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venerdì 29 giugno 2012

Fenomenologia dell'uomo (post)moderno ...


Il romanzo di Dostoevskij è, a mio sommesso parere, espressione dell’evoluzione prevedibile della cultura occidentale nel XX secolo. La cosa è, in sé, sorprendente se si pone mente alla data di pubblicazione, il 1864, ed anche se si considera l’estrema posizione periferica della geografia culturale russa nello stesso periodo di tempo. E tuttavia Dostoevskij mostra ancora una volta la sua posizione di centralità sulla scena culturale mondiale, a dispetto del contesto al cui interno operava. Ma non è forse indice della grandezza di un autore la capacità che le sue pagine possano elevarsi al di sopra delle miserie e delle ristrettezze che caratterizzano ciascuno di noi? L’universale non è, come piace credere, la negazione della singolarità, ma la massima garanzia che la singolarità ha fatto i conti con la generalità cui pur appartiene.


(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/41EzaoN-dUL._SL500_AA240_.jpg)


Dostoevskij coglie, con puntualità ed acume, il successivo sviluppo della cultura occidentale in quanto delinea la precisa figura del “piccolo borghese”, istruito, magari colto, ma affaccendato in miserie, tutto preso dal confronto, sovente impari, con i suoi pari, dedito ad una vita comunque “bassa”, sordida, che fa da contraltare alla sua visione “ottima” delle cose, alta, aulica, nobile: tanto più è a conoscenza della bellezza quanto più si mischia alla bruttezza materiale delle cose. Il protagonista, quanto più è memore della perfezione spirituale della cultura, di quel vasto e magnifico orizzonte che le lettere dischiudono, tanto più preferisce perdersi nell’abbruttimento dell’urgenza sensibile delle cose, nella bruta concretezza delle cose reali, fondersi in esse, come a fuggire la sua inettitudine. Di qui il tema, successivamente celebre, dell’«inetto», di quella figura curiosa, espressione di una condizione morale tutta occidentale quanto moderna, dell’uomo che possiede una conoscenza magari superiore a quella media ma che, pur tuttavia, non è in grado di condurre un’esistenza all’altezza, perdendosi e confondendosi con i mille rivoli, in genere davvero insignificanti, della vita quotidiana, con le sue routines e i suoi rituali, quasi a voler compiere la misteriosa liturgia della vita occidentale.

L’inetto è, forse, anche il prototipo dell’intellettuale moderno: tanto profonda la sua mente quanto indolente la sua volontà. Colui che è incapace a vivere, colui che difficilmente padroneggia il mestiere più duro e ostico che ci sia: vivere. In genere, l’inetto è colui che non vive, ma si lascia vivere, che non agisce, ma viene agito, che non sogna, ma è il sogno di qualcun altro. Un soggetto, cioè, che è incapace di tradurre in azioni concrete le sue mete ideali, i suoi progetti, i suoi pensieri e che, quasi sempre, delega agli altri le sue stesse scelte. Incapace di scegliere, accondiscende a che gli altri lo facciano per lui. In fondo, solo una volta sceglie: di non scegliere più. E così vede passare la sua vita come uno spettatore, una vita non vissuta, un groviglio caotico e complesso, pluricentrico, di corsi d’azione indipendenti da lui, eterogenei a sé, lontani dai suoi occhi e dal suo cuore. Un coacervo misto di pensieri senza pensatore, di sogni senza sognatore, di azioni senza agente, di oggetti affastellati qua e là senza un soggetto.


Dostoevskij narra di un inetto, ma narra anche di ciascuno di noi; in altri termini, egli descrive l’uomo di oggi, l’uomo al termine della modernità, quello che, debole davanti alla grandezza del passato, non riesce a fare nulla di sua libera iniziativa, che magari ha grandi idee, grandi progetti, ma che per nulla al mondo riuscirebbe a realizzarli, a mandarli ad effetto, che guarda, con disincanto, con perplessità le magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Quasi per uno scherzo del destino, l’autore parla a noi di noi, anticipa gran parte di quella diagnosi impietosa che possiamo leggere in Lyotard: che ne è dei grandi racconti? Delle grandi mitologie? Di quelle narrazioni capaci di smuovere le montagne? Di innalzare i cuori? Restano soli, sole, sulla pagina piena di qualche libro. Le esistenze singole, concrete, inette, traslocano da questo mondo a quell’altro, fuggendo la luce impietosa del disco solare, sottoterra, metafora viva delle bassezze dell’uomo moderno, così prossimo agli istinti bestiali, così vicino al “ventre profondo”, ai suoi umori, alle sue bizze, al suo capriccio, così alieno alle belle lettere, alle cose umane, per non dire delle divine.


E l’inetto narra, parla di sé, delle sue scelte, del suo mondo, e critica quanto lo circonda, quanto ammorba il suo delicato nasino. Chiuso nella sua affatto dorata torre d’avorio, si cimenta in un lungo monologo sul suo posto nel mondo e sulla sua malattia, quella del “secolo”, quella della modernità, quella che vede il malato come fuori posto, privo di quelle certezze e garanzie che, umanamente, desidera, che ardentemente vuole per sé, ma che nessuno, né tantomeno lui stesso, gli dà, può garantirgli. E pur avendo le idee chiare, mille moventi, mille pulsioni diverse allignano dentro di sé, mostrandosi fugacemente e senza che sia lui a volerlo, nelle pieghe di un pensiero, di un discorso, come illegali tra le parole, come note stonate in una sinfonia, come altrettanti rovesci di diritti messi avanti.


Vi leggiamo il resoconto di mezz’età, il bilancio di una vita regolata ma malata, di un impiegato «maligno», «villano»,  con la «bava alla bocca», «stupido», che alla prima occasione lascia il lavoro per fare la bella vita con una misera rendita. Ma quale bella vita? Un topo resta pur sempre un topo, lasciato il misero impiego da ufficio, ora dimora in un angolo della grande città, Pietroburgo, in una camera «misera», «brutta», con una serva, una «donna di campagna», «vecchia», «cattiva per stupidità», che puzza, schiavo di «meschini mezzi». Egli è sempre parco nei suoi giudizi, su di sé e, soprattutto, sugli altri. In fondo, l’inferno sono gli altri, fosse per noi staremmo benissimo soli sul cuore della terra, magari trafitti da un raggio di sole, ma felici nella nostra solitudine gratificante e bastevole. Ma dobbiamo pur sempre fare i conti con gli altri, misurarci con loro, scontare con loro i nostri sentimenti bassi e di acquisita consapevolezza dei nostri difetti, demeriti, limiti, miserie. Umane, ma, forse, anche troppo umane. Vorremmo un’esistenza libera dal lavoro, ma sovente viviamo per lavorare, e non più viceversa. Ma questa è la legge, neanche tanto segreta, del mondo, così vuole il mondo, così desidera la vita, così ci impongono gli altri. E allora non possiamo che ripagarli con la stessa moneta, con il disprezzo, con la critica, spesso gratuita quanto fatua, con il biasimo, con la chiacchiera, con la menzogna. In fondo, però, la verità la conosciamo, per quanti sforzi profondiamo nell’evitarla, nell’ignorarla, nel camuffarla di altro e con altro, rimane inemendabile nella sua alterità, nella sua eterogeneità: come in uno specchio vediamo riflessa la nostra anima. E Dostoevskij è maestro nello scandagliarla, nel non celare nulla di quel mostro incomprensibile che reca il nome di «uomo». L’umanità è proprio questo, svelare quanto v’è al fondo del cuore di ciascuno, non nascondere nulla di quel miserabile divino che è l’uomo, le ansie, le paure, le bassezze, le miserie, i desideri, di un’epoca, di una cultura, di un secolo, di un universo che, tra i tanti mondi possibili, ha scelto proprio l’attuale, senza però concedere nulla in termini di gratificazione, di certezza, di buoni sentimenti. E nello scandagliare quanto dimora nel profondo, Dostoevskij non esita a raccontare, con dovizia di particolari, la “malattia” dell’uomo moderno: il suo compiacersi della sua stessa esistenza patologica. È, in effetti, una delle tante tendenze dell’uomo di oggi quella di descrivere le sue nequizie, quasi compiacendosi di ciò proprio nell’istante in cui lo fa. E il desiderio stesso di scomparire, sé nella sua integrità, e totalità, prende ciascuna fibra del suo essere, estendendo sino al limite estremo la coperta della sua stessa soggettività, quasi a voler giungere al plesso agognato ove qualsiasi differenza tra essere e nulla sfuma, scompare, si annulla. Questo cupio dissolvi, che tanto caratterizza l’homo novus del (post)moderno assume le sembianze della contemplazione narcisistica di sé, che narra ad altri, ovviamente (auto)assolvendosi da qualsiasi colpa, omissione, mancanza, difetto, peccato, nequizia, nefandezza, falsità. E d’altra parte, questo stesso uomo vive come se Dio non fosse, a dimostrazione della verità così tanto dostoevskijana secondo la quale ex falso quodlibet sequitur¸ venendo a mancare Dio dall’orizzonte umano qualsiasi condotta diviene possibile. L’idea nietzscheana di una “morte di Dio” è anticipata da Dostoevskij: Dio è nulla per l’uomo proprio nel momento in cui l’uomo stesso si fa Dio, si eleva inopinatamente ad una considerazione superiore a quella che normalmente caratterizza l’uomo qualunque. O, almeno, questa sarebbe la sua pia illusione dal momento che uomo – massa rimane anch’egli, che irretito nelle miserie di una condizione umana fragile non può in alcun modo vivere da Signore, ma sempre, e solo, da schiavo. E nella perversa, quanto patologica, condizione che quotidianamente egli conduce, scopre, con Hegel, che quanti disprezza, servitori, schiavi, maggiordomi, in fondo sono migliori di lui, e, rendendosene conto, ancor più getta su di loro livore, odio, disprezzo, senza scontar loro alcun difetto. Si scopre schiavo proprio nel momento esatto in cui, al contrario, egli vorrebbe esser libero; si scopre peggiore nel momento in cui, al contrario, egli desidererebbe essere migliore. Gli schiavi diventano liberi esattamente quando i loro signori diventano schiavi. Ed è attraverso il “lavoro” che avviene questo scambio di ruoli, di identità, di esistenze, di status personali. Il protagonista se ne avvede ma cosa può farci ormai? Incapace com’è di sterzare nella sua grama esistenza, si aggrappa disperatamente a quello che è, a com’è vissuto sinora, lasciando che l’inerzia stessa lo vinca, e lo salvi. Meglio il male oggi, che l’incertezza domani.

Ed egli prova «godimento» nel descrivere la sua dissoluzione, violentando così la natura nobile delle lettere, delle narrazioni: trasfigurare vite private in esistenze mirabili; rarefare singolarità, per quanto uniche ed irripetibili, in modelli esemplari, al di là del tempo e dello spazio; nobilitare esperienze di vita in storie di vite. In ossequio al proprio vanagloriamo, l’homo novus dei nostri tempi, troppo vicini per non abbacinarci con la loro nefanda oscurità, cos’altro può fare se non descrivere le sue bassezze? D’altra parte, non vede la sua vita scivolare via lontano da sé come uomo che vive? Guardandola scorrere sullo schermo, anche deformante delle lettere, può forse sentirsi leggermente più bello, più virtuoso, più innocente di quanto, ovviamente, non sia. Nella finzione letteraria può sentirsi meno responsabile, più leggero, privo di quei gravami che non mollano quanti, nella realtà, si macchiano di colpe, di omissioni, di peccati, di vizi. Ma la sfera pubblica, del confronto di persone con le persone, è difficile già ai tempi di Dostoevskij; così, il suo protagonista, il suo “eroe”, se così può dirsi, soggiace all’inferno che si è creato, e da quel giaciglio infernale non riesce – non vuole più destarsi. E d’altra parte, cos’è l’uomo se non un «topo», un essere miserabile che bagorda con quanto la natura, più matrigna che madre, ci offre? E aderendo al piano della natura, egli non realizza forse tutti quegli ideali ottimistici ed illuministi di una vita secundum naturam? Non si può desiderare nulla di più bello senza farsi fango con il fango, miseria tra tante miserie, briciola di materia grigia tra materia bruta. Altrimenti, che razza d’ipocrisia si tenta di mandare ad effetto? Di spacciare per verità? Se l’uomo è cenere, perché attendere la dissoluzione materiale? Non è forse la scienza, e con essa la matematica, ad insegnarci che non v’è scampo? Se l’uomo può vantare le scimmie nella sua genealogia, perché non rassegnarci a questa nuova visione? Perché non prendere atto del proprio vero posto nella natura? Animale tra gli animali, materia tra materia. Non più nobile non più indegno. Ma ecco che il desiderio indocile nuovamente serpeggia: rassegnarsi? Mai! V’è un’attività che connota solo gli uomini, e che marca la differenza dai livelli “altri” del regno dei viventi: il pensiero. Quello stesso che ride delle conclusioni cui giunge, suo malgrado verrebbe da dire, l’uomo qualunque, l’uomo massa, l’uomo piccolo borghese, l’uomo malato, l’uomo inetto, di cui narra Dostoevskij, e come potrebbe far diversamente? Da sempre l’uomo ha aborrito il suo destino naturale, da sempre ha messo in campo rituali, più o meno flokloristici, di esorcizzazione del suo timore ancestrale, venir meno, scomparire per sempre, trapassare nel nulla che, osceno, si staglia sullo sfondo delle nostre esistenze. Ebbene, ridere è un esorcizzare, un allontanare, anche solo metaforicamente, quel che ci aspetta, il momento esatto in cui essere e nulla si fonderanno, e noi, come individualità irripetibili, diverremo come la materia dalla quale, con arroganza, abbiamo presunto di poterci allontanare, di poterci emancipare. Ma la morte è galandonna: dà a ciascuno come a tutti, senza alcuna distinzione di sorta. Polvere che torna alla polvere, pagando così il fio della colpa primigenia, volersi fare come Dio, sfuggire alla morte, alla dissoluzione, all’assenza, alla mancanza.


D’altra parte, per poter agire bisogna che non vi sia «nessun dubbio», ma la modernità non toglie i dubbi, al contrario ne crea di nuovi senza derogare ai precedenti. L’insicurezza serpeggia come una serpe che misteriosamente s’insinua nei cuori: se non ho certezze, se non ho fondamenta, tanto salde, cos’è la mia azione se non un biascicare parole insensate senza alcuna presa sulla realtà? Il secolo, la modernitas, non garantisce, ma solamente nega certezze, credenze secolari, usanze consolidate. È un secolo malato perché «negatore» e quanti, magari, ancora si cullano in (presunte) certezze, in valori tramandati, fanno (solo) «sogni dorati». E d’altra parte a chi fa piacere fare i conti con la realtà? A chi piace destarsi dai sogni beati di chi poco sa o, meglio, poco vuol sapere perché grave è la verità? Come un topo preferisce rifugiarsi sottoterra, là dove più gli conviene, là dov’è naturale la sua dimora, dove meglio s’acconcia con la sua natura. Vivere come una talpa, senza nulla vedere, nulla riuscire a distinguere, e da dove lasciarsi trasportare dai moti discontinui delle viscere della terra, dal “ventre profondo” che ci costituisce ed istituisce, proprio quando ci illudiamo di esser noi a scegliere, a condurre il gioco, i fili molteplici e sparsi di un “io” che di centrato non ha proprio nulla. Edipo per aver saputo chi era, si acceca, consegnato alla cecità come a condizione migliore della conoscenza, preferibile ignorare, non sapere, che scontare con la luce accecante la verità insopportabile. Un rifugio, un porto franco, un trucco per poter sopravvivere, per poter tirare avanti. E il protagonista questo fa: tirare avanti per come la vita stessa riesce a trascinarlo via con sé, corpo morto che non cade perché già adiacente al suolo della terra matrigna. Se in preda ai flutti di un rio destino, a che giova la predittività della scienza moderna? Quale quid è essa in grado di apportare ad esistenze sciatte e vergognose? Al bando, allora, il metodo, principale creatura della mentalità scientifica, e via anche alla logica, di essa superba espressione. La vita collide con la scienza, il divenire inconcusso delle cose contraddice la logica. Allora, o si aderisce alla vita, alla sua follia senza requie oppure si aderisce alla logica, alla sua sistematicità tranquilla. Pazienza che le cose non stiano esattamente in questo modo, che magari Dostoevskij pecchi di approssimazione, ma di quale modernità si sta parlando qui? Della modernità che si lega ad una scienza ad un’unica dimensione, quella che profetizza la superiorità del metodo, della predizione, della certezza mentre rende precaria la vita stessa, instabile l’esistenza concreta, in fondo l’unica che conti nella sua corporale unità inscindibile di materia e di spirito. Così, si descrive il rifiuto, magari ideologico, ma con i suoi perché, della scienza, del metodo, della tecnica, della logica, colpevole, quando i suoi risultati non coincidono con un l’ordine, con la ragione, con il “sistema”, di «deformare premeditamente la verità». E tuttavia questa, preme rilevarlo, è solo una deformazione della logica, astratto logicismo, «puro logicume», come anche Dostoevskij lo etichetta, lo perimetra, lo circoscrive all’interno della trama della sua stessa narrazione, fedelissima eppure proditoria. Per Eraclito la stragrande maggioranza degli uomini vanno dietro la falsità delle cose, dormono davanti allo spettacolo, meraviglioso quanto inquietante, della natura, incapaci di cogliere la legge segreta delle cose, quell’armonia che sta dietro l’apparente contraddizione di un fiume che scorre, di un tempo che vola via, di esistenze concrete come gioco contrapposto di interessi concorrenti. E della vita si colgono così solo le note negative, peccando due volte: in primo luogo, perché non si colgono le cose nella loro complessità contestuale in virtù della quale nulla è positivo o negativo di per sé; e, in secondo luogo, perché si comporta come colui che non vuol sapere. Cos’è, allora, mai l’uomo? I filosofi sono corsi a lungo dietro ad una definizione, la quale presenta sempre il proprio profilo peggiore, quell’astrattezza che tanto aborre, e che tanto critica, la Cavarero: l’universalità. Rispondere a tale domanda ci dice solo cosa sia l’uomo, non chi egli è. E tuttavia come tanti prima di noi, e non solo filosofi, anche poeti, aedi, narratori, non possiamo che rispondere in termini astratti, generali, frammentari, confusi, irrimediabilmente vaghi: l’«uomo è sciocco», rivela, nel suo lungo monologo, il protagonista del romanzo, l’autore stesso di tali memorie, che ancora rimangono sussurrate ma non rivelate. Siamo sciocchi, la sciocchezza è la nostra natura, la sciocchezza la nota costante dei nostri io, il filo conduttore dei molteplici fili dispersi che sono le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri moti, i nostri moventi … e da sciocchi agiamo, viviamo, omettiamo di fare. Uno sciocco commette solo errori, vuole in modo erroneo «per un modo erroneo di considerare i nostri vantaggi». Una banalità, a prima vista, un’enorme verità, riguardata bene. Non è secondo ragione che viviamo, e pazienza per la tiritera medievale sulla recto ratio, sull’uso accorto della stessa, e pazienza anche per la concezione aristotelica di uomo, animale razionale, metafora che edulcora le cose, che le deforma, le mistifica, ingannando gli ingenui, gli sciocchi, ossia tutti noi. La ragione «è una bella cosa» ma è troppo aliena da noi, troppo estranea dai bisogni concreti, immediati, materiali di essere incarnati in unità di corpo e spirito, di materia e pensiero, di angeli e di animali. E tutt’al più le è lontana anni luce la volontà, che è hic et nunc e che mal si lascia dirigere, guidare, aggiogare da una facoltà estranea, che, al massimo, può bastare solo a sé stessa. Essa, in fondo, «sa solamente quello che è riuscita a conoscere» ma la «natura umana» si realizza ora senza piani prefissati, senza direzioni programmate, istintivamente, immediatamente, con perché che esulano dalla conoscenza razionale, con finalità eterogenee alla ragione, «magari dice il falso, ma vive».


Ecco come Dostoevskij articola qua uno degli argomenti principali sul finire del XIX secolo contro lo strapotere della tecnica, della scienza, della ragione, considerate tutte espressione di una teoria che mortifica gli slanci vitali dell’esistenza. Quello stesso vitalismo che nel giro di pochi decenni avrebbe consegnato l’umanità intera al’abisso di due tremende guerre dalle proporzioni mai viste in precedenza, non disdegnando nemmeno di arricchire la faccia della terra, pur sempre matrigna arcigna, di varie tirannie, pur di riguadagnare l’unità perduta, le sicurezze affrante, le certezze ataviche, le concretezze rassicuranti, pur di acquistare la libertà in nome della stessa libertà, tutta moderna, dalla quale, invece, gli uomini cercavano, quasi disperatamente, di fuggire. Questa colossale fuga dalla libertà trova nel borghesuccio di Dostoevskij pieno prodromo, ancor insonne, ancor implicito, ancora in fieri, e non lascia, se non col senno di poi, trasparire l’evoluzione successiva di un tipo umano e della sua specie.


Ma la letteratura russa ci mostra a piene mani la consonanza di determinati temi, come la “fede”, la ricerca di un Dio che ama nascondersi, di un socialismo che dovrebbe avvicinare gli uomini nella lotta senza posa contro una matrigna che acidamente dispone poco per tutti, di un anelito finale alla libertà che è un po’ il sogno proibito dei russi e la promessa, annunciata e poi mancata, dell’intera modernità. Quel che l’autore del monologo presenta fa è tessere le lodi sperticate della libertà umana che si erge contro la tirannia della natura, della cultura, dei signori, di quanti, dall’alto della loro splendida condizione, si concedono il lusso di poter sindacare la vita altrui, di poter giudicare la “povera gente”, quanti si trascinano disordinatamente per le vie delle città, di quanti si lasciano travolgere dalle secche di città sporche, sudice, immorali, polverose. E allora poter cambiare lo status quo, l’insopportabile stato vigente, poter ri – plasmare, magari anche a proprio vantaggio, l’intera realtà diventa il sogno proibito dell’uomo moderno, la massima aspirazione del moderno Prometeo. Non basta il fuoco, ci vuole il nichilismo, fenomeno tutto russo che, forse, nulla a che spartire con lo spettro che si aggira per l’Europa in quegli stessi anni, con l’ospite inquietante di tanti giovani, secondo noti dotti nostrani. Annullare il corso degli eventi, fermare il corso inarrestabile del tempo, rendere nulle le posizioni di tutti, e ridiscutere tutto quanto, ridistribuendo ricchezze e corsi delle esistenze singole, magari secondo giustizia. L’umanismo dostoevskijano è anche questo: portare giustizia ove manca. Ma anche in questo punto, la ragione latita e il pensiero si scandalizza. La libertà non è mera positività, quello, almeno in parola, lo sarebbe solamente il Bene platonico, ma in questo caso tutto è ambivalente, profondamente quanto immancabilmente, doppio: tanto bene quanto male; tanta luce quanto tenebre; tanto angelico quanto demoniaco. Nel pensiero ebraico la libertà comporta la responsabilità, verso di sé come uomini e verso le generazioni posteriori in quanto futuro dell’umana specie. Valga come esempio la biologia di Jonas. Ma in Dostoevskij le cose non stanno così: il carattere delle conseguenze della libertà viene sistematicamente ignorato. Libertà va cercando il protagonista, importandogliene molto poco del male che, magari, involontariamente, inconsciamente direbbe Freud, provoca. Ma in fondo, se lui stesso ha già sofferto, perché dovrebbe preoccuparsi degli altri? S’è forse il mondo curato di lui? Dei suoi sogni traditi? Delle sue mire bloccate? Le ali gli sono state recise, perché avere a cuore il destino di altri? La libertà è totalitaria, vuole tutto, desidera tutto, e trasforma anche il tutto in niente. Così l’uomo senza Dio, direbbe Pascal, approda all’esito ultimo di Nietzsche: rivoltare l’essere, traducendolo in nulla. Ma l’uomo non è Dio, e il suo eclissarlo, come direbbe Buber, non apre la strada ad una nuova umanità, forte, padrona del suo destino, capace di tutto, ma allo spettro di uomo, all’uomo nichilista, all’uomo talpa, per il quale poco cale se il mondo resta com’è o muta.


Nevroticamente, allora, si arrampica sugli specchi, racconta, ma mente, su di sé, sugli altri, sul mondo. Come non potrebbe dato dove vive? In un buco, in una tana, sotto il livello più infimo delle esistenze moderne. E ci prova gusto. Infatti, «è meglio non far nulla!», meglio «l’inerzia cosciente», «evviva il sottosuolo!». Egli invidia gli altri, così tanto deformati nella sua visione da averli collocati nelle migliori delle esistenze possibili, soprattutto per contrasto con la sua, che non lo soddisfa appieno, da preferire l’esilio, l’autoconfinamento in un altrove ove continuare la propria meschinità, coltivando non una nuova umanità, ma le menzogne cui tanto è abituato. Tanto egli si annoia, non fa «mai nulla», e allora racconta con gusto le sue miserie. Termina qui il lungo preludio alle memorie vere e proprie, alle miserie davvero realizzate, alle colpe veramente raccolte.


Dopo essersela presa con il mondo intero, finalmente l’oscuro e grigio borghesuccio russo di fine XIX secolo comincia a narrare più in termini personali la sua esistenza concreta. Ma si può dire che il registro non cambia: solamente adesso quanto prima veniva attaccato in linea teorica trova critica in concreto. Così, scopriamo che il disprezzo, con un tocco di superiorità, ovviamente solo presunta, nei confronti degli altri, costringe il protagonista a condurre un’esistenza «disordinata e solitaria», ficcandosi sempre «nel mio angolo», in un cantuccio, dimentico di sé e degli altri. Lo squallore di tale vita è evidente sin dalle prime battute, ma quel che colpisce è sicuramente il rifiuto, non sappiamo se preconcetto o meno, degli altri. Semplicemente, il protagonista non considera i suoi simili degni di considerazione, ne disconosce l’autorità, la somiglianza, la personalità. Non vorremmo abusare qui di un certo registro psicologico ma sarebbe certamente interessante valutare questo comportamento sulla base della lezione di Palo Alto: cosa non è andato a buon fine nelle interazioni dinamiche che ciascuno di noi intrattiene con gli altri? Cosa ha determinato un così viscerale rifiuto degli altri? Questo totale rigetto dell’altrui posizione? Certo, magari, la colpa non è solamente di questo inetto, sarà anche degli altri, ma non solo di questi ultimi. E tuttavia, per via di una serie particolare, e qui ignota, di ingiunzioni paradossali, il protagonista biascica fiele pur non potendo, suo malgrado, fare a meno degli altri. Deve costruire, se così può dirsi, la sua identità “negativa” – non è in fin dei conti egli un nichilista? – sulla base dell’idolo polemico, costituito dagli altri, da quanti considera, o vorrebbe considerare, i peggiori, i nemici, i suoi traditori. Ma egli non ha riposto certo fiducia su di loro, eppure si sente tradito, osteggiato, vilipeso, calunniato. È solo nevrosi di un soggetto perso nella complessità della modernità? Potrebbe essere, anche, ma non ce la sentiamo di semplificare la faccenda sino a questo punto, non ce la sentiamo di ridurre ad uno solo la responsabilità – sempre che se ne possa parlare in tali termini – di un comportamento bislacco quanto bizzarro. D’altra parte, nessuno di noi vive solo, anche se lo vorrebbe, ciascuno di noi entra in una rete di relazioni, peraltro già esistente prima che noi si metta piede sulla scena di questo mondo, ragion per cui non si può che comunicare, e, comunicando, non ci si può esimere dallo stipulare “legami”, “connessioni”, con gli altri, per “normali” o “patologici” che questi stessi possano essere. Ebbene, il legame del protagonista con gli altri è malato, negativo, nevrotico, narcisistico, egoistico, fallocentrico direbbero i filosofi postmoderni, violento, arbitrario. La solitudine è solamente la componente emotiva di tale stato d’animo, di un’identità costruita per differenze, per contrasti, per opposizione, per scontro, sulla negazione stessa di un rapporto di parità tra interlocutori. E siccome un rapporto di tal genere non può certo appagare appieno, ecco che il protagonista, immerso in una perversa girandola di legami nevrotici, prova «una furiosa scontentezza», «disgusto». Ma piuttosto di modificare, per quanto possibile, la sua modalità di relazione, egli concentra sul suo aspetto le negatività che, invece, riversa all’esterno, quasi che fosse per colpa del suo aspetto che non va d’accordo con il mondo, ricacciando dentro di sé la percezione esatta che il problema risiede altrove, che il problema non è il suo fisico, così normale, così ordinario, così piatto, ma nella personalità costruita, mattone dopo mattone, sulla polemica interpersonale, sullo scontro, sulla negazione del valore positivo che gli altri possono avere, e svolgere, per noi. Allora, guardandosi allo specchio, egli non scorge ciò, o finge di non accorgersene, ma vede il suo volto «ributtante», «vile», «orribile». La severità con la quale giudica il suo aspetto è direttamente proporzionale all’asprezza del suo rapporto di legame, se non di dipendenza, con gli altri. Tanto più disprezza gli altri quanto più getta il medesimo disprezzo su di sé. Oppure, quanto più disprezza sé stesso tanto più cerca di convincersi che gli altri disprezzino lui. Ma, basterebbe appena un poco di buon senso, porsi una domanda facile facile per spezzare l’incanto di questo cerchio magico, circolo vizioso lo chiamerebbero i logici tanto disprezzati, questa: in fondo, perché gli altri dovrebbero avercela con lui? Ma per poter fare questo il soggetto dovrebbe avere la forza necessaria per ricostruirsi su altri presupposti, di mettersi in gioco, di porsi in discussione, di far venire giù il vecchio mondo al fine di lasciare lo spazio necessario al nuovo. Un soggetto meschino come il presente, però, non può, non ne ha le forze, le possibilità. E allora vive come ha sempre fatto, si lascia trasportare dall’inerzia della sua stessa esistenza, incarnata sì ma a quale prezzo!


Sentendosi debole, aspira alla forza, e con il disgusto nei confronti degli altri maschera la sua fragilità, la sua incapacità di amare, la sua immaturità di fondo. Pertanto, disprezza i romantici, il romanticismo, così poco virile, così querulo, e cerca il «litigio», lo scontro, anche fisico, con gli altri. Questo atteggiamento di carogna rimanda ancora una volta, quasi che ve ne fosse bisogno, a quanto detto sull’inetto: un’errata modalità di relazione umana disegna solo alcuni passi comunicativi possibili, in genere fisici o riproduttivi in parola di questi ultimi. Questo perché vorrebbe essere preso in considerazione, essere rispettato, essere riconosciuto come loro pari. Ma è esattamente quanto gli altri già fanno senza, però, che lui lo capisca, lo comprenda, lo riconosca a sua volta. E così il cane si morde la coda, e la pantomima va avanti, stancamente, per inerzia, sul moto delle cose. Ne deriva un atteggiamento paranoico consistente in pedinamenti, inseguimenti, spionaggi, attenzione alle chiacchiere. Il nemico va braccato e, alla prima occasione, affrontato. Ma una serie simile di comportamenti certo non passa inosservata, certo non viene percepita per com’è: disordinata; folle; paranoica; nevrotica; confusa. Allora, gli altri, pur non volendo, certamente confermano con il loro atteggiamento di evitamento, di diffidenza, proprio la patologia del soggetto in questione. E il circolo vizioso continua senza posa, lo strano anello che costituisce la dubbia personalità del protagonista continua a funzionare ad alto livello. L’inetto, incapace com’è di cogliere la profonda differenza delle cose, e delle persone, vive d’assoluti, o tutto o niente, o «eroe o fango», senza via di mezzo. E l’onore, non per forza quello reale, anche solo quello immaginato, è l’esatto contrario del disonore, del fango. E va difeso, anche a costo della propria vita. Ma quando i denari non sono sufficienti per il progetto di grandezza coltivato dentro di sé, ecco che i sogni s’infrangono come onde sugli scogli affioranti. L’ansia e la bile conducono, allora, il protagonista per i bassifondi di Pietroburgo, nel quartiere delle prostitute. Qui incontra una giovane prostituta, Liza, ancora inesperta, ancora piena di sogni e di speranze, e che la povertà costringe a tanta bassezza. Il loro dialogo è un perfetto esempio di incapacità di entrare davvero in relazione, e dove la noia e il disprezzo di sé portano avanti parole vuote, anche se il comportamento conseguente viene comunque realizzato. Poi la perfidia prende il sopravvento e il protagonista, da basso borghesuccio qual è, comincia a descriverle la sua pessima condizione, straniera in terra straniera, povera e bisognosa, non solo materialmente ma anche di affetti. Già, ma chi può volerla? Farle balenare il rimpianto per una vita che è diversa d quella sognata, e sperata, da bambina è il primo passo per renderla dipendente non dal suo amore, quello è una cosa molto diversa, ma dal suo disprezzo. In fin dei conti, meglio lui che gli altri, e nonostante tutto. E questo perché «era il gioco che mi attirava». Rotte le sue difese, la sua ritrosia, le sue convenienze, ora dipende dalla sua volontà, dalla sua perfidia, dalla sua cattiveria. Il secondo passo è farle credere che v’è un barlume di speranza se s’unisce a lui, che forse lui, nonostante tutto, potrebbe amarla, darle una nuova possibilità, liberarla dalla sua condizione servile. E lei, ancora ingenua, gli crede e cede. In questo modo, il protagonista, ancora una volta, nasconde il ribrezzo che giustamente prova nei propri confronti, per le sue bassezze, per i suoi comportamenti indelicati, cattivi, meschini. Al punto che il favore guadagnato trasfigura la situazione, una compravendita di prestazioni sessuali, con assenza di sentimenti, diviene una cosa nobile, un rapporto «dolce e pudico». Ma una voce, comunque, continua a parlare, pur senza venir quasi mai ascoltata, dentro il protagonista, instillando vergogna. E tuttavia un pensiero maligno si prende definitivamente il controllo, facendo partire un lungo discorso che, in preda al pathos, mistifica le cose, i reali sentimenti, le vere intenzioni, illudendo la povera sciagurata che un futuro migliore sia possibile anche per lei, che una liberazione futura sia possibile, che vi sia un’alternativa, e che la felicità è lecita anche per lei. La castellana apre le porte e lascia che il nemico prenda la cittadella. Consumato il rapporto, però, dopo aver lasciato libere geometrie senza sentimento, come meccanica riproduzione di corpi senz’anima, restano le macerie del tradimento, e la fretta di dimenticare tutto. Ma Liza adesso ha una speranza, sia pure malriposta, e vi si aggrappa, anche oltre ogni ragionevole dubbio, mentre in cuor del protagonista balena già la «disgustosa verità». Fuggito da quel luogo di amplessi senza amore, l’inetto torna alla sua vita, dopo aver soffocato le sofferenze proprie nel ventre altrui, egli può tornare ben bello alle sue faccende private, anche se il pensiero di Liza talvolta fa capolino, in modo particolare il timore che possa irrompere nella sua apparente tranquillità. Tuttavia fuggendo, ancora una volta, dalla realtà, egli prende a fantasticare di potersi occupare di lei, del suo destino, di plasmarla, di educarla, di mantenerla. Ma lo vuole davvero? Questa sarebbe la domanda giusta che, però, nessuno, meno che mai il protagonista, si pone. Segue il brusco richiamo alla realtà nella persona di Apollon, il suo servitore, che egli disprezza, come tutti gli altri d'altronde. Eppure, in quest’ultimo caso, la trama della relazione è ben diversa: l’inetto si rende perfettamente conto di odiarlo perché lo considera migliore di lui, una persona migliore, superiore alle sue bassezze e in possesso della giusta lucidità per poter esprimere una valutazione corretta sul suo padrone, «non avete la testa a posto». Infine, Liza si presenta a lui, gli fa visita, illusa dalle sue parole del giorno precedente, che potrebbe esserci amore anche con una come lei, anche per una come lei. Il dialogo successivo è emblematico della perfidia nella quale il protagonista sprofonda, come nella neve bagnata. Lei comincia a rendersi conto di dove vive, del suo contesto, pian piano il castello di menzogne comincia a crollare su sé stesso. Ma concentrato esclusiva mentre su sé stesso, e sulla sua inferiorità rispetto ad Apollon, non riesce a vederla per quella che è, come una persona, in fin dei conti lei continua ad essere per lei un oggetto, di soddisfacimento corporale il giorno prima, di soddisfacimento umorale il giorno seguente. Infatti, le chiede se lo disprezza, una domanda fuori luogo, alla quale la povera Liza non può rispondere, tacendo. Il suo silenzio è l’occasione che si aspettava, anche se in fondo l’inetto è a conoscenza della verità, «ero stizzoso contro me stesso, ma s’intende che doveva farne le spese lei». Inetto, ribaldo, meschino, ottuso, vanitoso, egocentrico, le considerazioni negative possono solo sprecarsi e non bastare a render conto di tutte le molteplici sfaccettature del soggetto in questione. Con disprezzo rinnovato, lui ostenta superiorità, una superiorità messa da parte il giorno prima, ma qui, nel suo luogo naturale, ostentata, a marcare la distanza tra un signore par lui e una prostituta par lei … La incalza, non è un posto per lei, e lei non fa per lui, sembra dirle. Malignamente, le dice anche il motivo della sua visita, quasi ridendole in faccia, «perché allora ti ho detto delle parole pietose», che oggi mancano, del cui servizio non ha bisogno, non deve dimenticare le asprezze della vita, dimenticare le offese della gente. Cosa crede Liza? Che lui fosse «venuto apposta per salvarti?». Oh ingenua! Oh anima bella! Oh infelice! Eppure, nel feroce gioco malvagio che egli inscena, in un nuovo monologo, dato che la poverina nulla può dire, e tace, in fondo, ancora una volta un barlume di lucidità affiora nelle tenebre di una psiche contorta: lui sa di averla ingannata così come sa benissimo che non può offrirle nulla, non può darle nulla, non può aiutarla in alcun modo. E in un moto sincero, stavolta sì, glielo dice, quasi a volersi smarcare da una situazione che, per colpa sua, si era venuta a creare, di attese e di fantasie. Perché non rivelarle anche cosa l’aveva spinto a cercarla la sera prima? Il «potere», il «divertimento», l’«umiliazione», l’«attacco isterico», di questo aveva bisogno la carogna il giorno prima, non di entrare in relazione con l’intera persona di Liza, alla quale vanno, ovviamente, le nostre simpatie. Le parole vomitate sopra la poveretta hanno l’effetto previsto: una nuova ambivalenza possiede l’inetto. Lei è inerme davanti alle sue sofisticherie, lei è debole davanti alla complessità dei suoi pensieri, lei è impietosita da una persona che considera superiore. Lui la disprezza ma la desidera, la considera superiore a sé stesso, migliore di sé, ma deve possederla. E così accade, ancora una volta. Stavolta, se possibile, in maniera peggiore del giorno prima, con più animalesca voluttà. Dopo subentra l’inquietudine, l’ansia, la paura che un gioco violento senza impegni potesse tramutarsi in svolte definitive. Lui desidera solo che lei vada via, non la vuole più, non la desidera più, la disprezza, in fondo è solo una prostituta, si concede senza peso a più uomini, non ha sentimenti, non può amare. Alla fine lei se ne va, rifiutando la sua paga per la prestazione, assecondando il suo desiderio di «rimaner solo nel sottosuolo». L’abbandono di Liza risvegliano ancora le sue fantasie, immaginazioni malate di un inetto incapace a vivere che preferisce rifugiarsi negli assoluti del pensiero piuttosto che fare i conti con i chiaroscuri della vita.

Molto altro ancora si potrebbe dire, ma l’essenziale crediamo di averlo messo in luce, sperando in un giudizio benevole da parte di chi legge queste note.

venerdì 22 giugno 2012

Essere o non essere: questo è il fatto!


Quanto segue è una (lunga) glossa del recente testo di M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 118.
Me ne occupo per onestà intellettuale dato che in molti plessi postmoderni lo si critica ma solo per partito preso, senza, cioè, che se ne renda conto in maniera adeguata. 
La presente, pertanto, non è l'espressione di una posizione pro o contra Ferraris, ma solo l'ammiccamento ad un ripensamento del postmoderno da parte di un "realista" da sempre. D'altra parte, esprimere così chiaramente una simpatia non inficia affatto - ed è questo che invece vorrebbero i miei telchini! - una ricostruzione personale. Peraltro, ovviamente, la responsabilità di quanto scritto è solo mia.




Il presente volume è, forse, la punta più alta di un dibattito che ha interessato la cultura filosofica italiana dell’ultimo biennio e che, per la prima volta, giunge in questa sede ad una formulazione più “scientifica”, alla messa in campo di un vero e proprio manifesto.
L’orizzonte culturale al cui interno si colloca la presente proposta di Ferraris è quello del “pensiero debole”, nei confronti del quale, però, l’autore presenta delle argomentazioni e controdeduzioni che gettano nuova luce, una luce certamente diversa, sul movimento che prende le mosse dal progetto oramai ventennale di Rovatti e Vattimo.
In modo particolare, Ferraris attualizza nel presente volume il proprio “divorzio” da quella corrente, formulando una propria posizione personale tesa a riabilitare i “fatti”, a ripristinare i diritti della realtà. In questo senso solamente è possibile parlare di “nuovo realismo”.
Ovviamente, un tale progetto, siffatta visione, potrebbe da subito generare facili, e di comodo, equivoci, ma Ferraris sgombra subito il campo asserendo come «il richiamo al realismo non ha dunque significato vantare un risibile monopolio filosofico» (p. xi), ma precisare come «la sacrosanta vocazione decostruttiva che sta al cuore di ogni filosofia degna di questo nome deve misurarsi con la realtà, altrimenti è gioco futile» (p. xi), «ogni decostruzione senza ricostruzione è irresponsabilità» (p. xi). Il postmoderno ha, dunque, secondo Ferraris, fatto il suo tempo, ma solo oggi ne assaporiamo i frutti avvelenati. Urge, pertanto, un ritorno importante, e fecondo, ai fatti, al reale, a quella attualità che, troppo spesso, è stata misconosciuta in nome di una (libera) interpretazione. Invece, la realtà si presenta come eterogenea alle nostre interpretazioni, estranea alle nostre costruzioni sociali, psicologiche, antropologiche, rimane intatta nella sua alterità. E pretende che siano rispettati i suoi diritti.
Introducendo la prospettiva postmoderna, Ferraris vi vede una serie precisa di progenitori i quali, assieme ad una svalutazione dell’idea di progresso, trova in Nietzsche la «sua espressione paradigmatica» (p. 4), focalizzando il discorso intorno ad una paradossale proposizione: «la verità può essere un male e l’illusione un bene» (p. 4), facendo del mondo vero «una favola» (p. 5). Il postmoderno non ha fallito, ma centrato bene i suoi obiettivi. Oggi, però, appare defilato in quanto è collassato su sé stesso. Infatti, avendo decostruito la cultura filosofica precedente, e non avendola sostituita con altro, il fenomeno conoscitivo stesso è crollato su sé stesso, svanito dall’orizzonte degli eventi. A partire da questa diagnosi della cultura attuale, Ferraris prende le mosse per il proprio “nuovo realismo”, non una prospettiva esterna al postmoderno, ma una sua variante secondo la quale, una volta che sia stata operata la decostruzione, è bene procedere alla ricostruzione. Per far ciò, però, è bene espungere il movimento da quelli che l’autore considera i «tre punti cruciali» (p. 7): 1) l’ironizzazione; 2) la desublimazione; e, 3) la deoggetivazione. La prima sostiene come «prendere sul serio le teorie sia indice di una forma di dogmatismo, e si debba mantenere nei confronti delle proprie affermazioni un distacco ironico» (p. 7), magari adoperando tipograficamente le «virgolette» (p. 7). La seconda è l’idea secondo la quale «il desiderio costituisca in quanto tale una forma di emancipazione, poiché la ragione e l’intelletto sono forme di dominio, e la liberazione va inseguita sulla pista dei sentimenti e del corpo» (p. 7). Infine, la terza è l’«assunto […] secondo cui non ci sono fatti, solo interpretazioni» e dopo il quale «la solidarietà amichevole deve prevalere sull’oggettività indifferente e violenta» (p. 7).
A questo punto, l’autore dedica maggiore cura nel discutere in maniera più approfondita proprio questi tre punti cruciali dai quali va emendato il cosiddetto «pensiero debole» affinché restituisca alle cose la loro dignità, il loro reale valore, la loro imprescindibile alterità a qualsivoglia costruzione (concettuale). Ferraris ha buon gioco nel dimostrare come il postmoderno abbia messo tra parentesi il ‘mondo vero’ (in genere, sostituendolo con una sua controfigura concettuale), sospendendo qualsiasi (eventuale) assenso nei suoi confronti, per cui tutto viene messo tra parentesi, provvisoriamente posto tra virgolette, il mondo diventa il ‘mondo’, la giustizia la ‘giustizia’, e così via. Questo perché vige la «tesi secondo cui i “grandi racconti” […] del moderno […] fossero la causa del peggiore dogmatismo» (p. 8). Con la virgolettatura, i postmoderni prendono le distanze dagli oggetti dei loro stessi discorsi, evitando di farsi troppo coinvolgere o di credere tanto in quanto loro stessi pensano. Bisogna, però, fare attenzione. Infatti, se la virgolettatura, almeno prima facie, può sembrare una strategia simile alla sospensione del giudizio fenomenologica, in realtà è una strategia ben diversa, con dati effetti di realtà, forse anche studiati. Infatti, prendere le cose sul serio, togliendo di fatto le virgolette, è un «atto di inaccettabile violenza o di fanciullesca ingenuità» (p. 9) di tutti coloro i quali pretendono «di trattare come reale ciò che, nella migliore delle ipotesi, è “reale” o «reale» » (p. 9). Il distanziamento postmoderno dagli oggetti del discorso, reali o finti o inventati o verosimili, e così via, che siano, ha il prezzo di considerare «fanatico chi – fosse pure con piena legittimità – si ritenesse in possesso di una verità» (p. 9). Ironizzare diventa così il non prendere sul serio i discorsi stessi, mettendo alla berlina qualsiasi posizione di segno contrario, generando, secondo l’autore, anche l’«abuso della risata, della facezia e della farsa del populismo mediatico» (p. 9), aprendo anche la strada alla mimica del riso che «è un retaggio del mostrare i denti che, nell’animale, precede l’aggressione» (p. 10). L’uso dell’ironia non è, però, certo un’invenzione del postmoderno, una sua originale trovata, ma mostra, piuttosto, al contrario, come il postmoderno sia l’esito conclusivo di una parabola che trova un suo inizio antico. Tuttavia, fare ironia, ironizzare, mettere tra virgolette gli oggetti di discorso, «non è solo distacco e non violenza» (p. 12). Anzi, prestare fede all’idea della ironizzazzione vuol dire guardare con sospetto (o incredulità) a tutte quelle teorie che propugnano un primato dei fatti, delle cose, del mondo, della realtà sulle interpretazioni, sulle costruzioni (per lo più fantasmatiche), sulle finzioni, sulle narrazioni, come la scienza  e la tecnica in primo luogo, inciampi «nei confronti dei voli del pensiero» (p. 13). L’abuso dell’ironia diventa così un tragico errore perché disarma la coscienza critica nei confronti proprio dell’autoritarismo, del tradizionalismo, dell’irrazionalismo, contribuendo, e non poco, a disegnare le fattezze del nemico, un simbolo dentro cui mettere tutte le negatività che si desiderano rimuovere (cose; ragione; predittività; spiegazione; etc.): l’Illuminismo. In questa deriva, Ferraris coglie un’amara ironia: il distacco ironico, che muove i primi passi proprio come antidoto ai pericoli dell’irrazionalismo, del fanatismo, del dogmatismo, si trasforma nel suo opposto, l’adulatore dei «nemici» della scienza e della tecnica.
Come l’Illuminismo propugnava le armi della ragione per liberare gli uomini dalla catene dell’ignoranza, del potere coattivo, dell’irrazionale, della superstizione, e così via, il postmoderno preferisce sostituire il «desiderio» alla «verità» quale «elemento emancipativo» (p. 16). La desublimazione consiste, pertanto, secondo Ferraris, lungi dalla sublimazione correntemente intesa, nel rifiutare la ragione, e i suoi servi, e privilegiare il desiderio, il corpo, come strumento di liberazione. Di conseguenza, si rigetta l’intellettualismo, non si riconosce più alcun valore all’opinione pubblica la quale, da spazio di discussione si trasforma in uno «spazio di manipolazione delle opinioni da parte dei detentori dei mass media» (p. 19). Anche in questo caso, l’idolo polemico dei postmoderni è l’Illuminismo visto come il nemico delle pulsioni desideranti dei corpi, unico vero arbitro dei destini singoli: giusto è quanto desidera il corpo, ingiusto qualsiasi ostacolo, interno quanto esterno, ai leciti desideri.
Tuttavia tanto la ironizzazione quanto la desublimazione trovano il loro motore nella deoggettivazione, l’idea «che l’oggettività, la realtà e la verità siano un male, e addirittura che l’ignoranza sia una cosa buona» (p. 20). Così intesa, essa non emancipa affatto gli uomini, ma mette capo ad «una delegittimazione del sapere umano e nel rinvio a un fondamento trascendente» (p. 22). L’uso inflazionato di ironia, distacco, sorrisi, allusioni, illazioni, evitamento nell’addurre prove o giustificazioni, conduce allo scetticismo nei confronti della conoscenza stessa, ridotta al gioco delle parti, ad una costruzione solamente fittizia, senza alcun collegamento con una (adesso, presunta) realtà che se c’è davvero non ha alcun peso nel mandare ad effetto le relazioni umane.
L’azione combinata di ionizzazione, desublimazione e deoggettivazione ha un esito finale che «si può chiamare “realitysmo”» (p. 24), una revoca dell’autorità al reale «e al suo posto si imbandisce una quasi-realtà con forti elementi favolistici che poggia su tre meccanismi fondamentali» (p. 24), (1) la giustapposizione; (2) la drammatizzazione; e, (3) l’onirizzazione. Visto così, il postmoderno «si manifesta come un utopismo violento e rovesciato» (p. 24), piuttosto che «riconoscere il reale e immaginare un altro mondo da realizzare al posto del primo, pone il reale come favola e assume che questa sia l’unica liberazione possibile: sicché non c’è niente da realizzare, e dopotutto non c’è nemmeno niente da immaginare; si tratta, al contrario, di credere che la realtà sia come un sogno che non può far male e che appaga» (p. 24). Detto in breve, il realitysmo consiste in una sostanziale omologazione di realtà e finzione. Da questo punto di vista, non solamente un prodotto del postmoderno, ma un qualcosa dal cuore antico «quanto il desiderio di illusione proprio dell’essere umano» (p. 25). Per il postmoderno il mondo esterno semplicemente non esiste, «stiamo semplicemente sognando il nostro sogno» (p. 26). Tuttavia, emerge forte l’impressione che, nonostante l’enfasi posta sull’ironia e sul disincanto, il postmoderno sia «un antirealismo magico, una dottrina che attribuisce allo spirito un dominio incontrastato sul corso del mondo» (pp. 26 – 7).
Di contro alle decostruzioni, più o meno marcate, che costellano i molteplici fronti costituenti il postmoderno, Ferraris propone un “nuovo realismo” nella forma di un nuovo costruzionismo che si articola in «tre parole chiave: Ontologia, Critica, Illuminismo» (p. 29), tre diversi momenti in grado di rispondere in maniera efficace a tre fallacie postmoderne: (1) la fallacia dell’«essere-sapere» (p. 29); (2) la fallacia dell’«accertare-accettare» (p. 29); e, (3) la fallacia del «sapere-potere» (p. 29). Alla prima fallacia risponde efficacemente l’Ontologia, alla seconda la Critica e, infine, alla terza, ed ultima fallacia, risponde efficacemente l’Illuminismo. Anche una prospettiva ingenua, e banale, si accorge che «il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare» (p. 29) mentre il postmoderno confonde facilmente «tra ontologia ed epistemologia» (pp. 29 – 30) di modo che quanto sappiamo diventa quello che è, dimenticando che la realtà resta inemendabile dalle nostre stesse conoscenze. Peraltro, il postmoderno assume che «l’accertamento della realtà consista nell’accettazione dello stato di cose esistente» (p. 30), il che è erroneo poiché la conoscenza della realtà non comporta di per sé la rassegnazione disincantata allo status quo, sgombrando il campo da romanticismi postmoderni come l’irrealismo e il cuore emancipatori di questa estrema condizione. Per Ferraris, non la favola ma la realtà «è la premessa della critica, mentre all’irrealismo è connaturata l’acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno» (p. 30). Limitarsi ad accettare quanto si conosce equivale a precludersi qualsivoglia possibilità di intervento sulla realtà stessa, vagheggiando solamente il cullarsi nel desiderio onirico di una realtà altra. In ciò l’autore è coerente quando afferma come «ogni decostruzione fine a sé stessa è irresponsabilità» (p. 31). Infine, è fallace ritenere che in ogni forma di sapere si nasconda un potere perché questo implica doverlo vivere «come negativo» (p. 31) in modo tale che il sapere non è più uno strumento di liberazione ma «di asservimento» (p. 31). Confidare nel sogno, nel corpo, nel desiderio, slegati a ben vedere dalla realtà, configura un vero e proprio anti – illuminismo, «il cuore di tenebra del moderno» (p. 31), «il rifiuto dell’idea di progresso e della fiducia nel nesso tra sapere ed emancipazione» (p. 31).
Bisogna, pertanto, prendere definitivo congedo dal realitysmo e tornare al realismo, recuperare la ricostruzione dopo i bagordi decostruttivi.
V’è un filone postmoderno che, almeno in parola, si lega a Kant, ed opera un ancorché vaghissimo riferimento all’opzione trascendentale. Tuttavia, secondo Ferraris proprio questo movente si lega alla fallacia dell’essere-sapere in quanto è funzionale a mandare ad effetto l’idea secondo la quale «quello che c’è risulta determinato da quello che ne sappiamo» (p. 35). Ma il trascentalismo kantiano non affermava certo questo benché insistesse comunque sulla relazione (problematica) tra contenuto di intuizione e sua posteriore analisi intellettuale. Tuttavia, in Kant le cose rimanevano integre nella loro alterità nonostante che la loro conoscenza (posteriore) fosse certamente determinata dalle cosiddette “forme a priori” di sensibilità ed intelletto. L’azione congiunta delle tre fallacie delinea l’azione completa del dispositivo postmoderno il quale perviene «a un completo discredito del sapere» (p. 39). Mettere davanti a sé Kant, un povero filosofo però scaltrito dalla decostruzione postmoderna, significa «eleggere quale punto di osservazione non ciò che vediamo, bensì quanto sappiamo, e soprattutto concludere che incontrare uan cosa e conoscerla sono, in fondo, lo stesso» (pp. 42 – 3). Mentre, ovviamente, le cose non stanno così, conoscere qualcosa e l’esistenza di quel qualcosa sono due cose diverse, non equivalenti. A questo punto, l’autore coglie anche una (profonda) differenza tra lo scetticismo antico e lo scetticismo postmoderno, anche se il primo può benissimo vantare un profondo ascendente sul secondo, consistente nel fatto che i primi mettono in dubbio anche l’esistenza stessa del mondo mentre, al contrario, i secondi «sostengono che è costruito dagli schemi concettuali, e che dunque è in se stesso amorfo e indeterminato» (p. 43). Si badi, però, che l’effetto provocato è potente, a dispetto magari della prima impressione dimessa, in quanto il costruzionista postmoderno, lo scettico disilluso, «ha identificato l’essere e il sapere» (p. 43), così dire che le cose sono in sé stesse amorfe e indeterminate, per effetto della propria conoscenza, vuol dire che gli schemi concettuali sono in grado di “produrre” le cose stesse (o anche: di riprodurle simili agli originali, ma diverse). Così, mentre lo scettico antico denunciava «la vanità dei saperi umani» (p. 43), lo scettico (post)moderno «esalta la funzione del professore nella costruzione della realtà» (p. 43), il primo «mira a non stupirsi di niente» (p. 44) mentre il secondo «ha per fine la meraviglia» (p. 44), quest’ultimo si diletta «di affermazioni sorprendenti che dimostrano il peso degli schemi concettuali, della cultura […] nella costruzione dell’esperienza» (p. 44). Escluso il riferimento ontologico, il suo stesso impegno, «se abbandoniamo il riferimento a un mondo esterno stabile e indipendente da schemi tutto è possibile» (p. 46). La messa tra parentesi della realtà, rende possibile inventarne un’altra, a tutto arbitrio di quanti in misura maggiore, e migliore, rispetto ad altri contribuiscono alla costruzione dell’esperienza. L’esito asservante è dietro l’angolo, e in amara ironia con i presupposti iniziali di emancipazione umana fatti propri dai postmoderni. Ma solo a patto di non vedere la realtà, di ignorarne il carattere saliente: la sua inemendabilità. Quest’ultima «ci segnala infatti l’esistenza di un mondo esterno, non rispetto al nostro corpo (che è parte del mondo esterno), bensì rispetto alla nostra mente, e più esattamente rispetto agli schemi concettuali con cui cerchiamo di spiegare e interpretare il mondo» (p. 48). Non basta certo che si faccia esperienza di qualcosa per poterne fare anche scienza, «universale nell’umanità non è la scienza (che è semplicemente universalizzabile), bensì l’esperienza» (p. 57).
Denunciare i limiti, gli errori, le fallacie, del postmoderno non è, però, sufficiente se si desidera operare un intervento che si smarchi dal postmoderno stesso. È bene far seguire ad una pars destruens un’adeguata pars costruens, altrimenti non si fa nulla di diverso dallo scetticismo (post)moderno. Così, la terza parte del testo in questione si occupa di fornire gli elementi formali di una ricostruzione della realtà. Ed è in questa sede che prende forma il progetto dell’autore, non una mera confutazione della prospettiva decostruttiva del pensiero postmoderno, ma una correzione di quest’ultimo, con integrazione di un momento più propriamente “costruttivo” a fianco di quello canonico “decostruttivo”. Infatti, il “nuovo realismo” è inteso da Ferraris come una dottrina critica, che è declinabile in due sensi diversi, ma non concorrenti: (1) in senso kantiano: giudicare cosa è reale (e cosa no); e, (2) in senso marxiano: trasformare ciò che non è giusto. Il problema, allora, non nasce dalla decostruzione in sé stessa, ma dall’incorrere nella fallacia dell’accertare-accettare. Infatti, «il postmodernista ritiene che basti sostenere che tutto è socialmente costruito per immunizzarsi dall’attrito del reale» (p. 61). Ma così facendo si limita a travasare direttamente, e senza i dovuti filtri, la conoscenza negli atteggiamenti volontari. Di conseguenza, non può più né distinguere tra reale e fittizio né tantomeno provare a costruire una valida alternativa ad una realtà opprimente o ingiusta. In realtà, però, la fallacia in questione è, a sua volta, «una diretta conseguenza della fallacia dell’essere-sapere» (p. 61), ossia dell’idea secondo la quale la conoscenza costruisce le cose, dimenticando, colpevolmente, che «l’essere è indipendente dal sapere» (p. 62). Il realismo, allora, è «il primo passo sulla strada della critica e della emancipazione» (p. 62). Se non si accetta il carattere saliente del reale, ossia la sua in emendabilità, si è disarmati di fronte alla violenza stessa degli altri e all’ignoranza sulle cose del mondo. A ben vedere, infatti, «non è possibile immaginare un comportamento morale in un mondo senza fatti e senza oggetti» (p. 63). Come visto, Ferraris continua a considerarsi dentro al postmoderno, e sta proprio in questa posizione la portata teorica della presente critica al postmoderno, nel costituire una critica “dall’interno”, e sostiene ancora posizioni vicine ai postmoderni. Tuttavia, precisa subito la sua posizione originale: «il punto non sta, dunque, nel sostenere che c’è una discontinuità tra i fatti e le interpretazioni, ma piuttosto nel capire quali oggetti siano costruiti e quali invece non lo siano, con un processo di decostruzione inversa alla tesi totalizzante secondo cui tutto è socialmente costruito» (p. 69). Chi sostiene per l’appunto quest’ultima tesi onnicomprensiva non decostruisce affatto, ma formula «una tesi […] che lascia tutto come prima» (p. 70). Infatti, i decostruttivisti di quest’ultimo genere evitano «un grande lavoro» (p. 70), consistente nel «distinguere accuratamente tra l’esistenza di cose che ci sono solo per noi, di cose che esistono solo se c’è una umanità, di cose che invece esistono anche se l’umanità non ci fosse mai stata» (p. 71). Allora, sembra di poter dedurre, la decostruzione sin qui propalata dai postmoderni non sarebbe vera, ma falsa, proprio dove, al contrario, la vera decostruzione «deve impegnarsi a distinguere tra regioni d’essere che sono socialmente costruite e altre che non lo sono» (p. 71). In questo, pertanto, sembra consistere il (nuovo) realismo propugnato dall’autore: ripristinare, all’interno della prospettiva critica del postmoderno, il valore (inemendabile) delle cose, riconoscendo a queste ultime la loro dignità reale, la loro consistenza ontologica, la loro coerenza epistemica. Solo dopo aver fatto i dovuti conti con la realtà, è possibile valutare l’influenza culturale nella sua percezione, e  conoscenza. Il nucleo positivo del (nuovo) realismo consiste in una vera e propria «ricostruzione» (p. 78) che per l’autore passa attraverso alcuni «momenti fondamentali» (p. 78). Secondo l’autore, infatti, il realismo deve tener conto del fatto che vi sia «un nocciolo inemendabile dell’essere e dell’esperienza che si dà in piena indipendenza dagli schemi concettuali del sapere» (p. 79), deve restare aperta «la possibilità di costruire […] il sapere come attività concettuale, linguistica, deliberata, e soprattutto emancipativa» (p. 79). La realtà sociale deve diventare un terreno concreto di analisi e di trasformazione ma questo avviene solo se si riconosce il mondo naturale «indipendente dalla costruzione umana» (p. 79). Per Ferraris, anche la portata del testualismo derridiano va circoscritto al suo proprio ambito, relativo esclusivamente a limitate condizioni inerenti gli oggetti sociali, e non anche quelli naturali. Oltre il testo non v’è nulla, ma molto altro, di cose che esistono indipendentemente dalla nostra volontà ed altre che esistono solo in funzione della nostra volontà.
Riabilitata la realtà, diventa possibile liberare la vita umana, consegnandola ad un migliore futuro emancipativo. Bisogna, secondo l’autore, abbandonare l’«addio alla verità» perché foriero di ulteriori, e più gravi errori, i quali, lungi dal consegnarci un futuro radioso, ci imbrigliano in una nuova, e tremenda, schiavitù. La verità non è affatto violenta e per evitare quest’ultima non è affatto necessario abbandonare anche la prima. Attraverso una dialettizzazione di Foucault e di Nietzsche, Ferraris mette in luce il cuore puro del postmoderno: «la richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge ad un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro sé stessa» (p. 100), dopo aver adoperato il logos per criticare il mito, «le forze de costruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela nel sapere l’azione della volontà di potenza» (p. 100). L’esito di questo divenire ciclico è la fallacia del sapere-potere: «ogni forma di sapere deve essere guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere» (p. 100). Ma se il sapere è potere, «l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio» (pp. 100 – 101). Così, la meta finale, l’emancipazione, diviene possibile solo rifiutando la ragione, il sapere, e tornando, paradossalmente, proprio all’ignoranza, al mito, alla favola. Allora, alla fine, il problema della fallacia presente è che attribuisce ad altre istanze la possibilità di liberare gli uomini, relegando sé stessa al non – sapere, alla favola, al mito, rendendo così possibile anche che altre forze mettano in scacco la libertà umana. In questo modo, i postmoderni lasciano la realtà esattamente come l’avevano incontrata, «e l’emancipazione si trasforma nel suo contrario» (p. 101).
Al contrario, per l’autore è bene prendere congedo (definitivo) da tali derive del postmoderno, e tornare alle finalità attese originali: è possibile liberare gli uomini ma solo a patto di tornare all’Illuminismo, alla verità, alla realtà, alla conoscenza. Infatti, dire «addio alla verità è non solo un dono senza controdono che si fa al “Potere”, ma soprattutto la revoca della sola chance di emancipazione che sia data all’umanità, il realismo, contro l’illusione e il sortilegio» (p. 112).
A questo punto, allora, diventa lecito porsi due questioni alle quali, ahimé, non ho (non ancora, almeno) una risposta:

1. è davvero terminato il moderno, tale che possa dirsi che ci troviamo dopo di esso?
2. ma quale modernitas sarebbe terminata?

Ecco, se uscissimo, anche solo un pochino, da delle vulgate manieristiche, e maccheroniche, per non dire "bignamiche", potremmo accorgerci che l'intera operazione "postmoderno" è basata su degli assunti acritici, per non dire ideologici, che una volta messi in chiaro comportano il collasso stesso del pensiero postmoderno.
Ma nei sogni beati di tanti "visionari" preferiamo lasciare gli ignari neofiti piuttosto che subire la loro gratuita (quanto ideologica) ironia "senza posizione" ...! ;)

mercoledì 13 giugno 2012

Ultimi prodotti ...

Un buon viatico sull'irta strada del non riconoscimento altrui, tra quanti parlano di 'brutte figure' (chi, io?) e di 'sciocchezze', un po' per incompresione, un po' per invidia e un po' per masochismo, da sempre dimostrare il valore con i fatti è la mia politica. E vincente per giunta.


Elenco dei prodotti della ricerca

 
 
PIZZO A. (2012). Deontic Paradoxes and Moral Theory, p. 1-48, ISBN: 9788891014184
 
PIZZO A. (2012). What Can (not) Deontic Logic Do for Computer Law. DIRITTO & DIRITTI, ISSN: 1127-8579
 
PIZZO A. (2012). Nodi critici dell’informatica giuridica. DIRITTO & DIRITTI, ISSN: 1127-8579
 
PIZZO A. (2011). Logica deontica. APHEX, vol. 3; p. 1-22, ISSN: 2036-9972
 
PIZZO A. (2011). Recensione a Roberta De Monticelli, La questione morale
 
PIZZO A. (2010). Logica del linguaggio normativo. Saggi su logica deontica e informatica giuridica. ROMA: Aracne, p. 1-200, ISBN: 978-88-548-3638-9
 
PIZZO A. (2010). Viaggio al centro della logica. ROMA: Aracne, p. 1-64, ISBN: 978-88-548-3031-8
 
PIZZO A. (2010). Logica si dice in molti modi. Un viaggio concettuale dentro la ragione umana. DIALEGESTHAI; p. 1-15, ISSN: 1128-5478

martedì 12 giugno 2012

What Can(not) Deontic Logic Do for Computer Law


What Can (not) Deontic Logic Do for Computer Law
By Alessandro Pizzo*

Introduction

Since 1951 Deontic Logic, founded by Georg Henrik von Wright[1], a finnish logician and philosopher, Wittgenstein’s scholar, showed its particular attitude to serve many branches of philosophical research, from the logic to the law[2].
Despite it actually the things are not so and the reason is simple: deontic logic only captures our normative intuitions, moral underlying structure of our language[3], but nothing more. And the reason of this is clear. In fact, deontic logic was born as a particular logical treatment of non – assertoric propositions, an result by recent logical neopositivism[4]. There exists a tension between formal theory and the language[5], notably practical language. But this doesn’t prevent to formalize normative uses of the language.
It seems to me that it’s a useful tool for analyzing the normative uses of moral language, what we use to express normative sentences or commands, forbids and so on … Perhaps the same normative stances that we use in law.
So, I wish to describe in this paper what can deontic logic do for a particular branch of law: computer applications to it. At all, I think about the deontic logic as a tool for computer law, even if there are many difficulties that must be considered before to go beyond.

Computer Law

Since 1949 Information Technology had a great influence on Law, not only on the study of Law, but on the Law’s applications too. In fact, it appeared immediately how it’s important to upgrade the Law to new developments of human history.
Loevinger first proposed to use a new term, Jurimetric, for this new field of Law, today well known as Computer Law[6]. Probably, he thought of computers as possible tools for teaching law (i.e. law’s learning) or to solve some tasks (i.e. records of cases).


[Full article here]



(immagine tratta da: http://lifeinlegacy.com/2004/0508/LoevingerLee.jpg)




* Alessandro Pizzo is Ph.D. in Philosophy at University of Palermo. He writes on your personal blog: http://alessandropizzo.blogspot.com.
[1] Cfr. S. O. Hansson, Ideal Worlds – Wishful Thinking in Deontic Logic, “Studia Logica”, 82, 2006, p. 329.
[2] Cfr. A. Artosi, , Il paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 7.
[3] Cfr. N. Rescher, Topics in Philosophical Logic, Reidel, Dordrecht, 1967, p. 231. The author suggests to face the difficulties in deontic logic as an attempt to account for gap between forma language and moral reality.
[4] Cfr. N. Rescher, The Logic of Commands, Routledge & Kegan Paul, London, 1966, p. vi. I suggest to consider Jørgensen’s dilemma as a particular form of this public debate: are the norms true or false?
[5] Cfr. S. O. Hansson, Formalization in Philosophy, “The Bulletin of Symbolic Logic”, 2, 2000, p. 163. According to the author, the philosophy always formalize even when it doesn’t seem. Single concepts are reality’s formalizations yet. It seems to me that’s a correct perspective, even if I have some reservation about it.
[6] This field is named ‘Informatica giuridica’ in Italian tongue.