Abbarbicati sui davanzali,
accigliati senza un perché,
violenti senza ma,
li vedi tutti i giorni,
e speri che non sfoghino su di te la loro bile
Alunni soli,
specchio di una realtà decadente,
senza se e senza ma,
soprattutto senza perché,
così soli,
così abbandonati
Se comprendessimo la nostra società attraverso loro,
metà ne avremmo completato di percorso,
ma così non è,
neanche a volerlo.
Loro sono soli,
e noi pure,
loro si sentono, giustamente, abbandonati,
noi, inavvertitamente, lo siamo.
Come pesi, scaricati,
come spesa, evitati,
come privilegiati, vilipesi,
come ricchi, sfregiati.
La scuola è al termine della notte,
un attimo prima della fine,
un momento dopo l'abbandono
la solitudine sola c'è compagna,
tra una lagrima d'occasione e una di coccodrillo,
in tanti declamano, in pochi sostengono,
nessuno aiuta.
Se ne stanno ancora lassù,
spavaldi contro l'autorità,
ultimo baluardo della legalità,
sul confine sottile del pericolo,
sul bordo sfumato della soglia senza ritorno
ma fragili dentro,
come foglie secche,
come gusci vuoti,
come buche nel terreno,
come vasi andati in frantumi,
spigolosi, taglienti, ma delicati.
Il tempo di sciogliere al vento questi versi soli,
e loro restano là,
sono ancora là,
per vedere meglio il mondo, forse,
per trarsene fuori, probabilmente,
per caderne fuori, sicuramente.
E noi?
Cosa resta di questo tempo?
Cosa scende dal cielo?
La solitudine è la sola cifra adeguata al nostro riconoscimento sociale,
l'abbandono la sola cifra adeguata al desiderio sociale delle nuove generazioni.
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giovedì 29 novembre 2012
venerdì 23 novembre 2012
Indizi ...
Per millenni
l’uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli
ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili
da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di
peli, piume impigliate, odori stagnanti. Ha imparato a fiutare,
registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come
fili di bava. Ha imparato a compiere operazioni mentali complesse con
rapidità fulminea, nel fitto di una boscaglia o di una radura piena
di insidie
(C.
Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in
C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e
storia, Einaudi, Torino, 2000, p. 166)
Il discorso di Ginzburg
è semplice quanto efficace: da sempre, l’essere umano è
stato caratterizzato dalle capacità di risalire, a partire da mere
tracce materiali,
ai fatti che li hanno provocati.
Detto altrimenti, l’uomo riesce a
ricostruire fatti avvenuti in sua assenza a partire da semplici
«indizi».
Ciò è esattamente quel che fa lo storico: a partire da tracce, più
o meno complete, più o meno frammentarie, di un passato
non direttamente disponibile, egli cerca di ricostruire il flusso
temporale, di azioni,
di agenti,
di moventi,
che le hanno prodotte.
Quel che, detto ancora con altre parole, fa
lo storico è adoperare un vero e proprio «paradigma indiziario»
che, peraltro, lo accomuna anche allo psicologo e all’antropologo:
risalire da poche tracce alla situazione iniziale che le ha prodotte.
Ma Ginzburg pecca, forse, di ottimismo in quanto dà voce da una ragione onnipotente. La pensiamo diversamente da lui, una ricerca storica indiziaria è, e resta immancabilmente, parziale nel senso che non può davvero ricostruire tutto, ma si limita a ricostruire solo parti del passato. Anche se questo è già molto.
(immagine tratta da: http://www.sscnet.ucla.edu/history/ginzburg/ginzburg.jpg)
mercoledì 21 novembre 2012
Pensare al passato per comprendere il presente ...
Gli storici
hanno sempre saputo […] che la storia si costruisce dalla
prospettiva del presente,
che il viaggio che lo storico intraprende verso il passato
non finisce lì, ma torna necessariamente al punto di partenza, che
le sue elaborate costruzioni teoriche volte a dar conto di quanto
successo in altri tempi sono prive di valore se non dicono nulla agli
uomini di oggi
(M. Cruz, I brutti
scherzi del passato. Identità, responsabilità,
storia, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 108)
E' proprio vero: non si dà storia che in direzione inversa al flusso del tempo, dal presente verso il passato.
E tuttavia, una volta giunto laggiù, lo storico torna incessantemente avanti e indietro nel tempo, per vagliare ipotesi, per controllare dati, per verificare fonti...
Il tutto nella ferma convinzione che il passato, in quanto cose occorse in altri tempi, e ad altri uomini, sarebbe infine privo di valore se non parlasse agli uomini di oggi, se non dicesse qualcosa che interessi anche chi vive nel presente. Se il futuro è di chi ha un passato, è pur vero che il problema del passato se lo pone solo chi è interessato a spiegare il proprio presente.
Pertanto, se oggi il nostro Paese ha smarrito la via stessa del presente, cosa ne è stato del suo passato? Cosa è andato storto? Cosa non ha funzionato? Ma queste sono domande scomode, domande che non interessano, questioni che restano come parole scritte sulle acque ...
(immagine tratta da: http://giotto.ibs.it/cop/copj170.asp?f=9788833921396)
lunedì 19 novembre 2012
Triste storia ...
In questo
libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci
si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente,
dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta,
la civiltà euro – occidentale e americana, nei suoi stadi futuri
(O. Spengler, Il
tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1957, p. 13)
Progetto ardito, ma problematico: la storia è un corpo evolutivamente programmato, e, quindi, anche, prevedibile? Forse Spengler è rimasto abbagliato dalla novità e dalla potenza delle cd. scienze umane le quali, accoppiate a quelle esatte, possono aver sortito l'impressione che (quasi) ogni cosa, sotto il cielo, sia prevedibile.
Bene, Spengler rimarrebbe sorpreso, allora, di conoscere l'attuale epistemologia storica secondo la quale la storia non esiste punto, se non, almeno, dal momento in cui il singolo storico si pone domande ricostruttive della sua realtà presente, e, nel farlo, investe il passato di ipotesi e ricostruzioni, procedendo, dunque, a ricostruirlo. Del futuro, invece, nulla al momento può dirsi.
Ovviamente, però, non era affatto questa la prospettiva singolare dalla quale muoveva, ma quella sorta di "filosofia della storia" che intende fornire, o suggerire, ipotesi ermeneutiche intorno al destino delle civiltà. Sui data è possibile convenire, ma sulle interpretazioni, forse, no. E questo a maggior ragione se, più che di valutazioni su facta, si tratti di meri sogni, ad opera di visionari.
E tuttavia, forse, su un punto Spengler aveva ragione: nel predire la fine del centralismo mondiale dell'Europa, relegata, da lì in poi, al mesto ruolo di "parte" tra le "parti" del globo terracqueo.
Ma per fare ciò non era, forse, nemmeno necessario produrre quella mole di pagine che è suddetto Tramonto.
(immagine tratta da: http://usnlombardia.files.wordpress.com/2012/08/spengler.jpg)
domenica 18 novembre 2012
Elegia per una cara scomparsa ...
Una crepa si allarga sulla parete
esterna,
un'altra, più estesa, occupa la parete
interna,
dei ragazzi fumano davanti l'uscio, ma
a nessuno importa.
Una blatta scivola via lesta lungo il
pavimento.
Beata te, mia amica, almeno tu riesci a
sopravvivere!
Il neon del soffitto fa i capricci, gli
scalini sono alti e ripidi,
le volte dell'antico edificio ci
abbracciano ad ogni nostro passo
come bare accoglienti.
Il sifone alle pareti è posticcio: fa
scena, ma a niente serve.
Il vetro delle porte è incrinato, ma
importa che la lavagna sia multimediale …
Tuttavia manca la connessione alla
rete, così fingiamo di essere alla moda!
Le zanzare nidificano in cortile,
evviva la natura!
Un gabbiano solitario cammina
goffamente sul tetto esterno,
beato anche lui che la gara per la
sopravvivenza può vincerla,
questi ragazzi qua, invece, no.
E buon per loro che non lo sanno …
Un banco improvviso vola per aria,
una parabola breve, ma intensa, solca
l'aria,
come una lagrima sul viso che riga la
calma apparente dei corridoi bui,
chi è stato? Urli, quasi ringhi, ma è
tutto inutile!
A nessuno importa sapere chi sia stato,
a nessuno importa cosa sia stato,
a nessuno importa che danno sia
seguito.
Trascorriamo il tempo come foglie morte
sugli alberi,
in attesa della brezza lieve del vento,
a porti più accoglienti condurci.
Non vediamo futuro, ma antichità.
Non scorgiamo speranza, ma ansietà.
Non desideriamo un domani, ma solo di
permanere lungo il viale della vita.
Chi sono io?
La risposta la conoscono i venti agili
e i torrenti sotterranei,
ultimi depositari di una vita che lieve
scorre via, e giunge lontano da noi …
Io sono la scuola, alla fine della
decadenza,
la nottola, triste e solitaria, che
accompagna la notte dei nostri tempi bui,
il silenzio che morente scende su quel
che fu umano.
Una scintilla che squarci il velo
oscuro, ed opprimente, del buio, i miei poveri occhi spenti non
vedono.
Una voce gioiosa che rallegri la
tristezza di questi luoghi, le mie povere orecchie mute non odono.
Una margherita giovane, segno di
rinascita in mezzo a tanta sciagura non nasce.
Siamo, ahinoi, così giunti al termine
del giorno?
sabato 17 novembre 2012
Perché le 24 ore sono solo una “trappola” ordita dalla crisi e da un’opinione pubblica in cerca di vittime sacrificali (per tacere del masochismo del personale)
La “farsa” che ha
interessato il mondo della scuola nelle ultime settimane è doppiamente
significativa, a patto, però, che si desideri davvero coglierne le valenze
intrinseche a prescindere dalla vulgata,
in genere distorta e/o menzognera, offertane dai media, più o meno interpreti del consensus gentium, ossia di quell’elettore medio italiano che
sempre più assomiglia allo stereotipo americano incarnato – nel vero senso
della parola – dal personaggio cartoon Homer Simpson, ossia l’ignorante che abbocca
alla TV e che vota per un ‘sì’ o per un ‘no’, occorsogli nell’arco della
giornata. Aggiungerei ancora qualche qualifica a tale nozione idealtipica, ma
credo sia possibile fermarsi qui senza troppe remore.
Partiamo dall’inizio, ossia
dal provvedimento di revisione della
spesa approvato nel luglio 2012 e che prevede un risparmio da ottenere
dalla scuola di 700 milioni circa da qui a tre anni. Dove trovare le risorse?
Già la riforma Gelmini, L. n.
133/2008, innovava l’organizzazione didattica in conformità a mai riscontrate
e/o suffragate opzioni didattiche ed educative (basti pensare alla
giustificazione, chi la ricordi, della soppressione del curricolo articolato
sull’alternanza tra tre maestre: “i bambini si confondono, le ricerche (quali?)
dimostrano che i minori hanno bisogno di un’unica figura di riferimento”),
prescrivendo per il comparto scuola un risparmio complessivo di economie pari a
8 miliardi di euro circa. Quella riforma,
non si è mai saputo se opera più del dicastero della (ex) Pubblica Istruzione o
del dicastero dell’Economia, ha comportato un taglio lineare di personale pari
a 140mila operatori, tra docenti e personale ATA.
Fatta cassa con la scuola
allora, si procedette in seguito a “congelare” il rinnovo del contratto di
settore, scaduto nel 2009, dopo il rinnovo nel 2006 per il biennio economico
2007 – 2009, per altri due anni e non riconoscendo più in automatico, come era
invece previsto da suddetto contratto, l’anzianità di servizio, che si concreta
in un incremento salariale per fasce di anzianità. Taciamo della riforma delle
pensioni, dell’omologazione dell’età di genere, a mere esigenze di risparmio, e
vediamo come in seguito tale blocco del rinnovo contrattuale, che consisterebbe
solamente ad un incremento dei salari fermi al tasso d’inflazione attesa per il
2007 (!), recuperando un poco – sempre troppo meno – il potere d’acquisto eroso
dall’inflazione, è stato esteso ancora sino al 2014 – ora si parla di
estenderlo ancora sino al 2017 - .
Si è trattato, in altri
termini, di un’entrata “a gamba tesa” da parte del dicastero economico sull’analogo
dell’Istruzione, accorpato nel generico e vacuo M.I.U.R., il mare magno del terzo settore, con espropriazione indebita delle relative funzioni di
progettazione, di pianificazione, di organizzazione, di scelte didattiche, etc.
Questa progettualità politica era ben chiara in mente all’allora Ministro
Tremonti che prevedeva una sorta di (super-)potere del proprio dicastero su
tutti gli altri, incarnando una sorta di premierato,
esecutore tecnico delle decisione del Presidente del consiglio dei ministri, non
più capo del governo e coordinatore dei vari ministeri.
La decisione di “tagliare”
la scuola pubblica italiana, senza pensare minimamente ai danni che nel tempo
verranno prodotti e che si verificheranno a cascata nel corso del prossimo
trentennio, per tacere qui delle ripercussioni sul PIL, è frutto senza dubbio
in parte dalla precisa volontà di personaggi digiuni del mondo della scuola –
oggi, non quando la frequentavano loro cinquant’anni fa – e in parte dalla
precisa volontà degli stessi personaggi di intercettare gli umori “profondi”
dell’elettorato … qui comincian le
dolenti note a farmisi sentire, direbbe Dante. Infatti, l’elettorato
italiano, esattamente come tutti gli altri dei paesi occidentali, ha subito una
profonda, e dolorosa, involuzione a vari livelli: culturale; sociale;
psicologica; economica; etc. Intorno al 2003 si parlava di declino del nostro Paese, parlarne oggi forse non è più di moda –
siamo poi passati alla casta,
categoria polimorfa e plurivantaggiosa, e ai recentissimi choosy – ma non è detto che quella caduta non sia più in atto …
anzi! Perché dico questo? Perché penso fermamente che i nostri amministratori
siano perfettamente rappresentativi della volontà degli elettori nel senso che
sono specchio fedele dei loro umori e ne rappresentano adeguatamente la
volontà. Chi dice che la democrazia (rappresentativa) sia morta, incalzata da
nuovi modelli e/o paradigmi, a mio sommesso parere, pecca di ottimismo: la
democrazia (rappresentativa) funziona! Eccome! Solo che nel funzionare non
esprime ideali o valori da conseguire e/o declinare in concreto, ma solo dare
sfogo a volontà viscerali, emozionali, non discusse, non problematizzate – ma
perché perderci sopra del tempo prezioso? - degli elettori. Solo così si
spiegano provvedimenti tanto penalizzanti, tanto offensivi, così poco
giustificati – ma v'è una giustificazione ulteriore da produrre oltre a quella
di dare corso ai desiderata degli
elettori? - , così poco meditati eccetto la fretta di dover rispondere a
precise sollecitazioni, nazionali e comunitarie – Patto di Stabilità – e di
comunicare agli elettori una capacità di risposta rapida – la politica del
“fare” … - che descrive la chiarezza di obiettivi e di strategia dei nostri
stessi rappresentanti. Poi, pazienza se i provvedimenti varati fanno acqua da
più parti o se vari tribunali amministrativi hanno da ridire. Intanto si
iscrivono in bilancio i risparmi conseguiti, e poi si vedrà. Come a dire:
intanto tagliamo, poi chi dovrà piangersi e tagli – leggi: personale e famiglie
– e conseguenze – leggi: future generazioni – si vedrà a suo tempo!
La miopia governativa è pari
alla superficialità degli elettori. In nessun Paese civile si consente che la
FIAT faccia quel che vuole, in nessuno eccetto il Nostro, così morbido nei
confronti dei potenti, del Potere. E in nessun paese civile un Governo parla
male dei propri dipendenti (quelli della P.A.), bollandoli senza mezzi termini
“fannulloni”, “parassiti”, “fancazzisti”, etc., ad ogni occasione di
esposizione mediatica. Se non è ricerca di visibilità, e di consenso questa,
cos'è?
Giungiamo così al balletto
sulle 24 ore per il personale docente della Scuola Secondaria (ossia, Medie e
Superiori). Il ministro Profumo, che quando venne insediato nella coorte di
tecnici, parlò di “dialogo”, “confronto”, etc., si presenta una mattina con un
piano già scritto – quindi, elaborato a suo tempo … - che prevede una sorta di
baratto tra Ministero, ossia il datore di
lavoro – come mai questa locuzione? Si capirà in seguito … - , e il
relativo personale, ossia i lavoratori
dipendenti, acconciato, alla meno peggio, in questa maniera:
1) a partire dal settembre
2013, l'orario settimanale del personale docente della Secondaria, di Primo e
Secondo Grado, si articola in 24 unità orarie settimanali, e non più in 18, a
parità di retribuzione;
2) in compenso: il personale
docente avrà diritto a giorni n. 15 di ferie aggiuntive rispetto a quelle già
disponibili.
Quindi, si interviene,
tramite Decreto Legge – e le ragioni di urgenza dove sono? -, essendo inserito
come comma all'art. 3, credo, della Legge di Stabilità – bella questa moda di
cambiare nome alle cose … prima si parlava di Legge Finanziaria, l'atto
principale di qualsiasi maggioranza parlamentare -, sul contratto, integrandolo
ope legis e scavalcando qualsiasi
principio di confronto e di dialettica tra parti in causa, datore di lavoro e
lavoratore. Peraltro, in regime di vacanza
contrattuale, essendo l'attuale contratto di lavoro scaduto e non rinnovato,
s'interviene normativamente modificandolo di fatto, avocando alla parte
datoriale del rapporto di lavoro la modifica unilaterale dei termini dello
stesso. Saltato il confronto con le parti sociali, il datore di lavoro
stabilisce ad un certo punto che l'orario di servizio aumenta di sei unità
orarie, senza, però, alcun intervento sulla parte economica dello stesso. E qui
sorge un altro problema: si possono modificare parti di un contratto di lavoro
senza rinnovarlo del tutto? A quanto pare sì, dato che già il precedente
Governo Berlusconi – ho perso il conteggio progressivo della numerazione … -,
con il ministro di punta, Brunetta, aveva provveduto ad integrare la disciplina
contrattuale con medesimi interventi “a gamba tesa”. Cosa bisogna imparare da quest'atteggiamento?
Secondo me, alcune cose importanti:
i)
la
contrattazione sindacale viene rigidamente compressa a mere questioni di
organizzazione del singolo turno di lavoro all'interno della singola sede di
servizio (altrimenti non avrebbe senso sminuire la contrattazione collettiva e,
al contrario, enfatizzare quella decentrata);
ii) il rapporto di lavoro viene
ulteriormente sbilanciato in favore del datore di lavoro e a scapito dei
lavoratori (altrimenti non avrebbe senso parlare di “prerogative datoriali”,
come felicemente ebbe a dire sempre il Brunetta);
iii) l'insistenza sul privilegio
accordato alla parte datoriale di poter modificare, senza alcun contrappeso
reale, parti, anche rilevanti, del precedente accordo di lavoro (leggasi:
contratto collettivo nazionale di lavoro) accorda per il futuro ben altre
possibilità per la stessa: (non in rigido ordine d'importanza) a) poter
modificare unilateralmente l'orario di servizio; b) poter decidere
unilateralmente sulla composizione oraria; c) poter decidere unilateralmente
sulla retribuzione media oraria; d) poter decidere unilateralmente sulla durata
del rapporto di lavoro; e) poter decidere
unilateralmente sul dimensionamento del settore di servizio; f) poter
decidere unilateralmente sulla composizione organica dei propri dipendenti; g)
etc.; etc) ....
Come si vede, allora, non
solo è definitivamente tramontata l'idea della contrattazione tra parti
sociali, come strumento di compensazione all'abolizione della scala mobile, all'interno delle politiche
di contrasto dell'inflazione, ma è scomparsa dall'animo dei più l'idea della
tutela della parte debole all'interno dei rapporti di
lavoro. Se questo accadesse solo nel privato, stante la separazione tra giustizia commutativa, propria di
quest'ultimo ambito del lavoro, e giustizia
retributiva, propria dell'ambito pubblico del lavoro, le cose sembrerebbero
un poco “normali”. Invece, se a muoversi in questa stessa maniera, lungo questo
stesso solco, è il Governo, è il Ministero, è la direzione della P.A., qualcosa
non torna! Forse, allora, dovremmo aprire gli occhi sulla definitiva privatizzazione dei rapporti di lavoro:
il contratto pubblico viene soppiantato, in toto o in parte, da subito o
progressivamente, da forme privatistiche di regolazione dei rapporti di lavoro.
Detto in soldoni, chi detiene il maggior potere tra le due parti, decide le
regole del gioco e può modificarle
unilateralmente a proprio piacimento.
Dopo alcune settimane di
caos, di panico, di balletti, di balbettii, di farsa tragicomica sugli orari
del personale docente, viene alla fine approvato un emendamento che sopprime
suddetto aumento orario. Ma per finanziare, dato che non è prevista alcuna
possibilità di ripensamento su quel totale di risparmio previsto in estate
(leggasi: spending review), il
mantenimento dell'attuale orario si procede a togliere risorse al fondo d'istituto, ossia a quel fondo che
integra i già miseri stipendi dei docenti per le funzioni aggiuntive … cambiano
forse i musicisti, ma la musica non cambia. E la scuola paga ancora per tutti!
Tuttavia, permane ancora una minaccia, neanche tanto velata, di futuro aumento
dell'orario … magari già in primavera! Mente nel frattempo si vocifera di un
ulteriore slittamento in avanti della vacanza contrattuale sino al 2017, come
se l'inflazione reale invece se ne stesse anch'essa in vacanza!
Ma torniamo alla proposta.
Sono, a mio parere, almeno tre gli elementi da tener in considerazione:
a) il contratto collettivo
di lavoro, benché non rinnovato, ma ancora in vigore, viene modificato da fonti
del diritto eterogenee;
b) il governo, senza
confronto con le parti sociali, modifica
unilateralmente e orario di
lavoro e ripartizione delle ferie;
c) il datore di lavoro
aumenta unilateralmente l'orario di lavoro
senza, però, provvedere contestualmente a finanziarlo.
Questi elementi, già di per
sé sconfortanti, e mortificanti per un operatore del settore, sono
evidentemente dettati da esigenze contabili, senza peraltro evincere alcuna
conoscenza del mondo della scuola. Infatti, emerge esclusivamente la
preoccupazione di contrarre la spesa
corrente, infischiandosene altamente di destini personali, di vite umane, di
bontà del servizio, e quant'altro a vario titolo chiamato in causa, non ultimo
il destino formativo delle future generazioni. Allora, penso che questa farsa
sia goffa anche perché il tentativo ragionieristico di beccare (almeno) tre
piccioni con una sola fava:
1) riduzione del personale precario (a nessuno deve sfuggire che un aumento dell'orario
settimanale di servizio di n. 6 ore, cancella definitivamente l'annoso problema
dei precari: li tagliamo definitivamente e avanti così! Dimenticandosi, però,
che non siamo solo dei numeri, come capitoli di bilancio, ma abbiamo un nome,
un cognome, una storia personale, magari anche dei figli …);
2) riduzione del personale in organico (a nessuno sfugga che la riconduzione delle
cattedre a 24 ore anziché a 18 comporta la perdita di un terzo del numero
totale di cattedre in organico di diritto. Così facendo, però, ci si dimentica
che non siamo solo dei numeri, come capitoli di bilancio, ma abbiamo un nome,
un cognome, una storia personale, magari anche dei figli …);
3) riduzione dello stipendio del personale in organico (a nessuno sfugga infatti
come, a conti fatti, la presente non sia un mero aumento dell'orario di lavoro
del personale docente, ma una mera
diminuzione del salario per unità oraria lavorata)[1].
Il piccione (3) è
sicuramente quello meno preso in considerazione (ma già Brunetta intendeva
diminuire gli stipendi attuali per finanziare con briciole solo quelli di
alcuni scelti meritocraticamente ….). Infatti, interpretando gli umori bassi e
volgari degli elettori, il Governo agisce duramente sui propri dipendenti
aumentando l'orario limitato che per privilegio spettava loro. Invece le cose
non stanno così, magari stessero così! Il medesimo provvedimento punisce due
volte in una il personale: la clausola di parità di salario tra 18 o 24 ore
significa inequivocabilmente che a parità di ore lavorate il dipendente verrà
retribuito meno! Allora, non è affatto vero che il dipendente scolastico lavori
poco, mentre è verissimo che percepisce pochissimo! Ma queste cose l'opinione
pubblica le sa? Come sa che il dipendente scolastico non lavora per le mere 18
ore settimanali di servizio (ossia, di lezione in classe)? Penso proprio di no
altrimenti non avrebbe avallato così a buon cuore un provvedimento tanto
balzano quanto iniquo[2]
Ma veniamo alla parte più
interessante delle mie riflessioni: il personale docente! Penso sinceramente
che ciascun popolo abbia il governo che si merita. Ed anche che in nessun Paese
civile, eccetto il nostro, i dipendenti si facciano trattare così male. Sì, è
colpa nostra se chi ci governa pensa di poter decidere così facilmente quanto
unilateralmente dei nostri destini occupazionali. Se ci trattano così male,
forse, ce lo meritiamo. Perché? E' semplice: i tagli passano senza nessuna
concreta azione di contrasto da parte nostra, tranne, forse, qualche mozione
approvata da vari Collegi docenti oppure alcune rimostranze verbose. Poi
nient'altro! Passa così il taglio di 140mila unità, senza colpo ferire, eccetto
uno sciopero dell'autunno 2008, e sarebbero passate anche le 24 ore se … se …
il governo non fosse in scadenza e l'attuale composizione parlamentare dovesse
ripresentarsi da qui a pochi mesi alle urne. Per questo motivo, penso che
un'occasione tanto ghiotta di far cassa sulle nostre spalle verrà riproposta
successivamente, che la partita sia tutt'altro che chiusa. E l'occasione è
ghiotta perché il personale della scuola è l'unico che non si preoccupa del
proprio destino, che non considera il proprio lavoro meritevole di tutela,
forse perché la cosa pubblica è
concepita, e considerata di conseguenza, come cosa di nessuno. D'altra parte, anche il docente è espressione, a
sua volta, della società di appartenenza: se la pensa così la massa, perché non
dovrebbe fare altrettanto il singolo docente? Solo che stavolta non si tratta
del marciapiede o del fiume o della spiaggia, ma del proprio lavoro, dal quale,
volente o nolente, dipende il suo stesso destino futuro, e, forse, anche quello
dei suoi figli e dei suoi nipoti.
In fin dei conti, sulla base
della mia, seppur breve esperienza personale, l'operatore scolastico è per
nulla attaccato professionalmente al suo lavoro: se non fosse per il magro
stipendio che percepisce, non sarebbe affatto interessato, poniamo, a lottare
per esso! Così, malgrado sporadiche lamentele verbali, e nient'altro,
l'operatore scolastico digerisce, più o meno agevolmente tutti i provvedimenti
che il datore di lavoro fa passare sopra la sua testa e che, pur interessandolo
direttamente, dal dimensionamento scolastico alla progressione di carriera, dal
salario alla sicurezza del luogo di lavoro, e così via, non suscitano in lui
più di una preoccupazione teorica transitoria. Che significa questo? Semplice:
se si chiede di scendere in piazza per protestare, lui non lo farà! Se si
proclama un'agitazione sindacale, fino al momento in cui resterà vaga e non
prevederà un suo coinvolgimento diretto, lui vi aderirà. Se, ancora, ad abundantiam, si proclama una giornata
di sciopero, lui non vi aderirà, trincerandosi, in genere, dietro due scuse
risibili: (1) non possiamo danneggiare gli alunni; e, (2) lo sciopero non serve
a nulla. La motivazione (1) appare di un certo peso ma solo nella misura in cui
l'operatore scolastico non ha cuore l'amor proprio, e considera i problemi che
lo interessano direttamente come grane da delegare ad altri. A ciò si aggiunga
che proprio chi adduce tale motivazione è poi magari il primo operatore a non
agire di conseguenza: a considerare cioè gli alunni una gran seccatura (e poco
altro)! Chi adduce ciò, comunque, mostra di non aver compresa la natura,
appunto conflittuale, dello sciopero: se non si arrecano disagi, quale forza
può legittimamente aspirare ad avere una mobilitazione? Peraltro, ancora, chi
si nasconde dietro la motivazione (1) fa propria una frase fatta che intercetta
un umore comune in seno all'opinione pubblica, e secondo il quale chi può
permettersi di scioperare, lavora davvero poco. Per tacere dell'umore
concorrente secondo il quale non è ammissibile che una categoria scioperi
danneggiandone altre. Un'idea che, se condivisa davvero, costringerebbe
all'immobilismo professionale e priverebbe i lavoratori dipendenti di qualsiasi
voce in causa sui provvedimenti che li interessano. Ma solo l'operatore della
scuola è masochista al punto da preferire di gran lunga essere danneggiato in
maniera permanente che danneggiare provvisoriamente l'utenza.
La motivazione (2), invece,
è vera nella misura in cui l'80% del personale in questione non aderisce a
forme di mobilitazione, sciopero compreso, per grette esigenze personali,
perdendo di vista l'obiettivo del bene comune scuola (al cui interno rientra
anche lui come categoria professionale). Una giornata di sciopero costa alla
categoria, a seconda dell'anzianità di servizio, dagli 80 ai 120 euro. Certo su
una baste stipendiale davvero misera (e magari con qualche mutuo sul groppone)
la cifra appare elevata e comunque tale, vista la sproporzione in atto tra
salario mensile e distribuzione forfettaria dello stesso in rapporto ai singoli
giorni costituenti il mese, da scoraggiare qualsiasi adesione a scioperi. Chi
ha previsto, per legge, lo sciopero ha fatto in modo di danneggiare chi
sciopera con disincentivi economici molto forti e tali comunque da non rendere
vantaggioso il rapporto, peraltro aleatorio, tra vantaggi futuri (tutti da
verificare) da partecipazione e danno
economico immediato (tutto da assorbire nel tempo). E comunque resta il nodo
della visibilità governativa della categoria lavoratori dipendenti della
scuola: anche uno sciopero del 90% non è detto che influenzi minimamente le
scelte del Governo.
Ecco, allora, che si delinea
il piano di sproporzione netto tra i dipendenti pubblici e il datore di lavoro
pubblico: i primi devono subire quasi tutte le decisione del secondo mentre
quest'ultimo non li consulta quando deve decidere le linee guida da seguire
(per non parlar del resto).
Ma vi sono comunque alcune
altre riflessioni che vanno fatte. Infatti, da qualche anno a questa parte si
avverte e si manifesta sempre più spesso una certa disaffezione nei confronti
dei sindacati che, come parte sociale rappresentativa dei lavoratori,
dovrebbero, in teoria, confrontarsi con il datore di lavoro concertando,
contrattando, determinate misure. Ora, se tali sindacati proclamano uno
sciopero, sempre più colleghi mi dicono cose del genere “non credo più nei
sindacati” oppure “prima si pappano tutto allegramente e dopo mi chiedono di
rinunciare alla paga di un giorno?”. Tutte queste affermazioni esprimono
un'idea di base molto pronunciata e secondo la quale il sindacato è una corporazione – o una casta, vera e propria – che non difende
affatto i diritti dei lavoratori, ma partecipa alle spartizioni ordite dalla
politica. Secondo tale idea, peraltro, il sindacato non rappresenta affatto il
lavoratore, anche perché è oramai lontano, come sede, come “struttura”, dal
mondo del lavoro, non cogliendone più le problematiche, le difficoltà, le
potenzialità, e così via. Siffatta idea, di per sé già abbastanza sconfortante,
assume connotazioni dirompenti se in assemblea sindacale territoriale si
assiste alla scena seguente che mi dilungo a narrare perché, a mio onesto modo
di vedere, istruttiva dell'errata percezione delle relazioni sindacali che il
lavoratore della scuola, proprio perché parte ed espressione della società cui
pur appartiene, subisce e trasmette a sua volta. Dopo che i vari delegati
sindacali hanno detto la loro con pochi e timidi applausi al termine di ciascun
intervento, prende la parola una collega di mezza età, apparentemente sportiva,
che assume subito le sembianze della pasionaria e, rivolgendosi direttamente ai
(malcapitati) delegati sindacali presenti, dice loro “ve lo chiedo
provocatoriamente, ma devo porvi la questione, prima di ora dov'eravate? Mentre
ammazzavano la scuola, voi che facevate?”[3]. L'intervento viene interrotto da
una salva di applausi scroscianti, eccetto il mio mancante. Così muoiono le democrazie: tra gli applausi!
Non condivido l'intervento per due motivi: (i) non era quella la sede per reprimende nei confronti dei propri rappresentanti sindacali; e, (ii) la stessa domanda, per prima, andrebbe posta a noi stessi: dov'eravamo noi prima che smantellassero la scuola? Cosa abbiamo fatto per opporci? Per difendere la dignità, umana, professionale, civile, del nostro posto di lavoro? E come abbiamo lottato per il nostro bene comune? Il meccanismo della delega può distorcere la rappresentanza per categoria, ma non ci esime dalla responsabilità diretta. Chi accusa i sindacati evita di accettare, e riconoscere conseguentemente, proprie responsabilità, propri errori, proprie colpe. In fondo, è facile incolpare i sindacati di non aver fatto abbastanza … ma se il lavoratore è il primo a non scendere in piazza per sé stesso, il primo a non scioperare perché non può/vuole rinunciare al giorno di lavoro, per non danneggiare (sic!) i propri studenti (ben lieti al contrario di saltare la giornata), chi va incolpato? L'assemblea, comunque, riconosce nell'intervento della collega una consonanza d'idee secondo le quali, grosso modo, ci troveremmo in questa situazione perché il sindacato ha finito per fare interessi diversi da quelli della categoria professionale. In fin dei conti, per la collega i sindacati non rappresentano più né la categoria cui idealmente si riferiscono né i lavoratori stessi, lavorando magari per interessi più privati di corporazione in quanto tale. Eppure la replica da parte di una delegata presente è stata, a mio onesto modo di vedere, puntuale e disarmante: “non volete scioperare, va bene, e allora che forza ci date per rappresentarvi presso le sedi appropriate?”[4]. Vero: se non si aderisce alla mobilitazione, con quali numeri i sindacati possono rappresentare i propri lavoratori presso il datore di lavoro? La stessa, comunque, visti i mogugni sortiti nella sala alla replica, aggiunge: “se non volete adoperarvi per difendere i vostri stessi diritti, a me va bene ugualmente! Tanto, egoisticamente, vi dico che tra cinque anni non sarò più in servizio!”[5]. A queste parole, si elevano pochi applausi, compreso il mio: se non siamo noi a difendere i nostri diritti, chi lo farà per noi? Pensarla come la collega di prima significa sostanzialmente due cose: (a) non avere alcuna idea della natura propria della rappresentanza (il sindacato sta al lavoratore = il datore di lavoro sta alla società civile); e, (b) ignorare l'attuale compressione datoriale delle relazioni sindacali ad ambiti marginali della pratica lavorativa.
Non condivido l'intervento per due motivi: (i) non era quella la sede per reprimende nei confronti dei propri rappresentanti sindacali; e, (ii) la stessa domanda, per prima, andrebbe posta a noi stessi: dov'eravamo noi prima che smantellassero la scuola? Cosa abbiamo fatto per opporci? Per difendere la dignità, umana, professionale, civile, del nostro posto di lavoro? E come abbiamo lottato per il nostro bene comune? Il meccanismo della delega può distorcere la rappresentanza per categoria, ma non ci esime dalla responsabilità diretta. Chi accusa i sindacati evita di accettare, e riconoscere conseguentemente, proprie responsabilità, propri errori, proprie colpe. In fondo, è facile incolpare i sindacati di non aver fatto abbastanza … ma se il lavoratore è il primo a non scendere in piazza per sé stesso, il primo a non scioperare perché non può/vuole rinunciare al giorno di lavoro, per non danneggiare (sic!) i propri studenti (ben lieti al contrario di saltare la giornata), chi va incolpato? L'assemblea, comunque, riconosce nell'intervento della collega una consonanza d'idee secondo le quali, grosso modo, ci troveremmo in questa situazione perché il sindacato ha finito per fare interessi diversi da quelli della categoria professionale. In fin dei conti, per la collega i sindacati non rappresentano più né la categoria cui idealmente si riferiscono né i lavoratori stessi, lavorando magari per interessi più privati di corporazione in quanto tale. Eppure la replica da parte di una delegata presente è stata, a mio onesto modo di vedere, puntuale e disarmante: “non volete scioperare, va bene, e allora che forza ci date per rappresentarvi presso le sedi appropriate?”[4]. Vero: se non si aderisce alla mobilitazione, con quali numeri i sindacati possono rappresentare i propri lavoratori presso il datore di lavoro? La stessa, comunque, visti i mogugni sortiti nella sala alla replica, aggiunge: “se non volete adoperarvi per difendere i vostri stessi diritti, a me va bene ugualmente! Tanto, egoisticamente, vi dico che tra cinque anni non sarò più in servizio!”[5]. A queste parole, si elevano pochi applausi, compreso il mio: se non siamo noi a difendere i nostri diritti, chi lo farà per noi? Pensarla come la collega di prima significa sostanzialmente due cose: (a) non avere alcuna idea della natura propria della rappresentanza (il sindacato sta al lavoratore = il datore di lavoro sta alla società civile); e, (b) ignorare l'attuale compressione datoriale delle relazioni sindacali ad ambiti marginali della pratica lavorativa.
Ecco il nodo vero e proprio:
come mai i sindacati appaiono privi di forza contrattuale? Perché il datore di
lavoro non contratta più nulla con loro, manco li consulta, al massimo li
informa a cose fatte, rinviando al dibattito parlamentare eventuali modifiche
esigendo, però, nel contempo l'enigmatico mantenimento del saldo finale. E ciò
accade, molto probabilmente, proprio perché per inerzia colpevole il lavoratore
ha finito, lui per primo, a non credere più nella democrazia, nel proprio
lavoro, nella dignità che dovrebbe competergli per natura. Non difendendo più
il proprio lavoro, come può pretendere di mantenerne nel tempo i crismi della
dignità? Gioco forza, il Governo interpreta bene gli umori della pubblica
opinione che non vede di buon occhio il lavoratore della scuola, non dando peso
alle organizzazioni di settore e facendo passare sopra di lui tutte le
decisioni. L'invenzione del ministero della Funzione Pubblica, a guida di
Brunetta, è altamente significativa da questo punto di vista: riscrivere la
natura propria delle relazioni sindacali, equiparando, al ribasso, l'impiego
pubblico all'impiego privato. E dovremmo forse lamentarci? Siamo stati noi
stessi a revocare peso in sede di contrattazione ai nostri rappresentanti di
categoria …
V'è, però, ancora un aspetto
da considerare prima di passare alle proposte vere e proprie – sì, ve ne sono:
per questo spesso, ma non sempre, ho l'impressione di essere un alieno tra i
miei simili -: delle problematiche di questo lavoro, l'opinione pubblica cosa
sa davvero? Quando quest'ultima dice di sì ai provvedimenti iniqui che
castigano senza giusta causa – si colga al proposito la provocazione – il
personale scolastico, cosa sa davvero del lavoro di quest'ultimo? Qui veniamo
al problema di maggior difficile soluzione. Quando la proposta cominciò a
circolare, il mio edicolante si è sentito autorizzato alla seguente invasione
di campo: “fanno bene ad aumentarvi l'orario di servizio perché, in
proporzione, per tutte le ore di lavoro che svolgo dovrei guadagnare molto più
di quanto invece guadagno”[6]. “Caro edicolante”, questa dovrebbe essere la mia
risposta che per rabbia non gli espressi allora, “per quanto mi riguarda, evito
di sindacare – non sfugga la provocazione – il tuo lavoro perché direi solamente
fesserie, per quanto riguarda invece il mio mestiere vorrei rovesciare la
questione per farti comprendere meglio di cosa si stia davvero parlando, e ti
chiedo: cosa faresti se per legge ti aumentassero l'orario di lavoro da 12 a 24
ore giornaliere bloccandoti però, sempre per legge, eventuali aumenti nei
guadagni? Non ti lagneresti forse? Non ti arrabbieresti forse? Non chiuderesti
l'edicola per protesta? E come mai se a fare ciò sei tu va tutto bene mentre io
non potrei farlo?” Ecco il nodo della questione, evaso da pubblica opinione, da
Governo e simili: fino a che
l'opinione pubblica ha del mondo (del lavoro) della scuola un'immagine, di
comodo, non veritiera, il datore di lavoro potrà fare e disfare a piacimento, i
sindacati non potranno rappresentare adeguatamente i propri iscritti, e i
lavoratori dovranno solamente subire qualsiasi decisione, per iniqua che sia.
L'esempio dell'edicolante dovrebbe, nelle mie intenzioni, descrivere
obiettivamente, e con adeguati termini di paragone, la natura reale della
questione “aumento dell'orario di servizio”: cosa accadrebbe se si aumentassero
per legge, con mantenimento obbligatorio per legge degli attuali saldi di
retribuzione, l'orario di lavoro di metalmeccanici di sei ore in più la
settimana? Non scioperebbero? Chissà! E cosa accadrebbe se, sempre alla stessa
maniera, lo stesso accadesse per i dipendenti comunali? Nulla? Ne siete davvero
sicuri? Oppure per gli operatori dei trasporti …
Questo accade perché si
tratta di provvedimenti iniqui e perniciosi per la dignità stessa degli
operatori (lavori di più per percepire meno!) ma proprio non si comprende come
mai se a scioperare sono queste categorie va tutto bene mentre a noi viene
negata questa stessa possibilità! Tranquilli, per come conosco il mio luogo di
lavoro, questo è ben lungi dall'accadere. Infatti, l'operatore scolastico è
colui che non mostra alcun amor proprio (tale da non concedere nulla senza
adeguata contropartita). Di conseguenza, masochisticamente, è il cliente
perfetto per la ricerca spasmodica, da parte della pubblica opinionie di
vittime sacrificali all'altare del rigore dei conti, o, com'è più di moda oggi,
della “stabilità” (per non dire anche del rigore)!
Questa lunga filippica
giunge al termine. Tutto negativo? Tutt'altro, per ora la faccenda dell'aumento
dell'orario è tramontata. Ma la dinamica delle retoriche pubbliche lascia
trapelare come verrà riproposta, anche perché se non si taglia sulla scuola,
conoscete voi qualche altro settore pronto a sottomettersi a mannaie simili? Peraltro,
senza protesta alcuna?
Veniamo ad alcune semplici
proposte che, a mio modo di vedere, potrebbero sortire i medesimi effetti senza
scioperare, visto che non si può/vuole farlo:
1)
cominciare
a rifiutare tutto quello che esorbita dal “minimo” previsto nel contratto
(esempio: coordinamento di classe; funzione di segretario; funzioni
strumentali; lavoro a casa; correzione domestica di verifiche; etc.);
2)
rifiutarsi
di accompagnare le classe in viaggi d'istruzione;
3)
rifiutarsi
di adottare libri di testo[7].
La proposta (1) risponde a
tono all'idea errata secondo la quale concluso il servizio in classe, il
docente non fa, per dirla con Cetto “una beataminchia”. Così si vedrebbe quanto
in realtà sia dilatato nel corso della settimana l'orario di lavoro (quante ore
domestiche ne contraddistinguono il carico di lavoro).
La proposta (2) colpisce
direttamente i tour operators e
risponde all'esigenza attuale di comunicare pubblicamente il nostro disagio di
categoria professionale colpita nella dignità e nel portafogli da provvedimenti
iniqui. Perché dovremmo far finta che vada tutto bene e comportarci di
conseguenza? Peraltro, l'assunzione di rischio di un eventuale accompagnamento,
peraltro solo su base volontaria dato che nessuno può costringere un docente ad
accettare, non è adeguatamente remunerato: chi ce lo fa fare a finanziare i tour operators?
La proposta (3), invece, è a
mio modesto modo di vedere, l'idea più innovativa, come forma di protesta, e di
contrasto, alle politiche governative ininique nei confronti della categoria:
perché assicurare il giro d'affari per le case editrici come se nulla accadesse
su di noi? Peraltro, da nessuna parte c'è scritto che il docente deve adottare
un libro di testo. Si potrebbe benissimo adottare internet, e il mondo open
source, come valida alternativa, anche in termini di costi, per le scelte
didattiche, che competono esclusivamente al docente. Vale lo stesso detto nel
caso precedente: qualsiasi forma di protesta non può che avere ricadute
negative su altri. Perché dobbiamo pagare sempre, e solo noi, mentre il resto
del mondo continua a girare?
(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjq9VKEpXv1dqB1A4wizWDfnejrsbdlztRJ2lqKkfMB5uhW9ImGfCT51nkTvYxSOqJ2ntrxrM5sCGfFg9_pSDUgmCZkd2wT-TcnF_kS8iCnuGOB-FQ2rYJ_Kvwelv-EgzE_WARuskOUb9E/s1600/boccia+le+24+ore.jpg)
Tuttavia, come nel caso
dello sciopero classico, se l'operatore scolastico è il primo a non voler
difendere sé stesso, come può legittimamente sperare che altri lo facciano in
sua vece? Ed ancora: sarebbe bello aspettarsi, conseguentemente quanto
coerentemente, che siffatto operatore poi però restasse zitto anziché lagnarsi
senza fare nulla! Ma l'operatore scolastico è masochista anche sino a questo
punto: farsi del male anche a parole!
Note
[1] Per comprendere ciò
basta impostare la seguente equivalenza: 100 : 18 = 100 : 24. I conti non
tornano? Invece, sono lampanti!
[2] Le ore n. 18 in classe
si riferiscono esclusivamente al “tempo scuola”, ossia alle cosiddette “lezioni
frontali”, quando il docente diventa il tutore di minorenni indisciplinati,
sovente anche maleducati, e comunque in preda agli ormoni, mentre si tace
completamente di quel numero di ore aggiuntive che ciascun docente deve assicurare
nel corso della settimana per mandare avanti dignitosamente il proprio lavoro:
(i) preparazione di materiale didattico (a casa, e non retribuito); (ii)
correzione di verifiche (a casa, e non retribuito); (iii) aggiornamento
professionale (a casa, e non retribuito); (iv) aggiornamento di servizio (a
scuola, ma non in orario di servizio); (v) incontri con le famiglie (a scuola,
ma non in orario di servizio); (vi) riunioni per classi (a scuola, ma non
retribuito); (vii) riunioni per materie (a scuola, ma non retribuito); (viii)
riunioni in Collegio docenti (a scuola, ma non in orario di servizio); (ix)
verbalizzazione di incontri, consiglio e collegi (a casa, ma non retribuito);
(x) scrutinii (a scuola, ma non in orario di servizio); (xi) riunioni straordinarie
per provvedimenti disciplinari (a scuole, ma non in orario di servizio); e
l'elenco potrebbe continuare, ma preferisco, per pudore, nei miei stessi
confronti, procedere oltre. Ciò, però, rende bene l'idea del disagio con il
quale il dipendente apprende di tali intenzioni, come dicevo mortificanti
quanto inique. Infatti, non solo si aumenta surrettiziamente l'orario di
lavoro, lasciando nel contempo inalterata la retribuzione, peraltro fortemente
erosa dall'inflazione – a proposito, si vuole anche non corrispondere più
quella miseria di spiccioli come indennità da vacanza contrattuale sinora corrisposta dopo la scadenza naturale
dell'attuale contratto - , ma si concede il contentino che sa tanto di beffa:
15 gg in più di ferie! Ah, perlomeno si potrebbe pensare ad una più flessibile
organizzazione delle ferie annuali. Invece no, perché si precisa subito che
tale periodo non deve comportare oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche.
Allora, quando il personale può usufruire davvero di tali ferie senza
comportare aumenti di spesa? Semplice, solo quando la scuola è, per vari
motivi, chiusa: Natale; Pasqua; e così via! Beffa su beffa! Concedi una carota
di cui non puoi comunque usufruire. Contemporaneamente, però, stabilisci anche
come le ferie non godute, per motivi vari, non saranno più liquidate
economicamente … c'è decisamente profumo di fregatura!
[3] Mi sia concessa, al
riguardo, un po' di libertà narrativa: le parole non sono state esattamente
queste, ma rendono bene l'idea.
[4] Valga quanto precisato
nella nota precedente. In più si aggiunga questo: la forza di una
rappresentanza sindacale dipende dalla percentuale di adesione alle forme di
mobilitazione. Se questa latita, il sindacato semplicemente non ha alcuna
forza. E la ragione è semplice, dipendente dalla natura stessa dello sciopero in quanto tale: provocare un
disagio tale da costringere la controparte sindacale quantomeno ad ascoltarti.
Altrimenti, perché mai dovrebbe perdere del tempo prezioso per sentire le tue
lamentele?
[5] Valga la precisazione di
due note fa. In più si aggiunga questo: il meccanismo della delega a rotazione
produce questo effetto di scaricabarile, i problemi restano per chi ha ancora
molti anni davanti. L'idea perversa, che accomuna molti lavoratori della
scuola, è che gli eventuali disagi da affrontare riguarderanno sempre altri,
mai noi in prima persona. Per cui, se il datore di lavoro riduce gli organici,
si finisce sempre con il pensare che la stretta sarà per altri, non per me. Se
il datore di lavoro riduce il salario, si finisce sempre con il pensare che il
taglio varrà per altri, mai per me. E se malauguratamente dovessi accorgermi
che sono stato fregato, penserò sempre che ciò è accaduto perché i sindacati
non mi hanno difeso.
[6] Come sopra.
[7] Valga quanto detto nella
nota precedente visto che le proposte (2) e (3) sono tratte dall'intervento di
un collega che ha preso la parola, nella medesima assemblea, dopo la replica
della delegata alle parole della collega pasionaria.
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martedì 13 novembre 2012
Disputatio!
Il
punto di partenza […] non consiste nell’esigere che l’avversario
dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che dica qualcosa
che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur
necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo,
costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né
con altri; se, invece, l’avversario concede questo, allora sarà
possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già
qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio
non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione:
e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si
avvale di un ragionamento
(Aristotele, Metafisica, 1006a
19 – 30)
Commedie e drammi della contesa elenchica.
(immagine tratta da: http://digilander.libero.it/illuminazioneesterna/aristotele.jpg)
Metafore e ideologia sulla Shoah
1.
Il testo, in breve.
La
guerra […] la catastrofe che
sempre
ha inghiottito uomini e civiltà,
che
sempre ha travolto le regole della vita associata,
e
mai le ha salvate, è stata alle origini
della
domanda di storia[*]
Il
volume, a cura di Massimo Giuliani, di E. L. Fackenheim, Olocausto,
Morcelliana, Brescia, 2011, pp. 66, è la traduzione italiana del
testo inglese Holocaust edito originariamente nel 1987.
(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/31q3fsCkRZL._SL500_AA240_.jpg)
Dopo
l'introduzione di Giuliani, che presenta succintamente l'opera
complessiva dell'autore, toccante l'argomento certo ostico della
Shoah, segue la lucida opera di Fackenheim.
L'autore
sottolinea come il temine 'Olocausto' venga adoperato erroneamente
per indicare il triste e doloroso destino che è toccato in sorte
agli ebrei durante la dittatura nazista. Egli considera, infatti,
“più adeguato”[1] il termine ebraico Shoah, distruzione
totale, perché nessun analogo tra la distruzione perpetrata
dai nazisti e la storia ebraica è ravvisabile in tal senso. Non
avrebbe, peraltro, nessuna correttezza equiparare la pratica della
cremazione di neonati, e infanti, ebrei ancora in vita, con
“gli officianti dell'antico culto di Moloch”[2]. Anche perché i
tedeschi non bruciavano i loro figli, “per un atto non di
sacrificio, ma di mero assassinio”[3].
Fackenheim
passa, a quel punto, a chiedersi se la Shoah sia da considerarsi, o
meno, “un evento unico”[4]. precisa così subito come
preferisca di gran lunga l'aggettivo “senza precedenti”[5]
perché consente di evitare “la tentazione di estrapolare l'evento
dalla storia stessa e dunque il rischio di mistificarlo”[6]. E' pur
vero, osserva l'autore, come la storia faccia mostra di innumerevoli
stermini di massa, di veri e propri genocidi, ma nel caso di
quello ebraico sono da ravvisare gli estremi dell'unicità. La
Shoah, infatti, per le modalità con le quali venne
progettata, pianificata, organizzata e realizzata, “è senza
precedenti”[7].
Pur
alludendo brevemente alle ben note questioni circa la folta schiera
di operatori, improvvisamente diventati smemorati al riguardo, che
hanno partecipato alla numerosissima catena di responsabili, secondo
responsabilità diverse, l'autore si pone la domanda cruciale sulla
Shoah: quale fu il suo perché? Già nel suo Mein Kampf,
Hitler profetizzava la realizzazione della soluzione finale
per il tramite della presa del potere da parte del partito
nazionalcosocialista. Ciò significa anche che mai “prima d'ora
nella storia uno Stato aveva tentato di rimuovere completamente da un
intero paese, anzi da un intero continente, ogni singolo appartenente
a un intero popolo, che fosse uomo, donna o bambino”[8]. Uno
sterminio di così elevate proporzioni porta a credere che sia
impossibile “che, una volta accaduto tutto ciò, la storia del
mondo possa mai essere la stessa”[9]. L'Olocausto è un evento “di
una portata non immaginabile. E tuttavia è stato ed è parte della
storia del mondo”[10].
La
Shoah non va pertanto né mitizzata, perché la si
collocherebbe in un orizzonte al di fuori della storia, traendo fuori
dall'impaccio quanti non riescono a vederla come un fatto storico, né
narrarla solo teoricamente, perché così non la si storicizzerebbe.
Al contrario, essa va considerata un evento storico nonostante le sue
tremende proporzioni.
E
tuttavia non vi sono spiegazioni singoli e semplici per rispondere
alla domanda sul perché. Di conseguenza, l'autore si
concentra sulla nozione di umanità, la stessa che
scientificamente i nazisti cercarono di sradicare, di eliminare, di
nullificare, di rendere nulla. L'invenzione della nuova, ed inedita,
forma di vita per i destinati all'eliminazione, né vivi né morti,
ma muselmann, “il prigioniero prossimo alla morte, il quasi
cadavere ambulante ormai solo pelle e ossa, un morto vivente”[11].
Il
folle progetto nazista di rovesciare l'originario progetto divino
della creazione, inscenando la pazzesca farsa dell'anti –
creazione, con la progressiva sostituzione della razza ariana in
luogo di quella ebraica nell'elezione a popolo di Dio, pone la
domanda radicale sul male. Una questione che può anche essere
considerata il leit – motiv delle interpretazioni sulla
Shoah, lo scandalo sempre risorgente dell'umanità intera sin
dalla notte dei tempi. Perché il male? Perché il malum mundi
ha assunto le forme inimmaginabili di Auschwitz? Perché il male
ha investito in una maniera così asimettrica un solo popolo?
Peraltro, il popolo di Dio?
La
Shoah fu certamente un male. Ma di che natura? Altri
commentatori ebraici hanno ravvisato nell'operato dei nazisti la
natura banale del male, un male che nella sua
gradualità di passaggi burocratici ad opera di gente qualunque e
nella sua gratuità, non come risposta impulsiva ad offese, appare
banalmente quotidiano, privo cioè di qualsiasi giustificazione in
nome di principi elevati oppure privo di movente titanico. Ma,
avverte Fackenheim, il “male è banale a motivo non della natura
dei crimini ma delle persone che li commettono”[12]. La graduale
processualità, tutta moderna, attraverso la quale il progetto
nazista di palingenesi umana è stata messa in pratica,
seguendo la semplice scansione lineare della concentrazione,
degradazione, tortura, eliminazione, rende forse
banale, perché facilmente prevedibile l'esito conclusivo del
processo, non più produttivo, ma distruttivo.
E
tuttavia l'operato nazista è banale anche per un'altra ragione: si
compiva il male non in vista di un fine ulteriore, magari superiore,
ma degradazione, tortura ed eliminazione “erano
la sua intera essenza”[13]. Un progetto criminale che immanentizza
in sé il proprio scopo. Se, sbagliando, Heidegger non coglieva
differenze sostanziali tra come gli ebrei vennero eliminati nel corso
della Shoah e la coeva civiltà della tecnica, è pur vero,
però, che l'immane tragedia cascata sulle spalle degli ebrei è in
qualche modo anche il loro transito nell'età moderna: disumanizzati
a mere parti del processo produttivo della nazione ariana.
L'Olocasuto,
pertanto, “non è solo un evento storico di portata mondiale: è
anche uno «spartiacque»,
una «cesura»
o una «interruzione»
nella storia dell'uomo sulla terra”[14].
Se
la storia, pertanto, deve fare i conti con il novum
imposto dalla Shoah,
può forse dirsi lo stesso per la teologia?
Quest'ultima è certamente legata con la storia. Allora, cosa
comporta anche per essa la tragedia ebraica? La risposta, per
Fackenheim, coinvolge anche i non ebrei, i cristiani in primo luogo,
dato che dopo la Shoah
i cristiani non possono più pretendere di convertire gli ebrei, ma
devono riconoscere “che
l'Olocausto ha segnato un'interruzione nella loro fede”[15],
altrimenti si finirebbe esclusivamente con il non riconoscere la
natura propria dell'Olocasuto.
E
tuttavia qualcosa di analogo vale anche per la teologia ebraica la
quale distingue solo adesso tra una teologia della galut,
della Diaspora,
dell'esilio in terra
straniera, e una
teologia del ritorno nella propria terra. La tradizionale soluzione
della questione
ebraica
poteva in genere consistere nell'espulsione dell'ebreo dalla terra
d'esilio oppure nella ghettizzazione in quartieri appositi, come
suggerisce Arendt analizzando l'operato di Eichmann. Ma l'Olocausto
non è stato un enorme progrom né tantomento un'espulsione di massa.
Prende così forma l'idea di un ritorno a Canaan, in Palestina, e non
più considerato come un “peccato” di sionismo, ma come
espiazione del male subito, ultimo rifugio
dalle sempre possibili persecuzioni ad opera dei gentili.
Bisogna, cioè “prendere
congedo, senza rimpianti e con determinazione, dal giudaismo
dell'esilio”[16].
E ancora, “il popolo ebraico ha esperito l'esilio in una forma più
orribile di quanto avesse mai immaginato, oltre ogni incubo
apocalittico; dopo tali eventi, porre fine all'esilio significa
esprimere una volontà di vita e una fedeltà alla vita che, prese
insieme, danno una nuova dimensione alla stessa pietà”[17].
Questa fedeltà
produce, pertanto, lo Stato
ebraico[18].
Segue
infine una postfazione, ad opera di Giuliani che introduce al
tema del tiqqun, la riparazione del mondo
come atto di fiducia nella responsabilità umana, tanto caro a
Fackenheim.
2.
La Shoah, succintamente.
Monica
Dal Maso, se mai ce ne fosse il bisogno, ci avverte della profonda
cesura storica causata dalla Shoah,
non solamente per la cultura ebraica in generale, ma per l'intera
cultura umana, tra un “prima” e un “dopo” Auschwitz,
scontando l'impossibilità del linguaggio a descrivere,
spiegare, comprendere
l'evento in questione[19]. Dello stesso tenore sono le riflessioni di
Adinolfi[20] e Giuliani[21], per tacere della profonda notte calata
sulle menti occidentali secondo Jonas[22].
Sicuramente,
l'opera de de-umanizzazione di milioni di persone, prima ancora che
la loro effettiva eliminazione materiale, la sostanziale impresa
diabolica di anti-creazione, non ha né eguali né semplici categorie
di analisi e comprensione, ma non è affatto né incomprensibile né
non descrivibile.
Non
condivido in merito quella che considero, a torto o a ragione, la
facile retorica del silenzio
su Auschwitz, assurto ormai a cifra simbolica di quella disimmetria
che istituisce l'evento – Shoah come rottura nella continuità
storica. Anzi, non considero nemmeno, senza nulla togliere alle
vittime, questo evento un'interruzione della storia nel senso che si
dovrebbe ora distinguere tra prima e
dopo. Certo, fu
comunque un evento unico, ma ciò non deve condurre alla facile, se
non anche comoda, per non fare i dovuti conti con la propria
coscienza, resa al silenzio. Della Shoah
si può, e si deve parlare, pur nel rispetto per quanti vi vennero
inghiottiti, perché essa va storicizzata, ossia collocata ov'è la
sua sede naturale: la storia degli uomini.
Sarebbe facile, e comodo, infatti, porla fuori
dalla storia, come un evento de-situato, incomprensibile, insensato,
non-umano, e farne un'agevole metafora
della tecnocrazia occidentale, come, pare, l'intese, e non a caso,
Heidegger.
Se
le parole dicono ancora qualcosa, e lo dicono, bastano, per farsi
anche solo un'idea di quel che fu la Shoah
le parole di Levi, testimone diretto di quella sciagura:
Voi
che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno
Meditate che questo è stato
Vi comando queste parole
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi[23]
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno
Meditate che questo è stato
Vi comando queste parole
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi[23]
Di fronte a tanto dolore e a
tanta sofferenza ingiustificata, si fa avanti la suggestione del
'silenzio'. Le sue ragioni sono ben esposte da Minazzi:
perché il silenzio?
Proprio perché non esisterebbero parole adatte nei nostri vocabolari
per esprimere tutto il nostro orrore, tutta la nostra sofferenza,
tutta la nostra angoscia, tutto il nostro dolore[24]
E allora mi chiedo:
basterebbe il silenzio a rendere giustizia? É sufficiente il
silenzio per lavarci la coscienza? È adeguato il silenzio
per render conto, sia pure parzialmente e tra mille difficoltà,
della sciagura occorsa?
Al contrario di
tanta retorica, facile ed opportunista, dalle mille angolazioni
possibili, ritengo che, al contrario, della Shoah sia non solo
doveroso, ma anche possibile parlare, pur nella profonda convinzione
che parliamo noi solo ora ad esperienza storicamente conclusa e senza
coinvolgimenti diretti.
Ma sarebbe troppo
pretendere che ciò possa togliere qualcosa alla sensatezza ed
importanza delle nostre riflessioni al riguardo.
3.
L'avvenire, dopo la Galut.
Per
Emil Fackenheim la Shoah
divide la catena causale del tempo in due parti, (1) un “prima”;
e, (2) un “dopo”. Ebraicamente, egli distingue, per ovvia
conseguenza, tra (a) l'ebraismo, inteso in senso lato come “cultura”
che istituisce l'identità di un popolo, prima della Shoah;
e, (b) l'ebraismo, nella medesima accezione di sopra, dopo la Shoah.
Pertanto, sino al Secondo
Conflitto Mondiale l'ebraismo vive la condizione della galut,
dell'esilio, a seguito della Diaspora,
Israele tra le genti, tra i gentiles,
dopo non è più possibile pensarlo alla stessa maniera, le categorie
antropologiche,
concettuali,
teologiche che
contraddistinguevano l'ebraismo dell'esilio
non valgono più, appaiono superate dagli eventi luttuosi successivi,
insensate rispetto all'impensabile inimmaginabile accaduto in
seguito.
Dopo
la Shoah, anche per
evitare futuri nuovi e risorgenti tentativi di annientare il popolo
ebraico, è diventato necessario fondare lo Stato
ebraico, trasformando
il precedente peccato
di sionismo in una
virtù: tornare nella
Terra promessa, nella sede naturale intesa quale ricompensa
dell'Alleanza tra Dio e il suo Popolo. Tant'è vero che egli conclude
icasticamente il breve volume con le seguenti parole:
Se sull'onda
dell'Olocausto non fosse già sorto uno Stato ebraico, sarebbe una
necessità religiosa (seppure, con legittimo timore, una
quasi-impossibilità politica) crearlo ora[25]
Storicamente il
“ritorno” in Israele ha origine come risposta umana al tentativo
di cancellarlo per sempre dalla faccia della Terra. Ciò si carica di
simboli non solo storici, ma anche religiosi: Israele avrà
ora una casa sua, e non vagherà più come estraneo tra le case dei
gentili. Solo uno Stato ebraico è diventato la miglior garanzia
contro la tentazione, sempre risorgente, di eliminare gli ebrei.
4.
Cambiale in bianco per lo Stato di Israele?
Se lo stato Ebraico è strumento
di difesa degli ebrei nel mondo dai tentativi di eliminarli, come va
considerata la posteriore condotta dello Stesso, soprattutto in
politica estera, nei confronti degli arabi con i quali (con-)divide
lo stesso territorio? Questo è un grosso problema, che ciascuna
parte ha interpretato nel corso del tempo in maniera diversa, e quasi
sempre parziale, parteggiando ciascuno per la propria gente, per i
propri interessi, ristretti ancorché legittimi.
Non intendo certo criticare gli
uni e gli altri, ma solo soffermarmi su una condizione pericolosa
che, se rivendicata, può fungere da utile alibi morale per
legittimare condotte aggressive.
Lo Stato ebraico nasce come
soluzione al problema delle persecuzioni storiche nei confronti degli
ebrei: uno Stato che possa difenderli[26]. Peraltro, gli ebrei sono
le vittime storiche non solo di molte persecuzioni, ma anche le
vittime della Shoah, la più grande sciagura della storia del
secolo XX! Allora, si potrebbe suggerire che nessuno, a meno che non
sia anch'egli ebreo, possa sindacare la condotta di Israele.
Peraltro, se qualcuno
malauguratamente vorrebbe criticare le scelte israeliane potrebbe
essere considerato un “nemico” di Israele, un nuovo nazista
che rinnova il sacrificio – benché, ovviamente, questa
locuzione non venga universalmente accettata dalla cultura ebraica se
accostata alle vittime della Shoah – perpetrato ad
Auschwitz, e in simili sedi di sterminio. O si è sionisti,
ossia amici degli israeliani, oppure si è anti – sinionisti,
ossia nemici degli israeliani. Basta scorrere la storia del Medio –
oriente degli ultimi sessant'anni per scorgere l'azione funesta di
questa pericolosa dicotomia, di questa opposizione manichea, tanto
semplice quanto fuorviante.
Si può osservare, ad esempio,
come la tendenza sionista a ricostituire uno Stato ebraico in Terra
Santa fosse in atto già prima dell'inizio del XX sec. Quando, cioè,
ebbe inizio un'immigrazione in Palestina di esuli ebrei provenienti
in massima parte dalla Russia[27]. Il sionismo, cioè, è una
ben precisa teoria politica, formulata da Moses Hess,
Judah Alkalai, Zvi Hirsch Kalischer e Theodor Herzl, secondo la quale
bisognava procedere ad una «ricostruzione
di una patria nazionale per il popolo ebraico sulla sua antica terra,
la Terra di Israele»[28].
Pertanto,
la Shoah
aggiunse solamente una sorta di giustificazione storica posteriore ad
una tendenza in corso già a partire dal 1880 circa. Un'immigrazione
la quale, comunque, non poteva che generare attriti con la
popolazione autoctona ivi residente. Da questo punto di vista, sembra
proprio come la teoria sionista sia l'analogo ebraico dei
nazionalismi
di fine XIX secolo, con la differenza, però, che gli ebrei, sin dal
70 d. C., erano privi di una casa propria, di uno Stato, erano,
forse, una nazione,
ma privi di una compagine statuale adeguata. E proprio il loro
tentativo di dotarsi di uno Stato, avrebbe influenzato profondamente
gli arabi palestinesi i quali avrebbero, a loro volta, interiorizzato
l'idea di uno Stato arabo per la nazione palestinese.
Gli stessi sionisti erano
consapevoli sin dall'inizio della difficoltà di costruire uno Stato
ebraico dal nulla dal momento che in Palestina non v'erano affatto
spazi incontaminati e valli disabitate. Come afferma Morris:
Come avrebbe potuto
il sionismo trasformare la Palestina in uno Stato «ebraico», se la
stragrande maggioranza della sua popolazione era araba?[29]
Gli
ebrei non si trasferivano in una terra disabitata, magari rimasta
tale dopo la loro partenza per l'esilio forzato in terre straniere,
ma in località abitate da generazioni e generazioni da autoctoni di
religione musulmana. Pertanto, per dare seguito alla loro idea
politica, foraggiata da inevitabili rimandi simbolici al loro passato
storico in quegli stessi luoghi, dietro all'immagine simbolica del
ritorno alla Terra promessa, i sionisti decisero di insediarsi
all'interno di un territorio non disponibile, di località già
occupate stanzialmente da una popolazione eterogenea. Come dare
corso, allora, a tale progettualità politica? Come fondare ex
novo uno Stato ebraico
che sostituisse lo stato vigente? Sin dagli inizi del movimento
sionista, pertanto, prese corpo l'idea di un'espulsione della locale
popolazione autoctona, araba, verso i paesi confinanti. Come scrive
al riguardo Morris: «La soluzione più ovvia consisteva
nell'emigrazione o «trasferimento» degli arabi. Questo poteva
essere effettuato con la forza, cioè con l'espulsione, poteva essere
organizzato su base volontaria, inducendo gli arabi ad andarsene
spontaneamente, oppure fondendo insieme i due metodi»[30].
Quel
che accadde, allora, non fu che gli ebrei tornarono pacificamente
nella terra di un tempo lontano, ma che occuparono un suolo già
abitato da altri, e che questi “altri” vennero in gran parte
allontanati, spontaneamente, sotto minaccia o forzatamente in un arco
di tempo relativamente breve, dagli anni '30 al 1948 circa. Infatti,
aggiunge ancora Morris: «Le diffuse ipotesi sulle possibilità di un
trasferimento negli anni Trenta e Quaranta avevano preparato e
condizionato cuori e menti alla sua attuazione nel corso del 1948,
per cui, quando questa avvenne, ci furono poche voci di protesta e di
dubbio; il trasferimento venne accettato come inevitabile e naturale
dalla massa della popolazione ebraica»[31]. Peraltro, l'opposizione
dei palestinesi a questa soluzione e il contemporaneo tentativo
panarabo di attaccare Israele nel maggio del 1948, «contribuirono a
indurire i cuori degli ebrei nei confronti dei palestinesi arabi,
considerati nemici mortali che, se fossero stati ammessi nello Stato
israeliano, sarebbero stati una potenziale quinta colonna»[32].
La cifra più
accreditata circa l'esilio degli arabi palestinesi a causa del
ritorno degli ebrei in Patria si attesta intorno al Milione di
profughi, arabi che da tempo immemorabile dimoravano in quei
territori, in quelle valli, in quelle pianure, e che in brevissimo
tempo si trovarono espulsi dalle loro case, dai loro campi, dai
villaggi natii.
Forse per un moto di
orgoglio identitario, lo stesso Morris conclude il suo volume con le
seguenti parole, che suonano, forse, più come auto-assoluzione degli
israeliani nei confronti delle loro colpe nella gestione degli arabi
palestinesi residenti in Palestina già prima del ritorno degli
ebrei:
La prima guerra
arabo-israeliana, quella del 1948, fu sferrata dai palestinesi arabi,
i quali respinsero la risoluzione delle Nazioni Unite per la
spartizione e si impegnarono a impedire la nascita di Israele con la
forza. Fu quella guerra, e non un disegno ebraico o arabo, a far
sorgere il problema dei profughu palestinesi. Ma il trasferimento
degli arabi dalla Palestina o dalle zone della Palestina che
avrebbero costituito lo Stato di Israele era parte integrante
dell'ideologia sionista e della prassi del sionismo, fin dall'inizio
della sua attività […] prima della guerra non esisteva alcun piano
sionista di espellere «gli arabi» dalla Palestina o dalle zone
dell'emergente Stato di Israele[33]
Morris è piuttosto
onesto nell'ammettere che l'espulsione degli arabi dalla Palestina
era una conseguenza necessaria, ed abbastanza automatica, del
progetto sionista di ricostituzione del fu Stato ebraico, dopo secoli
di assenza. É piuttosto indulgente, invece, quando deve affrontare
il nodo della questione arabo – palestinese: di chi la colpa di un
milione di profughi? Gli ebrei non tornarono semplicemente in una
terra loro disponibile, ma la sottrassero, più o meno violentemente,
ad una popolazione autoctona che vi dimorava sopra da tempo
immemorabile. Dire che l'espulsione fu un “caso” involuto del
ritorno ebraico nella Terra promessa suona un po' ipocrita, ma è il
massimo che legittimamente si può chiedere ad uno storico ebreo.
Certo
fa un po' impressione valutare l'atteggiamento degli ebrei nei
confronti degli arabi di Palestina, prima e dopo il Secondo Conflitto
Mondiale. Anche perché, a ben vedere, la creazione ex
novo dello Stato di
Israele non può venir intesa quale una parziale, e tardiva,
riparazione al torto secolare fatto agli ebrei. Come ci ricorda,
infatti, Küng:
Lo
Stato di Israele non è affatto, come spesso pensano i non ebrei, il
risultato dell'Olocausto. Anche senza Hitler ci sarebbe stato uno
stato di Israele! Da secoli gli ebrei attendevano […] la
ricostituzione del regno di Israele […] il sionismo è un movimento
politico – sociale che vuole promuovere l'istituzione di uno stato
ebraico (non importa se in Palestina o altrove) «dal basso», quindi
mediante iniziative e azioni umane […] Il sionismo politico non è,
quindi, soltanto una reazione all'antisemitismo razzista. Esso è
piuttosto da vedere in connessione con l'illuminismo ebraico […]
del secolo XVIII, ma anche con le idee nazionalistiche romantiche e
con l'avvento del nazionalismo tra i popoli europei del secolo
XIX[34]
Se
la nascita dello Stato d'Israele viene distinta dalla Shoah,
viene meno un certo alibi, dalle dimensioni molto estese, che poteva
coprire molte delle azioni israeliane in Medio – Oriente. Ma ciò
consente anche di evitare le strettoie, quasi inevitabili, del
dualismo manicheo di cui sopra: si può criticare l'azione dello
Stato ebraico senza per questo essere antisionista, o, peggio,
razzista.
5.
Conclusioni
Sicuramente, gli
ebrei sono state le vittime sacrificali di un orgoglio occidentale, e
non solo, che difficilmente poteva tollerare la loro differenza
culturale così gelosamente custodita e tramandata, le vittime da
maltrattare, uccidere, eliminare lungo i secoli della sanguinosa
storia umana. E sicuramente hanno anche patito una sorta di
distruzione su scala industriale, durante l'ultimo conflitto
mondiale, che non ha certo precedenti storici. Ma non è affatto
vero, oggi che son passati sessant'anni da allora, che per
sopravvivere l'ebraismo abbia bisogno di uno Stato nazionale né
tanto meno che questo Stato debba avere un'identità peculiarmente
ebraica.
Voglio dire: perché
deve trattarsi di Stato che si fondi sulla distinzione tra 'ebreo' e
'non ebreo'? Perché non pensare piuttosto ad uno stato multietnico?
D'altra parte,
decostruita, per così dire, la pretesa sionista di riparare ai torti
secolari del passato con la costruzione di uno Stato ebraico, perché
continuare a pensare a due popoli per uno stesso (piccolo) spazio
territoriale? Perché non pensare invece ad un unico stato per due
popoli? Perché non disinnescare uno dei principali motivi di
rivalsa, e di vendetta, di una onnivaga identità panaraba che si
costituisce proprio per differenza e in negativo?
Quando gli
israeliani saranno capaci di tanto allora renderanno onore ai loro
stessi caduti e al buon nome che portano, come coloro i quali sono
stati eletti all'Allenza, ponte storico tra cielo e terra,
radice che porta buoni frutti, per sé stessi e per i gentili.
La chiusura
all'interno del proprio spazio concettuale, staccato dal resto del
mondo, non rende giustizia all'aspirazione universalista che da
sempre attraversa la coscienza ebraica nel dissidio fondamentale di
essere parte del mondo ma diversi dal mondo stesso. Come siamo
lontani, infatti, dal tono universalistico di Rosenzweig per il quale
esprime parole puntuali la Kajon:
il particolare e
l'universale, nell'orientamento di Rosenzweig, non possono essere
disgiunti: ciascuna esistenza individuale, collocata ad un certo
punto dello spazio e del tempo e avente certi caratteri, può
raggiungere, attraverso l'affetto puro dell'amore, la verità nel
momento in cui incontra l'altro essere umano, e testimoniare tale
verità nel mondo nel modo che è a essa peculiare[35]
Questo accade, da un
punto squisitamente filosofico, perché Rosenzweig ben interpreta
quel retroterra culturale ebraico del quale egli stesso è
espressione, e secondo il quale ben accetto al Signore è colui che
mostra fraternità nei confronti del povero, della vedova,
dell'orfano. Una strutturazione ben precisa dell'alterità
la quale abbraccia qualsiasi essere umano sia il nostro prossimo.
Una curvatura
universalista che ben si attaglia con il kantismo che molti scorgono
nella riflessione lévinasiana sull'etica: un modo per trasformare
l'ontologia (imperialista) in etica, in rispetto per l'altro in
quanto altro, per rispettarlo e conservarlo nella sua ipseità,
nella sua diversità costitutiva e trascendente rispetto a me che lo
penso[36]. Non a caso, forse, Lévinas trae origine nella sua
originale speculazione proprio dalla triste esperienza diretta della
Shoah e, di conseguenza, mira a disarmare qualsiasi filosofia
futura che intenda render nuovamente possibile un progetto di morte
come quello nazista.
Non è forse anche
questo render giustizia ai sei milioni di ebrei passati per i campi
nazisti? Non è forse anche questo un render giustizia a quella vita
cui comunque s'indirizzano tutti i nostri passi, come asserisce anche
Rosenzweig?[37]
(immagine tratta da: http://img4.libreriauniversitaria.it/BIT/240/239/9788834312391.jpg)
NOTE
[*]
Cfr. W. Barberis, Postfazione,
a: P. Levi, I sommersi e i salvati,
Einaudi, Torino, 2007, p. 172.
[1]
Cfr. E. L. Fackenheim, Olocausto, Morcelliana, Brescia, 2011,
p. 17.
[2]
Ibidem.
[3]
Supra.
[4]
Ibidem.
[5]
Supra.
[6]
Ibidem.
[7]
Ivi, p. 19.
[8]
Ivi, pp. 21 – 2.
[9]
Ivi, p. 22.
[10]
Ibidem.
[11]
Ivi, p. 25.
[12]
Ivi, p. 26.
[13]
Ivi, p. 27.
[14]
Ibidem.
[15]
Ivi, p. 29.
[16]
Ivi, p. 34.
[17]
Ivi, pp. 35 – 6.
[18]
Ivi, p. 36.
[19]
Cfr. M. Dal Maso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero
ebraico di fronte alla Shoah,
Messaggero di Sant'Antonio, Padova, 2007, p. 21 e sgg.
[20]
Cfr. I. Adinolfi,
Introduzione, a: I.
Adinolfi (a cura di), Dopo
la Shoah. Un nuovo inizio per il pensiero,
Carocci, Roma, 2011, p. 11.
[21]
Cfr. M. Giuliani,
Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie
dell'Olocausto»,
Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 20 – 1: «Raccontare è comunicare
un senso. È più che scommettere che la propria parola arrivi
sensata e credibile all'altro: è un vero e proprio atto di fede.
Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrabile sia
sensato e credibile. Se Auschwitz è il regno del non – senso […]
ci troviamo dinanzi all'impossibilità strutturale di trovare un
linguaggio che risponda ai caratteri propri di ogni linguaggio umano.
Siamo condannati al non-linguaggio, al silenzio perpetuo. La cifra
del silenzio perpetuo è la stessa cifra del non-senso: è la morte.
Chi può negare che qui stia la radice di ogni scacco alla ragione e
alla parola? Poiché Auschwitz fu la più grande «festa della morte»
che l'uomo abbia allestito per l'uomo nel corso della storia (in così
pochi anni!), questo luogo assurge […] a cifra del silenzio
perpetuo. Nessuno simbolo ha diritto a rappresentarlo – cioè,
nessun simbolo del senso. Dare un senso ad Auschwitz è idolatria, è
blasfemia […] Auschwitz è e deve restare la cifra della negazione
di ogni senso – umano o divino che sia».
[22]
Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce
ebraica, Il Melangolo, Genova,
200413,
p. p. 20 e sgg.
[23] Cfr. P. Levi, Se questo è
un uomo, Einaudi, Torino, 2005, p. 7.
[24]
Cfr. F. Minazzi, Filosofia della Shoah. Pensare Auschwitz:
per un'analitica dell'annientamento nazista,
Giuntina, Firenze, 2006, p. 29.
[25]
Cfr. E. L. Fackenheim, op. cit.,
p. 36.
[26]
Cfr. B. Morris, Esilio. Israele e l'esodo palestinese,
Rizzoli, Milano, 2005, p. 82: «le
notizie sull'Olocausto in corso che arrivarono gradualmente
dall'Europa occupata dai nazisti durante la seconda metà del
conflitto provocarono di certo crisi di coscienza fra i politici e i
funzionari occidentali e sottolinearono l'urgenza di una soluzione
del problema ebraico in Europa con la costituzione di un rifugio
sicuro in Palestina».
[27]
Ivi, p. 37.
[28]
Ibidem.
[29]
Ivi, pp. 67 – 8.
[30]
Ibidem.
[31]
Ivi, pp. 89 – 90.
[32]
Ivi, p. 90.
[33]
Ivi, p. 509.
[34]
Cfr. H. Küng,
Ebraismo,
Rizzoli, Milano, 20125,
p. 320.
[35]
Cfr. I. Kajon, Il
pensiero ebraico nel Novecento,
Donzelli, Roma, 2002, p. 72.
[36]
Cfr. E. Lèvinas, Totalità
e Infinito. Saggio sull'esteriorità,
Jaca Book, Milano, 1998, p. 44 e sgg.
[37]
Cfr. F. Rosenzweig, La
Stella della Redenzione,
Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 435: «Ad
ogni istante essa osa dire 'è vero!' alla verità. Camminare in
semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta,
sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di
Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l'esterno.
Ma verso che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo
sai? Verso la vita».
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