"[…]
per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica
qualcosa [échonta
lógon].
Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare
una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto,
appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad
una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di
confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo:
che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione
di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si
tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di
partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che
l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che
dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e
questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non
facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con
sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo,
allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci
sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di
principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la
dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento,
egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo,
ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla
dimostrazione"
(Aristotele, Metafisica 1005b 11 - 15)
Quanta storia c'è in queste stringate parole?
Quanta verità si raccoglie entro ciascun rigo?
Quanto respiro si nasconde dietro ogni parola?
Quanti sospiri ci celano all'ombra di una prosa contratta?
Quanti luoghi polemici sono appena indicati allusivamente?
E dove cadono queste nostre domande?
Aristotele delinea il quadro d'insieme della sua confutazione del negatore del principio di non contraddizione ma, per ragioni più che ovvie, non può soffermarsi più di tanto sulla dimostrazione di quest'ultimo.
Per pudore, preferisce tacere sul render conto della richiesta dell'avversario e far ricadere su quest'ultimo tutto l'onere della prova!
E d'altra parte, come avrebbe potuto far diversamente? Pena l'auto-contraddizione, non si dà dimostrazione del principio alla base di qualsiasi dimostrazione ...
Aristotele evita appunto la circolarità ricorrendo alla polarità del gioco dialettico e rendendo responsabile dell'errore proprio l'avversario che chiede conto del principio.
Una soluzione forse capziosa, a dir poco "bizantina", ma efficace: dì almeno qualcosa di determinato, mio caro sofista, se riesci (senza adoperare quel che vorresti negare)!
E questo proprio perché adopera quel che vuol negare, il sofista riesce a negare il principio medesimo. Ma questo è già un dire qualcosa di determinato, appunto che cade sotto il principio stesso. Allora, come fai a negare ed affermare assieme? Solo per ignoranza, puoi far ciò, dice Aristotele, dal momento che già per dire qualcosa bisogna utilizzare quel che si vorrebbe negare ...
Non convince del tutto? Eppure la contesa dialettica inchioda entrambe le parti:
1. l'assertore del principio, dal momento che non può né farne a meno né dimostrarlo direttamente, pena l'auto-contraddizione (o, il che è lo stesso, la circolarità);
2. il negatore del principio, dal momento che non può né farne a meno, pur volendolo negare, né richiederne dimostrazione diretta, pena l'auto-contraddizione.
L'unico ad uscirne però con le ossa davvero rotte è il (2): in ogni caso, colui sul quale ricade la responsabilità della petitio principii. Paradossalmente, deve poter utilizzare quanto vorrebbe negare ..
E così si conclude la nostra storia, folks! Aristotele wins, il sofista perde.
(immagine tratta da: http://t3.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ78YKfgFvTOw_x8hCpWmwLJXrPXB_KCdpl14yG8BnoGrYGSTky)