Per gli scopi presenti, però, ci
concentreremo solamente su uno di questi, quello relativo, per
l'appunto, alla disabilità, e al ruolo che chi ne soffre
assume nella società politica.
Nussbaum osserva come per tutti i
teorici classici del modello contrattualista di società politica «i
soggetti contraenti siano uomini approssimativamente eguali riguardo
alle capacità e in grado di svolgere attività economica
produttiva»[19]. Le persone disabili, chi in misura maggiore e chi
in misura minore ma tale comunque dall'essere esclusi dall'insieme
delle persone “produttive”, sono così estromesse dalla società
politica. Le persone disabili, dunque, sono escluse dal gruppo «di
coloro che scelgono i principi politici fondamentali»[20]. I teorici
classici non contemplano la presenza, vale a dire il ruolo attivo, di
persone disabili tra coloro che stabiliscono i principi morali di una
società giusta. Semplicemente, i disabili non fanno parte della pars
valentior, rappresentativa dell'intera specie umana, incaricata
di elaborare i valori fondamentali di una società politica che possa
fregiarsi della virtù morale. Il problema di tale esclusione è che
se i disabili non sono inclusi nel gruppo di coloro che scelgono,
essi «non sono inclusi […] nel gruppo di coloro per i quali i
principi sono scelti»[21]. In maniera del tutto caratteristica, a
mio avviso, accade una pericolosa transizione in virtù della quale
essere inclusi nell'elenco di coloro che stabiliscono i principi
fondamentali, che una futura società politica deve avere, significa
anche essere tra i futuri fruitori degli stessi. Viceversa, non avere
rappresentanza nell'insieme dei formulatori dei principi di base
della futura società politica comporta, di conseguenza, non essere
presi in considerazione in qualità di possibili fruitori dei
principi politici fondamentali nella futura società politica. Il
problema, nel caso delle persone affette da disabilità, è doppio:
non far parte della pars valentior, che formula i principi
insindacabili sui quali deve fondarsi la futura società politica, e
non venir contemplati quali possibili beneficiari degli stessi
principi politici fondamentali. Si potrebbe anche dire che si tratta
di una medesima esclusione, la quale opera in due momenti differenti
ma collegati: nel momento di codificazione dei principi basilari
della società politica e in quello del godimento degli stessi.
Per Nussbaum il problema, in sede
teorica, risiede in quella condizione iniziale che, in nessun caso,
una persona disabile può rispettare: essere libera, eguale ed
indipendente. I bisogni delle persone disabili sono così “speciali”
da impedire che possano relazionarsi con loro simili come farebbe
normalmente una qualsiasi persona bianca occidentale, tale cioè da
conformarsi al modello “borghese” codificato durante
l'Illuminismo. É questo il problema, è qui che si colloca la radice
del “male” contrattualista: formulare un modello privatistico di
fondazione dello Stato, presupponendo, a torto, che gli uomini siano
tutti liberi, eguali ed indipendenti. Così non è e ne consegue che
il modello del contratto, in virtù del quale dei privati in
posizione paritetica contrattano tra di loro cosa cedere, in termini
di libertà personale, e cosa ottenere, in termini di vantaggi
sociali, è la sanzione formale che riconosce come valida, ed
assicura anche in termini politici, la differenza sostanziale che
sussiste nello stato di natura rispetto alla differente distribuzione
della forza personale e delle capacità naturali di entrare in
relazione con gli altri.
Se l'idea morale centrale nella
tradizione contrattualista è il «mutuo vantaggio e
reciprocità»[22], l'esclusione iniziale delle persone disabili
comporta la loro esclusione futura dall'elenco delle persone che
possono godere dei principi politici stessi. Infatti, non far parte
dei contraenti originali del patto sociale significa che le persone
disabili non hanno «eguale cittadinanza»[23] con gli altri.
Nella teoria politica di Rawls,
che riprende ampliandola ed aggiornandola, sotto un certo punto di
vista, la teoria classica del contratto sociale, la società
politica viene intesa nei termini di un'impresa cooperativa per il
mutuo vantaggio[24]. Di conseguenza, il problema diviene quello di
spiegare come mai le parti decidano di abbandonare lo stato di natura
per ottenere dei vantaggi reciproci derivanti dalla cooperazione
sociale. Le parti, cioè, vanno alla ricerca di un vantaggio
reciproco da conseguirsi per il tramite della cooperazione in
società. L'idea di Rawls è che persone razionali siano in grado di
compiere una scelta tra la cooperazione e la non cooperazione per il
«vantaggio reciproco»[25], capaci di comprendere come la
cooperazione sia sempre preferibile alla non cooperazione, e che,
dunque, in ultima istanza, la società politica stessa sia di per sé
preferibile, vale a dire più vantaggiosa, allo stato di natura. In
altri termini, le parti non devono decidere se sia preferibile una
società esistente, quella “naturale”, o una società futura,
quella “politica”, ma solamente riconoscere la ragionevolezza di
alcuni principi e l'assenza stessa di principi e scegliere i primi. É
infatti razionalmente preferibile la cooperazione sociale, ossia la
presenza di alcuni principi politici fondamentali, anziché vivere
l'arbitrio dell'assenza totale di principi o del più forte, come si
configura, in genere, lo stato di natura, non a caso considerato da
Hobbes una condizione di perenne bellum ominium contra omnes.
Rispetto all'argomento presente,
la teoria di Rawls, pur configurandosi come un progresso rispetto al
modello classico di contrattualismo, non risolve il problema della
giustizia sociale rispetto al trattamento da riservare alle persone
disabili. Anche Rawls, infatti, considera i disabili dei soggetti
marginali rispetto all'insieme complessivo dei soggetti politici e
finisce con il posticipare ogni considerazione al riguardo in un
imprecisato momento futuro.
Ciò spinge Nussbaum ad asserire
come le «teorie contrattualiste devono fare affidamento su una
qualche concezione di razionalità nel processo contrattuale e tutte
assumono che i contraenti siano lo stesso gruppo sociale dei
cittadini per i quali i principi sono stato redatti»[26]. La
conseguenza è piana e lineare: «nessuna teoria di questo tipo può
includere completamente persone con gravi menomazioni mentali come
persone per le quali, in prima istanza, i principi sono stati
progettati»[27].
Pur riconoscendo valore alle
moderne teorie contrattualiste, con speciale riferimento alle loro
concezioni di giustizia, Nussbaum sente di dover rilevare come non
siano in grado di affrontare in maniera adeguata il problema della
giustizia sociale che deriva dalla sostanziale esclusione delle
persone disabili dal godimento dei principi politici fondamentali di
una società[28].
Al prototipo di “personalità
occidentale”, l'uomo borghese della tradizione illuministica, vale
a dire il soggetto libero, eguale ed indipendente, che produce un
elenco di principi politici fondamentali, Nussbaum sostituisce un
elenco di capacità le quali vanno intese nei termini di
«principi politici per una società liberale pluralista»[29]. Ella
stabilisce una soglia minima di capacità e prevede per obiettivo
della società «portare i cittadini al di sopra di questa soglia
delle capacità»[30]. In altri termini, Nussbaum non concepisce un
modello generale e comprensivo di giustizia sociale, ma
solamente un correttivo funzionale che possa migliorare il grado
complessivo attuale di giustizia[31]. Ella non dice nulla riguardo
alla maniera concreta in virtù della quale la giustizia tratterebbe
le ineguaglianze al di sotto della soglia minima, ma indica i livelli
essenziali perché una vita umana possa considerarsi dignitosa.
Pertanto, l'approccio alle capacità indica il «nucleo minimo di
diritti sociali»[32] che viene garantito dal riconoscimento, e dalla
conseguente promozione, delle capacità umane centrali. Nussbaum
elenca le seguenti capacità:
Vita;
Salute;
Integrità fisica;
Immaginazione;
Sentimenti;
Ragion pratica;
Appartenenza;
Relazionarsi con
altre specie;
Gioco;
Controllo del
proprio ambiente.
L'idea di base di tale elenco è
che una vita priva di una di queste capacità centrali non è una
vita umanamente dignitosa. In altri termini, esso è un particolare
approccio ai diritti umani[33]. Per il tramite di tale elenco,
Nussbaum sposta il discorso sulla giustizia sociale dalle premesse
all'esito finale del processo politico. Pertanto, la giustizia «sta
nel risultato e la procedura è valida se sostiene tale esito»[34].
Di conseguenza, quel che importa ad una teoria della giustizia è la
«qualità della vita delle persone»[35]. Allora, tutti i diritti
dovrebbero essere garantiti alle persone «in quanto requisiti
centrali di giustizia»[36].
L'approccio alle capacità non
presuppone che le persone debbano essere libere, eguali ed
indipendenti e, quindi, consente di «usare una concezione politica
della persona che riflette più da vicino la vita reale»[37].
D'altro canto, infatti, lo stesso approccio parte da una concezione
della persona come animale sociale la cui dignità non deriva da una
razionalità idealizzata ed offre «una concezione più adeguata
della piena ed eguale cittadinanza delle persone con menomazioni
fisiche e mentali e di quella di coloro che si occupano di esse»[38].
Il difetto della teoria
ralwsiana di giustizia è, in buona sostanza, far affidamento su una
concezione presuntiva di normalità. Di conseguenza, Rawls non
può spiegare perché a tutti coloro che si collocano al di sotto
della mediana della normalità sia dovuta giustizia «piuttosto che
carità»[39]. Ciò svela il vero carattere della finzione originaria
del contratto sociale. Infatti, la cooperazione sociale promessa, e
promossa, «è intimamente connessa all'idea che si debba restringere
il gruppo iniziale dei contraenti a coloro che posseggono “normali”
capacità produttive»[40]. Per poter includere le persone con
disabilità entro il normale range di funzionamento della
società politica, retta dal principio della cooperazione sociale per
il mutuo vantaggio, Rawls dovrebbe riprogettare la razionalità delle
parti al fine di includervi anche la cura degli interessi di terzi «e
non solo dei propri»[41]. Per poter cooperare, le persone disabili
«hanno bisogno di essere considerate come cittadini degni, cui siano
riconosciuti i diritti di proprietà, all'impiego, e così via, e non
come meri oggetti di proprietà»[42]. Il curioso paradosso delle
teorie della giustizia sociale non fondate sull'approccio alle
capacità è di considerare le persone disabili come dei mezzi,
e non come dei fini, della medesima cooperazione sociale.
Ovviamente, si tratta di “calare” la lista delle capacità umane
centrali nella rete dei concreti bisogni delle singole persone con
disabilità, ciascuna con i propri personali.
Nussbaum propone, dunque, di
rendere più giusta la società politica modificando la prospettiva
usuale, considerando le persone disabili dei soggetti politici di
cooperazione sociale e non dei meri oggetti politici di cooperazione
tra soggetti sociali. Infatti, lo scopo della cooperazione sociale
«non è ottenere un vantaggio, bensì promuovere la dignità e il
benessere di tutti i cittadini»[43].
Ora, se le condizioni di vita
delle persone disabili, e di coloro che se ne prendono cura, sono
oggettivamente più difficili delle altre, una «società decente
organizzerà lo spazio pubblico, l'istruzione pubblica e altre
rilevanti aree della politica pubblica per sostenere queste esigenze
e per includerle completamente, dando a coloro che assistono tutte le
capacità della nostra lista e dandone ai disabili il maggior numero
possibile, nel modo più completo possibile»[44].
In conclusione, a parer mio,
Nussbaum ridefinisce la nozione di giustizia cercando di farla
aderire alle concrete condizioni di vita reale. In questo modo, il
suo approccio fornisce «una parziale teoria della giustizia sociale
di base»[45] e sostiene come «un mondo nel quale le persone hanno
tutte le capacità della lista è un mondo giusto e decente, almeno
ad un livello minimo»[46]. La teoria della giustizia sociale è,
sotto ogni punto di vista, una particolare teoria del bene
formulata nei termini di «diritti umani fondamentali»[47].
Note
[00]
E tutto questo nonostante che la razionalità sia più una meta
ideale, che non una condizione realisticamente realizzata. Secondo J.
Elster, Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e
l'irrazionalità, Il Mulino,
Bologna, 2005, p. 85 e sgg. la razionalità umana è massimamente
imperfetta e può essere perfetta solo in rarissimi casi “locali”.
[01]
Anche se ciò va inteso come declinazione in concreto della teoria
politica al fine di dare risposta a tre temi emergenti: 1) la
disabilità; 2) il
multiculturalismo; e,
3) la differenza di genere.
[1]
Cfr. M. C. Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani,
in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana,
Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 28.
[2]
Cfr. G.
Pontiggia, Nati
due volte,
Mondadori, Milano, 2012, p. 147.
[3]
Cfr. R. Spaemann, Persone.
Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”,
Laterza, Roma – Bari, 20134,
p. 6.
[4]
Cfr. S. Rodotà, Il
diritto di avere diritti,
Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 25 – 6.
[5]
Cfr. M. Nussbaum, Le
nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità,
appartenenza di specie,
Il Mulino, Bologna, 2007, p. 104.
[6]
Ivi,
p. 84.
[7]
Cfr. M. C. Nussbaum, Nascondere
l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge,
Carocci, Roma, 20132,
p. 353.
[8]
Ivi,
p. 355.
[9]
Cfr. G. Pontiggia, op.
cit.,
pp. 42 – 3.
[10]
Cfr. M. C. Nussbaum, Le
nuove frontiere … op. cit.,
p. 30.
[11]
Ibidem.
[12]
Supra.
[13]
Ibidem.
[14]
Supra.
[15]
Ivi,
p. 31.
[16]
Cfr. R. Nozick, Anarchia,
stato, utopia,
Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 45.
[17]
Cfr. M. C. Nussbaum, Le
frontiere … op. cit.
p. 32 e sgg.
[18] Cfr. R. Nozick, op. cit.,
p. 35.
[19]
Cfr. M. C. Nussbaum, Le frontiere … op. cit.,
p. 35.
[20]
Ibidem.
[21]
Ivi, p. 37.
[22]
Ivi, p. 36.
[23]
Ivi, p. 38.
[24]
Ivi, p. 77.
[25]
Ivi, p. 78.
[26]
Ivi, p. 84.
[27]
Ibidem.
[28]
Ivi, p. 86.
[29]
Ivi, p. 87.
[30]
Ivi, p. 88.
[31]
Ivi, p. 92.
[32]
Ibidem.
[33]
Ivi, p. 95.
[34]
Ivi, p. 99.
[35]
Ivi, p. 100.
[36]
Ivi, p. 102.
[37]
Ivi, p. 104.
[38]
Ivi, p. 116.
[39]
Ivi, p. 138.
[40]
Ibidem.
[41]
Ivi, p. 142.
[42]
Ivi, p. 186.
[43]
Ivi, p. 220.
[44]
Ivi, pp. 241 – 242.
[45]
Ivi, p. 294.
[46]
Ibidem.
[47]
Supra.
Bibliografia
J.
Elster, Ulisse
e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità,
Il Mulino, Bologna, 2005.
R.
Nozick, Anarchia,
stato, utopia,
Il Saggiatore, Milano, 2008.
M.
C. Nussbaum, Bisogni
di cura e diritti umani,
in M. C. Nussbaum, Giustizia
sociale e dignità umana,
Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 27 – 50.
M.
Nussbaum, Le
nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità,
appartenenza di specie,
Il Mulino, Bologna, 2007.
M.
C. Nussbaum, Nascondere
l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge,
Carocci, Roma, 20132.
G.
Pontiggia, Nati
due volte,
Mondadori, Milano, 2012.
S.
Rodotà, Il
diritto di avere diritti,
Laterza, Roma – Bari, 2012.
R.
Spaemann, Persone.
Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”,
Laterza, Roma – Bari, 20134.
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