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D. Di Cesare – C. Ocone – S.
Regazzoni, Il nuovo realismo è un populismo,
Il Melangolo, Genova, 2013, pp. 110, € 12,00
Il volume
collettaneo che intendo recensire ha solleticato non poco alcune mie
corde umorali, costingendomi a passare repentinamente per stati
emotivi del tutto opposti, dallo “sedgno” al “risentimento”,
dalla “sorpresa” alla “noia”. In modo particolare, e per i
motivi che diverranno chiari in seguito, esso presenta una globale
mancanza di argomenti degni di questo nome a sostegno delle idee che
vengono addotte e uno stile comunicativo a dir poco aggressivo, più
consono, forse, agli sfoghi “da blog” che ad una pubblicazione
che desidera quantomeno il riconoscimento all'attendibilità
scientifica. Ma lo si può benissimo considerare un segno dei
tempi nel senso che è proprio questo grado basso di speculazione e
di comunicazione che incontriamo quasi sempre nella nostra vita
quotidiana. Pertanto, mettiamo da parte queste considerazione, e
concentriamo l'attenzione solamente su quel che di buono penso sia
possibile trovarvi, anche se ciò non comporta il dover sospendere
(quasi) del tutto la buona coscienza critica.
Il presente volume intende presentarsi come “contro-altare” al Manifesto di Maurizio Ferraris, discutendo il “basso” profilo filosofico scelto ed indicando alcune delle gravi conseguenze, etiche e politiche, che fanno seguito all'appello alla realtà. L'intento è chiaro sin dalle prime pagine ove Di Cesare accusa direttamente Ferraris di essersi creato un brand, ossia un “marchio” (p. 9), di aver inventato di sana pianta, e a tavolino, l'operazione “nuovo realismo” al fine, molto probabilmente, di “emergere nel panorama complessivo e frastalgiato della filosofia contemporanea” (p. 9). Se comprendo il senso generale dell'accusa, del tutto incomprensibile mi risulta invece lo specifico dell'accusa: Ferraris può benissimo essersi inventato qualcosa nota come “nuovo realismo” ma stento a credere che debba ancora emergere al di sopra del dibattito filosofico coevo. Non contenta, la Di Cesare indica subito una caratteristica dell'etichetta scelta dal Ferraris, “un prodotto tutto nostrano” (p. 9), ossia la proprietà italiota della provincialità. Da nessun'altra parte del mondo si parla di new realism, solo da noi. La Di Cesare insinua sapientemente il dubbio: se altrove si parla d'altro, di tutto tranne che di “nuovo realismo”, sarà forse un caso? Non è che, piuttosto, il nuovo realismo è ben poca cosa? Peraltro, il fatto che non si facciano conferenze o non si disponga di monografie sull'argomento non è forse indice di scarsa influenza sul dibattito filosofico? Se così stanno le cose, come spiegarsi proprio tale marginalità alle discussioni tra philosophes? Il Nuovo realismo va “preso sul serio – non come filosofia, bensì come antifilosofia” (p. 13), come uno strumento che avvicina grossolanamente, quanto malamente, il vasto pubblico alla filosofia ma che evita accuratamente di scendere in profondità. Il suo pubblico è fatto di gente che ha “difficoltà con i testi dei filosofi” (p. 13) al quale offre “poche pagine, pochi pensieri” (p. 13) ma anche grandi “certezze” (p. 13). Cosa offre, dunque, Ferraris al grande pubblico, digiuno e allergico all'astrattezza filosofica? Per Di Cesare “a poco prezzo, realtà e verità” (p. 13). Detto altrimenti, non richiede chissà che sforzi e ricompensa con il richiamo a due sole certezze, sempre promesse mai mantenute, si premura di precisare per inciso l'autrice presente. Questo perché il nuovo realista “non dialoga con il pubblico dei suoi lettori, trattati piuttosto come spettatori il cui ruolo è limitato al plauso” (p. 14). in un mondo sempre più “liquido” ed ansiogeno, il nuovo realista, alla stregua di un qualunque altro populista, strappa applausi da un pubblico poco esigente e superficiale cui importano esclusivamente appigli saldi e certezze. Così Ferraris urla a squarciagola “Bentornata realtà!” così che “l'intento populistico è raggiunto, il plauso assicurato” (p. 14). A fronte delle inquietudine che si sommano ed aumentano esponenzialmente, il nuovo realismo “intercetta il bisogno di certezze” (p. 14), e piuttosto di sottoporre a critica le (presunte) verità dell'esperienza personale, difende queste ultime nascondendole di per sé sotto la coltre impenetrabile della realtà di per sé non disponibile ad alcuna discussione e/o analisi. Ferraris impone unoa sostanziale “sudditanza alla realtà” (p. 20), mostrando il suo volto reazionario: non distinguere “tra illusione e immaginazione” (p. 21). D'altra parte, “cerca di inchiodare l'avversario al fatto” (p. 23), “mitizza il reale” (p. 23), facendone un idolo e “dietro questa idolatria si trincera facendone il suo baluardo” (p. 23). negando del tutto qualsiasi possibilità al dialogo, all'interlocuzione, al dibattito, alla discussione, Ferraris “non ha nulla di filosofico” (p. 24). A questo punto, Di Cesare strizza l'occhio agli insoddisfatti dall'operazione di Ferraris, comprendendo “l'imbarazzo, l'insofferenza e il malumore suscitati tra quanti hanno preferito non rispondere, nella speranza e nell'attesa che la fiction volga al termine” (p. 24). Quali sono allora le conseguenze pratiche del nuovo realismo? La risposta è agile e succinta: le sue fantasticherie sviano “dai temi urgenti” (p. 24), “distraggono dalle grandi questioni filoosofiche, etiche, politiche” (p. 24). E tuttavia questa obiezione mi pare facilmente ribaltabile: se il nuovo realismo è tutto ciò ed ha queste conseguenze, non sarebbe meglio non parlarne affatto? Invece, ci troviamo innanzi ad un volume intero il quale, per di più, dovendo condensare molti spunti non consente di svolgere in maniera più piana le stesse idee che intende esprimere.
Il secondo saggio, a firma di Fabio Milazzo, è, credo, l'esempio più sorprendente ed insieme sconcertante del presente volume. Dopo una rapida difesa delle esigenze genealogiche del postmodernismo, così vilipeso dal Manifesto di Ferraris, Milazzo sostiene come il fondatore del nuovo realismo parli lasciandosi sfuggire la concretezza dei temi e degli autori contro i quali polemizza, ora Lyotard ora Foucault. In realtà, infatti, il postmodernismo, che fa da sfondo polemico al Manifesto è una “maschera carnevalesca” (p. 29), “una sorta di bufala” (p. 29), peraltro costruita “a tavolino” (p. 29). Il tono di Milazzo è severo e non parco di giudizi taglienti. Resta da vedere, però, a mio sommesso parere, se proprio quel che si dice del Ferraris non possa dirsi di sé stessi. Non pago, aggiunge come “solo la reificazione del postmoderno in qualcosa di più che una semplice presa di distanza dalle esaltazioni del razionalismo moderno, fa sentire il bisogno di rinnovate e ingenue forme di doxa” (p. 30). Se Ferraris sostituisce al postmodernismo una sua fiction, non potrebbe forse dirsi altrettanto di questi contributi nei confronti stavolta del nuovo realismo? Par si faccia orecchie da mercanti. E qui veniamo ad uno dei riferimenti più sorprendenti e pure sconcertanti. L'appello all'esperienza viene inteso dai presenti autori come un arcaico appello alla scienza (come a vagheggiare un impossibile ritorno alla modernità). In forza di ciò, Milazzo espone la sua concezione di scienza: “accertamento protocollare dei dati di esperienza” (p. 31). Non ho riletto di recente Ferraris, ma non mi pare che questa sia la sua concezione di scienza. Che sia la concezione del Milazzo? Ad ogni buon conto, urge allontanare da sé subito questo pericolo, addebittando proprio questa “strana” concezione al “realismo ingenuo” (p. 31). Ed anche qui colgo dei problemi. Infatti, chi sarebbe tale realista ingenuo? Molto probabilmente, l'autore ha in mente Ferraris, ma l'attributo 'ingenuo' da dove deriva? In fondo, i vari autori del presente volume hanno tutti un elemento in comune: considerare 'ingenuo' il nuovo realismo. E così facendo, a mio sommesso parere, mancano del tutto l'obiettivo che sta a cuore del Ferraris. O, per dirla alla maniera cara ai postmodernisti stessi, tradiscono la verità del Manifesto. E tuttavia giudicare ingenuo il richiamo alla realtà fa buon gioco nel ridurre il realismo al mero riscontro con il reale, chiosando che “ci sono sicuramente fatti, ma ci sono soprattutto le interpretazioni” (p. 31), rigirando cioè a proprio piacimento, e spudoratamente, proprio la fallacia del sapere-potere denunciata dal Ferraris. E adesso, last but not least, Milazzo produce un altro dei riferimenti sorprendenti e pure sconcertanti dal momento che identifica nelle pagine del Manifesto, ossia nella visione propria del Ferraris, “il riconoscimento della verità nella forma unica della teoria della corrispondenza” (p. 31). Si tratta di un riferimento del tutto generico e vago: dire che una conoscenza è vera se, e solo se, procede ad adeguamento di pensiero e di realtà temo sia solamente una conoscenza inadeguata, ossia “per sentito dire”, del canone tomista, ignorando, molto probabilmente, l'intera discussione che ne è stata fatta nel corso del XX secolo. Peraltro, se davvero Ferraris aderisce alla teoria della verità per corrispondenza, penso non possa derivarsene la sua “ingenuità”. Vale a dire che la teoria di per sé non è ingenua. Tutto può dirsi, eccetto che sia ingenua. Allora, perché giudicare ingenuo il realismo se se ne vale? Delle due l'una: o Milazzo ignora la riflessione epistemologica sulle teorie della verità oppure non la padroneggia adeguatamente. Ad ogni buon conto, però, è una grave mancanza che danneggia in maniera permanente il suo discorso, legato proprio al carattere deteriore del new realism, ossia la superficialità che può produrre solo conoscenze ingenue. Sempre Milazzo decostruisce poi l'esempio della ciabbatta, addotto dal Ferraris per spiegare la sua nozione di inemendabilità del reale per ricostruire due dei caratteri che ritiene di poter desumere dalla visione di Ferraris: 1) attenzione per il mondo esterno, indipendentemente dagli schemi conoscitivi del soggetto conoscente; e, 2) la coincidenza tra realismo ed ontologia. Ecco che incontriamo un'altro dei riferimenti sorprendenti e sconcertanti che affollano in maniera imbarazzante questo testo. Si dice succintamente che il realismo di Ferraris equivale ad un'ontologia. Benissimo: quale esattamente? Milazzo non appare in grado di dirlo, propendendo per una sua sola versione, non a caso, però, considerata esemplare della disciplina in generale. L'autore sostiene, così, che l'ontologia consista nel predisporre “un catalogo universale di tutti gli enti esistenti” (p. 32). A parte il fatto che questa è l'idea di lavoro, e non ancora una teoria, dell'ontologia cd. Formale, a sua volta una parte piccola della metafisica cd. analitica, non mi pare che Ferraris sostenga una cosa del genere. D'altra parte, dire 'realtà' non significa affatto repertare gli enti esistenti. Ma, come accade spesso nella lettura del presente volume, gli autori sentono subito l'imbarazzo del riferimento incauto (Ferraris dice questo?) o poco preciso (cosa sarebbe di grazia questa ontologia?) e scaricano sull'idolo polemico ogni responsabilità teoretica. Infatti, Milazzo ci dice subito come questa sia l'idea “di ontologia cara al Manifesto” (p. 32). E perché? Perché l'autore intende ribaltare la distinzione realista tra fatti e intepretazioni, e mostrare come queste ultime, sia pure messe alla porta, rientrino di straforo dalla finestra. Infatti, si distingue, e, quindi, s'include o si esclude, tra enti solo dopo aver proceduto ad interpretare la conoscenza conseguita. Questo basterebbe di per sé a screditare il discorso realista, ma a Milazzo non basta. Pertanto, egli si prodiga nel mostrare come dietro ad ogni nostra conoscenza vi sia un apparato potente di valutazione che partecipa attivamente al medesimo processo conoscitivo. Ragion per cui, dove sta più la conoscenza neutrale? E, di conseguenza, chi può più dire che una cosa siano i fatti ed un'altra le interpretazioni? Ma l'autore non diceva prima che vi sono i fatti e vi sono pure, e in maniera più importante, le interpretazioni? Evidentemente preso dalla vis polemica, deve non essersi accorto della ridondanza espositiva. Più che un ritorno alla realtà, Milazzo propone un ben più originale, e non ingenuo, ritorno a Nietzsche. Così, il mondo non va assunto com'è, ma bisogna indagnarne piuttosto “le condizioni di esistenza, le esigenze inconsce a cui rispondono” (p. 39). Più che di verità cosale, Milazzo ritiene che i fatti siano tali “alla luce di una certa interpretazione prospettica” (p. 39). La ciabatta di Ferraris è solo un'oscena fantasia ingenua, effetto di “un'illusione costituente, di una retroprioezione paradossale, di una ricerca sempre fallita” (p. 40). In soldoni, una follia consistente “nella presunzione che questa immagine dogmatica sia quella della sostanza “ciabatta”, quella naturale” (p. 40). A questo punto, come nel caso precedente, l'autore conclude il suo saggio additando, a suo modesto modo di vedere, le conseguenze pratiche del new realism: “un delirio totalitario che si serve di una pericolosa alleanza, quella tra il senso comune e una presunta natura retta del pensiero” (p. 40). Se così è, per fare cosa? La visione di Milazzo è limpida e netta, quasi pre – moderna verrebbe da aggiungere: “per affermare una certa immagine del pensiero come principio assoluto” (p. 40). Ora che le pagine del Manifesto denotino una certa atmosfera eterea, una prosa rarefatta, un apparato documentario decisamente criptico è sicuramente vero, si tratta di un giudizio che sento di poter sottoscrivere, ma da qui a mettere capo ad una costruzione idealistica credo ce ne corra. Ma Milazzo ha l'urgenza retorica di concludere enfaticamente il suo contributo, equivocando in fondo tra 'evidenza' del reale con 'evidenzialismo', concezione di deciso sapore idealistico ma assente in Ferraris.
Il terzo autore del volume, Laura Cervellione, intende smascherare Ferraris, mostrando come sotto la maschera del neorealista si nasconda il “caro vecchio pragmatista” (p. 41). Anche nel caso presente si verifica lo spiacevole modo di procedere degli autori presenti: fornire un'immagine icastica della filosofia neorealista, e, segnatamente, del Ferraris dopo la Kehre. Così, dovendo condensare in uno slogan efficace, per strappare il plauso del vasto pubblico della filosofia pop, l'autrice definisce il neorealismo “una filosofia Polaroid” (p. 42). Detto in breve, Ferraris mette in scena una filosofia delle istantanee: questo è reale; quest'altro no! La pretesa è commovente, ma stucchevole. Per Cervellione, in sostanza, par di capire che il nuovo realismo sia solamente una filosofia vintage, che ripropone idee e concetti “vecchi”. Si sa, viviamo in tempi di crisi, riutilizzare potrebbe essere vantaggioso. Così, individua ben tre differenti ritorni al passato: 1) “il vecchio corrispondentismo di tomistica memoria” (p. 43); 2) “la riabilitazione dell'esperienza” (p. 43); e, dulcis in fundo, 3) Cartesio, e cartesianesimi di varia natura. Sul primo elemento, penso di aver già detto quanto v'era da dire, anche se la presenza di questo accenno, peraltro già operante in Milazzo, e ritornante in seguito negli altri contributi al volume, mi dà da pensare sulla facilità con la quale, in generale, tutti gli autori collettanei abbiano omologato il richiamo alla realtà, inteso anche come assunzione di responsabilità veridica per i propri pensieri, le proprie esperienze ed anche le proprie enunciazioni, all'adeguazione tomista. In che termini, poi, quest'ultima venga riportata esattamente, non è dato sapere. L'elemento (2), invece, è più interessante perché consente a Cervellione di cogliere una contraddizione in Ferraris: la correzione della percezione ha luogo se, e solo se, “sono inserite in un assetto teorico” (p. 43). Al riguardo, trovo la prospettiva di Ferraris molto debole, e facilmente criticabile. Tuttavia, mi pare del tutto arbitrario porre una tale inserzione, o rimando all'amato modello teorico, in forza della quale, appunto, riesce la confutazione di Ferraris, a causa della contraddizione in cui cadrebbe. Il Manifesto non presenta questo rimando ad un assetto teorico, caro ai postmodernisti, e che rende possibile tanto la decostruzione quanto la costruzione. Veniamo, ora, all'elemento (3), forse, a mio sommesso parere, il meno originale. Possiamo distinguere tra realtà e sogno? Questo si chiedevano gli animi barocchi del '600, e a questi orizzonti pre – moderni, appunto, l'autrice desidera inchiodare Ferraris, reo, a suo dire, di “andare a cercare certezze nelle nostre autoconoscenze” (p. 44), collocando proprio il fondamento saldo di ogni certezza nell'ontologia. Peccato, però, che Cervellione pensi più a ironizzare sul Ferraris che a porre a critica il rimando ontico di Ferraris. Certo per trovare la “realtà” non è certo sufficiente richiamare ad essa né tantomeno darle il “bentornato”. Come dice l'autrice, “a trovarla questa realtà” (p. 45). Se Ferraris non dice nulla, ma proprio nulla, su cosa dovrebbe appunto essere tale realtà, il suo richiamo, esattamente ciò in cui consiste il new realism, si trasforma in una banalità, in un truismo, ossia in un riferimento generico alla nostra comune realtà, senza alcun davvero impegno conoscitivo ulteriore. Peraltro, se così è, l'oggetto del nuovo realismo, la pretesa realtà, sarebbe un “atteggiamento, non realtà” (p. 45). Esattamente come nessuno può negare che la realtà esista, parimenti nessuno può limitarsi a questa semplice, e banale, verità. A questo punto, l'autrice intende rovesciare l'accusa che Ferraris muove al postmodernismo, e secondo la quale il “populismo”, anche quello che attanaglia i nostri destini nazionali, è il degno figlio del postmoderno, addossando infine al Ferraris stesso, in una nota figura dialettica del contraddire – confutare, con rovescio delle posizioni iniziali, la paternità di questo stato, ossia di giustificare appunto il populismo. Peraltro, ritengo sia vero che Ferraris ecceda nei suoi sconfinamenti in terra straniera, per cui, in certa qual misura, credo che Cervellione sia nel giusto quando afferma che il nuovo realismo sovrastimi “la potenza delle attività cerebrali” (p. 51), nel senso che davvero è difficile accettare l'idea che la mente possa produrre realtà e dominare per intero quest'ultima. Eccessi che, comunque, davvero è possibile riscontrare nella confraternita neorealista, che “non mira a capire la realtà, quanto piuttosto a trascinarla davanti al giudizio universale” (p. 52). In fondo, infatti, (auto)benedicendosi con l'adeguazione di cosa e intelletto, mostrarsi come la Ragione “è certamente più facile di dimostrare di avere ragione” (p. 53).
Il saggio di Ocone è, a mio modesto modo di vedere, quello più attrezzato da un punto di vista teorico. Già dall'incipit trova conferma una mia semplice opinione personale sgorgata dalla lettura del Manifesto: e “se il nuovo realismo non fosse altro che l'ultima e più compiuta forma di postmodernismo, o meglio di “pensiero debole”?” (p. 55). Questo è vero, e non negato nemmeno da Ferraris. Il punto, però, è un altro: voler confutare l'intento propositivo dell'autore del Manifesto al fine di far collassare l'intero progetto neorealista. Infatti, se il nuovo realismo è una variante del postmodernismo, con che coraggio si propone come alternativo a quest'ultimo? La stringatezza delle pagine in cui Ocone argomenta al riguardo, però, tradiscono subito l'interesse che suscitano. L'autore passa velocemente alla trattazione della sua idea fondamentale, ossia che Ferraris “manipoli” la storia della filosofia, ovviamente a suo uso e consumo, in maniera da far risultare alla fine vincente il suo “paradigma” (p. 56). Un tal modo di procedere, però, mi lascia perplesso, anche perché capisco le esigenze di spazio, ma un passaggio così brusco può solo far pensare ad un allusione che termina esattamente dove comincia. Ma non è certo possibile pretendere di avere ragione muovendosi solo con allusioni. Interessante, anche per comprendere il rimando all'adeguazione tomista tanto in Milazzo quanto in Cervellione è l'inizio della seconda sezione: “pur negandolo, il pensiero di Ferraris ha molti legami con certa filosofia medievale, in primo luogo con quella di Tommaso d'Aquino” (p. 57). Pur mantenendo salva la mia considerazione al riguardo, Ocone compie un passo in più rispetto ai colleghi collettanei che l'hanno preceduto dal momento che esplicita maggiormente questo richiamo. In che senso Ferraris sarebbe tomista? Nel senso che “ripristina non solo una rigida distinzione fra pensiero ed essere, ma anche e soprattutto quella logica tomistica che concepisce la verità come adaequatio rei et intellectus” (pp. 57 – 8). Tuttavia non posso che osservare come il paradigma, qui chiamato tomista, pur molto questionato in tempi non lontani, continui ad essere considerato come il “più robusto”, e a detta di un autrice, la D'Agostini, certamente estranea al progetto neorealistico. D'altra parte, richiamare alla responsabilità dell'impegno ontologico in nessun caso può venir considerato un ritorno al passato, un invito retrò oppure ancora una curiosità antiquaria e bizzarra. Intanto, però, questo rimando, o, se si preferisce, questa eredità del lessico filosofico occidentale, sembra disturbare parecchio i difensori collettanei del postmodernismo. A parte questo piccolo problema storiografico, comunque, è, a mio modo di vedere, apprezzabile il rilievo critico che Ocone solleva in merito al rimando ontologico di Ferraris. Infatti, “sull'idea che non possa esistere una realtà separata dal pensiero, e viceversa, si può anche essere in disaccordo […] tuttavia, glissare sul fatto che comunque vi sia un problema di pensabilità del presupposto oggettivante […] è veramente, in senso descrittivo e non vlautativo, non filosofico” (p. 59). In merito, Ocone ha pienamente ragione. D'altra parte, la natura non argomentativa del Manifesto non consente di giustificare appieno le proprie presupposizioni e teorie. Non basta rimandare alla realtà, intesa, e vissuta, come separata dal pensiero, bisogna anche porsi il problema di come giustificare la pensabilità della prima da parte della seconda, e proprio a causa della separazione dell'una e dell'altra. Non ponendosi la questione, Ferraris compie un atto non filosofico dal momento che esclude, peraltro arbitrariamente, dalla discussione alcuni elementi portanti del suo edificio speculativo. Ma la mancanza di tale approccio critico è fatale nel voler prendere sul serio l'impresa di Ferraris. Infatti, un realista che non riflette davvero sui limiti della propria azione è un realista solo di facciata, oppure un realista fantastico il quale si accontanta della realtà così com'è, o, meglio, che si diletta di subire la realtà come viene. Sintomo questo di una discutibile maniera in forza della quale Ferraris “piega” la storia della filosofia a suo piacimento. Cosa che rende non credibile la sua critica alle manipolazioni operate dai postmoderni dal momento che “anche quelle dei “nuovo realisti” sono a dir poco spregiudicate” (p. 64).
Lorenzo Magnani è il quinto autore del presente volume. La sua chiarezza espositiva oltre che il suo rigore analitico sono a dir poco apprezzabili. In modo particolare, è degna di nota la scoperta di una fallacia nascosta tra le righe del Manifesto, la cd. fallacia ad Hitlerum. Infatti, i neorealisti dicono “se non si sottoscrive la posizione del realismo ingenuo […], allora vinceranno sempre i Berlusconi, i Bush” (p. 71). Si tratta, a ben guardare, di una retorica “che designa una strategia comunicativa che mira a squalificare qualcosa (in questo caso il postmoderno) comparandolo ad Adolf Hitler (nel nostro caso al populismo e al declino dell'Occidente)” (p. 71). Sebbene, veemente a prima vista, è un'argomentazione in realtà “frolla, astratta e velleitaria” (p. 71). Per Magnani, infatti, la prospettiva neorealista provoca scetticismo dal momento che del tutto pretestuosa appare la polemica con il postmodernismo rispetto al quale, al contrario, tutti noi dovremmo essere grati per aver reso disponibili all'analisi filosofica “molti aspetti della realtà umana” (p. 67). Benché l'autore ritenga comunque sia pur minimamente utile il discorso neorealistico al mulino della filosofia, tuttavia “molti suoi obiettivi sembrano mancati” (p. 77). Anzi, proprio attraverso la querelle postmodernismo – neorealismo “non si intacca minimamente il populismo, e la filosofia rischia veramente alla fin fine di essere caricaturizzata e/o banalmente ostracizzata” (pp. 78 – 9).
Simone Regazzoni è l'ultimo autore del presente volume collettaneo. L'ex sodale del collettivo Blitris, si propone di decostruire il nuovo realismo. I suoi elementi fondamentali sarebbero solamente due: a) il ritorno di “una certa idea di realtà” (p. 83), peraltro nemmeno nuovissima o originale; e, b) la ripresa del paradigma corrispondentista di verità. Elementi “sapientemente incorniciati in una potente operazione mediatica ed editoriale” (p. 83). Sull'elemento (b) faccio presenti le mie perplessità, peraltro già debitamente esposte. Invece, sulla potenza mediatica dell'operazione sento di non poter che concordare: cosa sarebbe stato altrimenti il nuovo realismo? Solo a queste condizioni, può presentarsi come ingenuo, e, quindi, godere dei favori del grosso pubblico. Ma a causa della sua vena profondamente anti-filosofica, esso “è un'ontologia che sogna di cancellarsi come discorso teorico e filosofico per diventare, magicamente, “ciò che c'è”: la realtà stessa, senza discorso” (p. 84). In questo modo, Regazzoni affonda il colpo finale sostenendo che si tratta di un movimento certamente interessante ma non per le tesi che sostitene, quanto, piuttosto, per il “modo in cui è stato sapientemente incorniciato in una potente narrazione mediatica ed editoriale” (p. 85). Un giudizio severo e, sotto molti aspetti, liquidatorio. In effetti il nuovo realismo è anche questo, tra le altre cose. Ma Regazzoni si riserva ancora un'ulteriore stoccata, degna figlia di questo colpo da maestro: “il primo caso di mockumentary filosofico […] che si presenta come una fotografia di un ritorno della realtà che in verità produce” (p. 86). Essendo ben poca cosa, sia da un punto di vista teorico che storico, il nuovo realismo può esistere solo nella misura in cui racconta “un sacco di storie” (p. 88) e il suo mentore si professa “in missione per conto di Dio” (p. 90). Secondo Regazzoni, quel che emerge soprattutto nel new realism è “l'ossessione per la realtà” (p. 89), “una questione di fede” (p. 89), di cui Ferraris si fa carico “per il bene di tutti” (p. 89). Se così stanno le cose, come mai tanta visibilità? Per Regazzoni le cose sono semplici nella loro naturalità: il successo mediatico si deve all'aver sapientemente intercettato un bisogno editoriale. Infatti, in fin dei conti, il nuovo realismo è “una filosofia giornalistica, una filosofia che incorpora il modello critico di un certo giornalismo di inchiesta che evoca in modo ingenuo i fatti e che negli ultimi anni, in Italia, è stato l'unico discorso […] a partire dal cui si è pensato di poter criticare il fenomeno del berlusconismo come discorso menzognero” (p. 92). Non grandi mete né alte vette, ma una misera “filosofia giornalistica cresciuta all'ombra del berlusconismo” (p. 93) del quale Ferraris ha assunto su di sé l'onere, oltre che l'onore, di tradurre filosoficamente l'opera del giornalista Travaglio.
Ammetto che le mie iniziali impressioni si sono evolute nel corso della lettura e via via che il presente lavoro di recensione progredisse. Tuttavia, resto comunque perplesso. Tra le molte obiezioni possibili, solo una resta in piedi in tutta la sua fermezza, oltre che radicalità: se il nuovo realismo è poca cosa, perché spendere così tanto in tempo e risorse per dirlo?
L'impressione è che, pur disprezzandolo, si avverta il bisogno comunque di porsi alla sua ombra, quantomeno per appagare il medesimo bisogno di visibilità che si denuncia. Non si tratta di mera critica di deprecabili tendenze ipocrite, ma riconoscere il legittimo bisogno di una sponda editoriale, oggi più che mai dato che con la crisi si è deciso di non investire più – non tantissimo, in verità – come si faceva prima sulla cultura.
Ma si richiedono adesso ben altro impegno e ben altro spessore per dire qualcosa di più importante, anche più del nuovo realismo.