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domenica 29 settembre 2013

Breve decorso di un Governo ...



La storia del Governo Letta è sintetizzabile in sette semplici quanto irresistibili priorità che mi permetto di banalizzare nel modo seguente (certo ben oltre la complessità di un iter parlamentare con due Camere paritetiche):


1. l'accordo di programma (cosa fare per stare assieme!);
2. l'IMU (cosa fare per non applicare l'imposta all'anno corrente!);
3. il D.L. "Fare" (cosa non fare per disfare in termini generalissimi ed evanescenti ...);
4. l'IVA (cosa fare per evitare il programmato aumento di un punto percentile della suddetta imposta);
5. la decadenza (non quella morale, in sé risibile, ma quella di un singolo senatore una volta che sia divenuta definitiva la sua sentenza di condanna): cosa fare per evitare l'inagibilità politica di un solo uomo (come se la priorità del Paese fosse davvero questa ...);
6. le dimissioni in massa di una parte delle Camere (fatto senza precedenti che crea un precedente semplice ed imbarazzante: a chiunque non aggradi la maggioranza parlamentare può dimettersi facendo venire meno il meccanismo stesso della delega parlamentare ...);
7. le dimissioni dei Ministri della parte politica del solo uomo condannato, ma non ancora decaduto dalla carica di senatore (de profundis sull'attuale esperienza "all'italiana" delle Larghe Intese ...).

Il presente e succinto elenco ruota attorno a tre parole chiave:

i. (l'impellenza del) fare (anche se non è ben chiaro cosa);
ii. (rinvio di) tassazioni (sine die, e non la loro effettiva cancellazione);
iii. (legame del) destino (di tutti al destino di un solo uomo, condannato ed in attesa di decadenza dal Senato della Repubblica).

Cos'altro c'è da aggiungere? Beh, nemmeno un grillo, ancorché (s)parlante, potrebbe salvarci


(immagine tratta da: http://maurobiani.it/wp-content/uploads/2013/08/agibilita-politica-italia-b.jpg)

giovedì 26 settembre 2013

Cosa c'è che non va nella nozione di femminicidio?



Da qualche tempo i media non fanno altro che catalogare notizie di cronaca nera sotto l'etichetta rosa del femminicidio, vale a dire dell'omicidio di esponenti del genere femminile.



Desidero in questa sede compiere alcune brevi considerazioni né ipocrite né scontate, per scomode che, ovviamente, possano risultare.



Se per femminicidio s'intende l'uccisione di singoli del genere femminile, mi chiedo come mai non esista la locuzione paritetica, ma di genere inverso, del maschilicidio. Il fatto che non se ne trovi traccia da nessuna parte, mi spinge a considerare tale locuzione meramente ingannevole perché ritaglia delle informazioni da un contesto molto più vasto ed aggregato per ipostatizzare una fattispecie esistente solamente nella comunicazione mediatica, e, per effetto conseguente, anche nella percezione sociale (ove, per 'percezione sociale' deve intendersi la comune percezione inerente alla sensazione di sicurezza personale, a prescindere dal genere di appartenenza ...).



Ma esiste la fattispecie in questione? Ossia, è davvero serio parlare di qualcosa come il femminicidio? Riflettiamoci sopra. Abbiamo una nozione la quale disaggrega dal computo totale ed annuale degli omicidi un numero di omicidi di singoli femminili. Si tratta di un modo corretto di procedere? Temo di no, anche perché gli omicidi di singoli del genere femminile non sono certo una novità, cosa che, di per sé, sconfessa di colpo il sensazionalismo mediatico che ha scoperto, quasi per caso, l'esistenza della fattispecie in questione: l'assassinio di singoli di genere femminile. Peraltro, una simile scomposizione del dato statistico ha anche altri due effetti: 1) occultare la consistenza stessa dell'eventuale fenomeno presente (se e in che misura il fenomeno si sia incrementato negli anni); e, 2) svalutare la gravità degli altri omicidi (es. maschilicidi; infanticidi; etc.).



Mi si potrà dire che sto equivocando, cosa possibile, non lo nego, non a priori almeno, e che con il termine 'femminicidio' s'intende piuttosto l'uccisione di singoli femminili da parte di singoli di genere maschile. Detto in soldoni: omicidi di donne da parte di uomini. Ma è un'obiezione che rende la categoria in questione ancora più imbarazzante: in cosa consisterebbe allora la differenza cruciale di questa fattispecie da quella più generale e comprensiva di omicidio? Non ci sono infatti uomini uccisi da altri uomini? O conta di più il genere della vittima? E comunque forse che il loro numero è inferiore a quello di donne uccise da uomini?



Il terreno è pericoloso ed infido, lo ammetto, ma non me la sento di pensare come la media, o, peggio, come i media. Così accetto il rischio e rilancio.



A mio sommesso modo di vedere, s'impone il seguente problema: questa ravvivata attenzione al destino femminile è autentica o ipocrita? Se fosse autentica, il computo di omicidi femminili non andrebbe distinto dal conto generale degli omicidi, anche se se, ovviamente aggiungerei, una differenziazione di genere andrebbe fatta nel porre in atto politiche di tutela nei casi di persone in difficoltà e di prevenzione degli omicidi. Ma questo non accade, questo non dicono i media, i quali tengono il conto quotidiano degli omicidi femminili ... Secondo me, piuttosto, si tratta di un'attenzione ipocrita perché non mi pare affatto un'attenzione rivolta al genere femminile in quanto tale, ma una sorta di sanzione sociale di natura compensatoria ad un senso di colpa, vagamente quanto inconsciamente percepito, e vissuto, dall'universo maschile.



Parlare di femminicidio non appare, infatti, un discorso di genere, segnatamente femminile, ma, al contrario, un contentino, magari macabro, concesso dal maschilismo alla riprovazione sociale. Mai e poi mai, credo, una donna parlerebbe di femminicidio, così come di maschilicidio, ma solamente di omicidi. Invece, i nostri media abbondano di sensazionalismo sulle povere vittime del genere femminile, quegli stessi media peraltro che sono i più maschilisti al mondo. 


Per concludere queste brevi e scomode note, una donna non parlerebbe di femminicidio, i nostri media invece sì.




(immagine tratta da: http://www.formiche.net/wp-content/uploads/2013/08/femminicidio-scarpe.jpg)

martedì 24 settembre 2013

Alcune idee di filosofia sociale ...



Recentemente ho pubblicato un post sulla filosofia sociale. in questa sede vorrei aggiungere soltanto alcune considerazioni ulteriori che mi provengono dalla contemporanea lettura di I soggetti e i poteri. Penso che la filosofia sociale possa costituirsi attorno ai seguenti punti fondamentali:

1. indagine dei nessi sociali che precedono e consentono le messe in forma istituzionale;
2. assenza di una prospettiva normativa;
3. descrizione (avalutativa) della società;
4. centralità dei discorsi che costruiscono, mutano ed abilitano lo spazio sociale;
5. assenza di autonomia disciplinare, ma crocevia e transito di altre discipline.

Ora sul punto 1) credo non possano esserci dissensi. 


Sul punto 2) credo non si possa che concordare: il filosofo sociale non ha mete ideali o modelli da proporre in funzione dei quali indicare come dovrebbe essere la realtà sociali, qualcosa di differente da com'è in effetti. La progettualità politica può essere solamente posteriore ad una filosofia sociale. 


Per questo stesso motivo, a mio sommesso parere, è corretto il punto 3): il filosofo sociale intende "riflettere", per quanto umanamente possibile, la società che, per parte sua, "è" lui stesso! 


Il punto 4) è anch'esso rilevante, ma per ragioni ulteriori. Infatti, in quanto grammatica dei discorsi sociali, la filosofia sociale presenta discorsi sulla società, discorsi della società, e così via. Mediante i discorsi, la società si istituisce, si trasforma, e così via. 


Piuttosto, nutro qualche perplessità, invece, sul punto 5). Penso, infatti, al contrario, che la filosofia sociale abbia una sua autonomia disciplinare rispetto a discipline affini e che, al contrario, rimarchi ciò proprio nella sua collocazione trasversale, come luogo di transito di intenzionalità e discorsi "altri".

Trattandosi, comunque, di idee che costituiscono ancora il bacino di partenza, ritengo di poter calare su di loro il beneficio dell'inventario e di tenerle "buone" per successive riflessioni, tanto sul testo di Rosito e Spanò quanto sulla disciplina in sé.








(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYCYWL4Whz1VNOBUlG3HGkhhK9N8kFiXjmJONK5Rfo-eC-Fd87ghOAI1gcyfGC-wfqlGgYowyPBoVaxbD-rD06bMFz_UvLmMvgUVME59rLai1kqr5sRNEi7K00qa9mosnJG4rUMMMwcHg/s320/Truman+show.png)

mercoledì 18 settembre 2013

Onniscienti?



Nessuno potrebbe sapere ogni cosa ...

Clark lo presenta come un paradosso ...

... quello dell'onniscienza ...

Ora per sapere che nessuno possa sapere ogni cosa, bisognerebbe possedere proprio quella cosa che l'enunciato iniziale nega, vale a dire l'onniscienza ... ergo, per non essere onniscienti si dovrebbe essere onniscienti ... ma nessuno è onnisciente ... quindi, per non essere onniscienti si dovrebbe esserlo ... o no?

Il circolo autoreferenziale appare innegabile oltre che non evitabile ...

Come possiamo regolarci di conseguenza?

martedì 17 settembre 2013

Argomenti ...

"nel caso in cui un argomento proposto da una persona non sia creduto buono da un'altra persona, è normale che la prima persona cerchi di argomentare a favore della bontà dell'argomento o della verità della sua conclusione, e che la seconda cerchi invece di argomentare nella direzione contraria. Argomentare nella direzione contraria significa fornire ragioni per pensare che la conclusione dell'argomento non sia vera o che l'argomento non sia buono. Una confutazione è appunto un argomento nella direzione contraria a quella di un altro argomento, cioè un argomento sulla base del quale si può sostenere che la conclusione dell'altro argomento non è vera o che l'altro argomento non è buono"

(A. Iacona, L'argomentazione, Einaudi, Torino, 2010, pp. 75 – 76)

Molto spesso ho trattato la dimostrazione aristotelica del principio di non contraddizione.

Adesso vorrei, se posso, spezzare una lancia a favore del sofista, idolo polemico della dimostrazione stessa.

Cosa significa argomentare? Semplice: fornire ragioni per credere buona o vera una tesi.

Aristotele argomenta per difendere quella che ritiene essere la bontà del principio di non contraddizione. E, per evitare l'errore della circolarità, fare appello a quel che si dovrebbe prima dimostrare, fa in modo che quest'ultima ricada sulle spalle del sofista stesso.

Ma questo povero uomo cos'ha fatto davvero di male se non richiedere umanamente e razionalmente una prova, almeno una, della tesi affermata?

Il problema, però, mio caro sofista, è quanto richiesto è semplicemente impossibile! Del principio di non contraddizione non può darsi alcuna dimostrazione diretta!

That's All, Folks!


(immagine tratta da: http://t3.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ6QQgqyuV2nPdW-oVtH-L2y1xnYIo_nuTm4R5Fsw5mQEbabV--)

venerdì 13 settembre 2013

Misericordia

"Disse allora il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave.21Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
22Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore.23Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio? 24Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? 25Lontano da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».26Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo».27Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: 28forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque».29Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta».30Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». 31Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti».32Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci»"

(Gn XVIII)

Abramo dialoga con Dio e intercede per i giusti di Sodoma e Gomorra ...

Facendo appello alla misericordia divina, quasi contratta sino a giungere al numero minimo per non far scattare la punizione: almeno dieci giusti.

Se vi sono almeno dieci giusti tra le masse delle due città, Dio, per riguardo a loro, non distruggerà le città.

Al di là dell'esiguo numero, cifra della speranza umana di salvarsi dalle proprie colpe, anche senza merito perché è Dio che salva, non gli uomini per loro merito, è la contrattazione abramica che stupisce, la familiarità con la quale Abramo intercede con la divinità e rilancia ad ogni battuta. Un contatto diretto oggi quasi assente, una familiarità dimenticata, un legame mai reciso capace, se attivato, di risvegliare la misericordia divina.

In fondo, lui perdona, ma noi ci ricordiamo di chiederGLIelo?



(immagine tratta da: http://blog.studenti.it/biscobreak/wp-content/uploads/2013/07/abramo-2.jpg)

Asino d'un Buridano!



"Un asino affamato ed assetato è accovacciato esattamente tra due mucchi di fieno con, vicino a ognuno, un secchio d'acqua, ma non c'è niente che lo determini ad andare da una parte piuttosto che dall'altra. Perciò, resta fermo, e muore!"



(M. Clark, I paradossi dalla A alla Z, Cortina, Milano, 2004, p. 10)



Altro noto paradosso, ma, ci permetta l'antica fonte di poter giocare con la sua denominazione per così commentare: Asino d'un Buridano! Possibile che tu ti sia dimenticato del libero arbitrio? Possibile che preferisca giocare così con il determinismo fisico o biologico?



Francamente, il racconto è di per sé delizioso, ma poco credibile ad una considerazione razionale.



Allora, permettici, oh nobile Buridano, di dissentire dalla tua storiella. Un asino è sempre più intelligente di un paradosso e nessuno può determinarci a credere che possa morire di inedia perché incapace, a parità di condizione, di optare per l'una o per l'altra possibilità.



(immagine tratta da: http://i292.photobucket.com/albums/mm32/alessandro1944/asinoBuridano.png)





mercoledì 11 settembre 2013

Disputatio et confutatio ...

"[…] per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica qualcosa [échonta lógon]. Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione"

(Aristotele, Metafisica 1005b 11 - 15)


Quanta storia c'è in queste stringate parole?



Quanta verità si raccoglie entro ciascun rigo?



Quanto respiro si nasconde dietro ogni parola?



Quanti sospiri ci celano all'ombra di una prosa contratta?



Quanti luoghi polemici sono appena indicati allusivamente?



E dove cadono queste nostre domande?



Aristotele delinea il quadro d'insieme della sua confutazione del negatore del principio di non contraddizione ma, per ragioni più che ovvie, non può soffermarsi più di tanto sulla dimostrazione di quest'ultimo.



Per pudore, preferisce tacere sul render conto della richiesta dell'avversario e far ricadere su quest'ultimo tutto l'onere della prova!



E d'altra parte, come avrebbe potuto far diversamente? Pena l'auto-contraddizione, non si dà dimostrazione del principio alla base di qualsiasi dimostrazione ...



Aristotele evita appunto la circolarità ricorrendo alla polarità del gioco dialettico e rendendo responsabile dell'errore proprio l'avversario che chiede conto del principio.



Una soluzione forse capziosa, a dir poco "bizantina", ma efficace: dì almeno qualcosa di determinato, mio caro sofista, se riesci (senza adoperare quel che vorresti negare)!



E questo proprio perché adopera quel che vuol negare, il sofista riesce a negare il principio medesimo. Ma questo è già un dire qualcosa di determinato, appunto che cade sotto il principio stesso. Allora, come fai a negare ed affermare assieme? Solo per ignoranza, puoi far ciò, dice Aristotele, dal momento che già per dire qualcosa bisogna utilizzare quel che si vorrebbe negare ...



Non convince del tutto? Eppure la contesa dialettica inchioda entrambe le parti:


1. l'assertore del principio, dal momento che non può né farne a meno né dimostrarlo direttamente, pena l'auto-contraddizione (o, il che è lo stesso, la circolarità);
2. il negatore del principio, dal momento che non può né farne a meno, pur volendolo negare, né richiederne dimostrazione diretta, pena l'auto-contraddizione.



L'unico ad uscirne però con le ossa davvero rotte è il (2): in ogni caso, colui sul quale ricade la responsabilità della petitio principii. Paradossalmente, deve poter utilizzare quanto vorrebbe negare ..



E così si conclude la nostra storia, folks! Aristotele wins, il sofista perde.





(immagine tratta da: http://t3.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ78YKfgFvTOw_x8hCpWmwLJXrPXB_KCdpl14yG8BnoGrYGSTky)

martedì 10 settembre 2013

Il Buon Samaritano

Si abbiano le seguenti due premesse:

  1. se il Buon Samaritano aiuta Giorgio che è stato derubato, allora Giorgio è stato derubato;
  2. è vietato che Giorgio venga derubato.

Stiano A per “il Buon Samaritano aiuta Giorgio” e B per “Giorgio è stato derubato”. Pertanto, si avrà:

(11) (AB) → B
(21) FB [leggi: vietato: B]
(31) F (AB) (da (1) – (2) e FR) [leggi: vietato che: il Buon Samaritano aiuti Giorgio che è stato derubato].

Ovviamente, l’enunciato (31) è assurdo. Infatti, la formulazione [PBS] mette in difficoltà


"il Buon Samaritano dal momento che se è vietato aggredire e derubare i viandanti, allora è vietato aggredirli e derubarli e anche soccorrerli quando vengano aggrediti e derubati. Così, andando in soccorso della vitima di una aggressione, il Buon Samaritano compie paradossalmente un’azione proibita. Di qui il nome di Paradosso del Buon Samaritano"[1]

Il presente è il noto, e problematico, paradosso (deontico) del Buon Samaritano: una derivazione apparentemente inattaccabile la quale, però, contraddice apertamente una delle premesse.

Note
[1] Cfr. A. ArtosiIl paradosso di Chisholm. Un’indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 72.


(immagine tratta da: http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/TEOLOGIA%20SIMBOLICA/buonsamaritanoiconachiesasEgidioRoma.jpg)

lunedì 9 settembre 2013

Nobel, e non più Nobel!



La particolarità del web 2.0 è che i filosofi così come gli opinion leader si moltiplicano ...


Tutti sentono l'impellente desiderio di far conoscere ad altri la propria opinione ...


Normale, quando l'apparato mediatico s'impone sui soggetti singoli, quando la comunità liquida esige maggiori informazioni ...


E forse rispondo anch'io a questo stato di cose, né da denunciare né da criticare, ma solo da riconoscere come fattivo ed attivo ...


Detto questo, confidando nel dono della sintesi, mentre sinistri risuonano da lontano i venti di guerra, penso di poter svolgere le due seguenti considerazioni, senza alcuna pretesa di veridicità e/o di completezza (oltre che di accuratezza ...):


1. trovo ironico il fatto che un presidente degli USA, salutato agli inizi come l'alba di una nuova epoca, ammantato da un misto di speranza e di utopia, insignito pure del nobel per la pace, ora appaia soggiogato dal peso della realpolitik, determinato nelle sue scelte politiche proprio dall'apparato istituzionale che desiderava cambiare ... la verità, per triste che sia, è che l'economia USA è costruita sui conflitti, piccoli o grandi che siano, e le esigenze di politica interna contano molto più di quelle di politica estera ... soprattutto in un Paese che considera il mondo intero sua politica interna ...


2. non so se Assad abbia davvero usato il gas ... francamente sono propenso a ritenere di no, ma a sua volta egli appare strozzato da equilibri internazionali che sfuggono alla sua regia ... li hanno usati i ribelli? E a che pro? La domanda relativa all'utilità (di chi) è in genere evasa mentre scorrono le immagini (terribili) di civili in preda agli effetti del gas ... allora l'emotività prende il sopravvento e diventa immediatamente opaco il contesto entro il quale l'uso del gas è stato realizzato ... certo da qualcuno e per precise motivazioni ... ma sarebbe stato cieco o sciocco se a farlo fosse stato proprio Assad ... penso che non c'entrino nemmeno i ribelli ... sono propenso a pensare all'azione di schegge autonome, magari finanziate dall'estero, che cercano di spingere la situazione del Paese oltre lo stallo attuale ... attirando magari nella contesa interna anche altri paesi ...


Dopo queste due semplici e modeste considerazioni, getto la palla all'interno dell'agone nostrano, e pongo le due seguenti altrettanto semplici questioni:


1. noi cosa vogliamo fare?
2. siamo ancora liberi di decidere per conto nostro oppure siamo ancora determinati dalle parti segrete dei trattati di pace e/o di cooperazione internazionale?



In tempi di  crisi, e di tagli lineari giustificati alla luce della prima, è interessante conoscere l'entità materiale delle nostre partecipazioni a operazioni internazionali, militari o di pace, come si preferisce ipocritamente chiamarle ...





(immagine tratta da: http://circologl.blog.tiscali.it/files/2007/10/5ad15621ca17900b5ed3f7f6b7c4fe62.jpeg)

sabato 7 settembre 2013

Esame inaspettato



"Un insegnante attendibile annuncia agli studenti che la settimana successiva si svolgerà un esame, in un giorno della settimana a sorpresa. Gli alunni deducono che non potrà essere di venerdì, poiché se non ci fosse stato fino a giovedì sera si aspetterebbero l'esame il giorno seguente, e perciò non sarebbe inaspettato. Se non ci fosse stato fino a mercoledì sera, eliminerebbero venerdì per il motivo che abbiamo detto: ma allora non sarebbe una sorpresa neanche di giovedì, e anche questo giorno verrebbe escluso. E così via, a ritroso per tutti i giorni della settimana. Quindi, l'annuncio dell'insegnante non può essere soddisfatto. Ma sicuramente ci può essere un esame a sorpresa"



(M. Clark, I paradossi dalla A alla Z, Cortina, Milano, 2004, p. 93)



Ancora una volta sorprende la capacità (auto-)ingannatoria del linguaggio umano: ingabbiati nelle maglie della previsione - probabilità, il procedere a ritroso impedisce di poter riconoscere un giorno come non previsto pur rimanendo valide tutte le probabilità che spingono a riconoscere come possibile un esame a sorpresa ...


(immagine presa da: http://blog.stefanotesi.it/wp-content/uploads/2012/01/esame.jpg)

venerdì 6 settembre 2013

Analogo deontico del mentitore ...

  

Conte enuncia la seguente proposizione:


D3] ‘il presente enunciato prescrittivo deve essere inefficace’

Ebbene, a suo dire, la proposizione in questione è un analogo deontico del paradosso del mentitore.

Infatti,

"delta prescrive la propria inefficacia. Ma, nel caso di delta, efficacia e inefficacia coincidono: delta è efficace se, e solo se, delta è inefficace. Poiché l’efficacia di delta consiste nella sua inefficacia, allora delta, prescrivendo la propria inefficacia, prescrive anche la propria efficacia. Per la coincidenza di efficacia ed inefficacia, il dovere di essere inefficace e il dover di essere efficace sono, nel caso di delta, tutt’uno"[1]

Delta è un analogo deontico del paradosso del mentitore in quanto mette in campo il medesimo meccanismo autoreferenziale.

L'unica differenza è che qui l'autoreferenzialità è deontica, là è semantica.

Aggiunge, ancora Conte, come la paradossalità di Delta sia:

"autonoma, autoctona, specificamente legata alla sua prescrittività, al suo operatore deontico"[2]

Ora, senza entrare direttamente nella questione, la possibilità di analoghi non aletici dei comuni paradossi semantici mi dà da pensare: quante possono essere le patologie del nostro linguaggio?

Note
[1] Cfr. A. G. Conte, Ricerca d’un paradosso deontico. Materiali per una semantica del linguaggio normativo, “Rivista internazionale di Filosofia del diritto”, 51, 1974, p. 493.
[2] ivi, p. 497.


(immagine tratta da: http://0.academia-photos.com/866755/311218/368508/s200_amedeo_giovanni.conte.jpg)

martedì 3 settembre 2013

Diorismós ...

"per essere il più saldo di tutti, tale principio deve avere una certa «proprietà» che mostra in che consista la saldezza del principio. Diorismós è la parola che Aristotele introduce per indicare questa «proprietà» - «caratteristica», o «determinazione» - essenziale (1005b 23) […] «l'impossibilità di trovarsi in errore rispetto alla bebaiotáte arché pasȱn» […] e cioè […] «la necessità che sia sempre compiuto l'opposto dell'errare, cioè l'essere nella verità […] rispetto a tale principio"

(Cfr. e. severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005, pp. 23 – 24)


Diorismós o non Diorismós


Questo pare essere il problema fondamentale della dimostrazione aristotelica del principio più saldo di tutti, il bebaiotáte arché pasȱn, vale a dire la sicurezza di non potersi trovare in errore, ossia di trovarsi al di qua della falsità.



Ma il principio di non contraddizione garatisce proprio ciò? O è, piuttosto, una garanzia attiva nel senso di costringere il locutore razionale ad impegnarsi ad evitare la falsità?



Questo Aristotele non lo dice, e non poteva certo dirlo dal momento che l'ostacolo principale alla dimostrazione del principio di non contraddizione è proprio il rischio della circolarità: adoperare per dimostrare il principio di non contraddizione proprio l'oggetto della dimostrazione, ossia il principio medesimo ...




Ma se così è, sinceramente non riesco a comprendere per quale motivo Aristotele senta il bisogno di dimostrare il fondamento del pensiero stesso, il limite invalicabile di qualsiasi dimostrazione.



E penso anche che ciò sia stato così per motivazioni storiche che inevitabilmente ci sfuggono e continueranno a sfuggirci in futuro.

La disfatta della scuola italiana ...



É facile comprendere quel che è accaduto alla scuola italiana, la natura di quello tsunami che l'ha resa ancora più povera e scassata e i suoi operatori ancora più dimessi e dequalificati di quanto non fossero solo trent'anni a questa parte. 


Certo, la scuola è sempre stata la “cenerentola” della spesa pubblica (si dice che le priorità sono altre …), ma negli ultimi dieci anni le cose sono decisamente peggiorate, e per giunta con un trend che, visto da dentro, comincia a fare davvero paura. 


Ora, per comprendere il progressivo definanziamento della scuola, e il ragionamento perverso che vi sta dietro, basta prendere in considerazione quanto dice Floris:

invece di affrontare il problema della qualità della spesa, nei momenti di crisi ci limitiamo a chiudere il rubinetto, magari dirottando risorse dalla scuola alla sanità, altro gioiello dell'«azienda Italia». É come se noi, avendo a disposizione un'automobile vecchia, disastrata, che consuma troppo, invece di cambiarla ci limitassimo a ridurre continuamente la benzina che le mettiamo nel serbatoio. Risultato: la macchina si ferma. Null'altro[1]



Se ci pensiamo bene il ragionamento della precedente ministra dell'Istruzione, non di quell'attuale, suonava, più o meno così, “siccome spendiamo troppo senza un'adeguata efficienza, riduciamo la spesa” …



Questo abbiamo fatto alla scuola italiana: siccome va male, l'abbiamo priviamo delle risorse!



Ovviamente, qui non si parla di risorse aggiuntive o straordinarie, ma di quelle ordinarie, vale a dire quelle che servono al suo funzionamento attuale ...


Così, a mali cronici, come la fatiscente edilizia scolastica, abbiamo aggiunto una povertà imposta “a furor di popolo”, per via della qualunquistica crisi.



E le abbiamo aggiunto anche: 1) un contratto collettivo degli operatori scaduto nel 2009, e basato sull'inflazione attesa per il biennio 2007 – 2009, certo non quella reale – cosa di per sé utopistica – e non più rinnovato; 2) il blocco delle progressioni di carriera basate in precedenza su scatti retributivi automatici in funzione della raggiunta anzianità di servizio; 3) annuali provvedimenti di spending review millantati come revisioni di spesa, ma efficaci solo come ulteriori tagli lineari ad un settore già pesantemente colpito e danneggiato, nel fisico come nel morale.


Un'auto lasciata a secco, può solo fermarsi. E la scuola italiana lo sta facendo …


Ma Floris aggiunge ancora:


In realtà, mentre un'automobile si può fermare, la scuola non lo può fare. La macchina scuola deve continuare necessariamente a marciare, e quindi sapete chi li mette i soldi per il carburante?[2]


Floris non lo dice, ma la risposta è banale quanto disarmante: sempre noi!


Prima paghiamo tasse per servizi non più né garantiti né effettuati (la scuola …) e dopo paghiamo ancora (contributo scuola; donazioni; cessioni; elargizioni; raccolta fondi; etc.) per mandare avanti, seppur malamente, quegli stessi servizi che la crisi ha eliminato per spostare le risorse verso altre priorità …


Come non pensare all'IMU o all'IVA? Queste sì che sono priorità, mica gli effetti a medio – lungo termine sul PIL e sulla qualità dei futuri cittadini dello spegnimento progressivo, e tombale, dell'automobile scuola!


Note

[1] Cfr. G. Floris, La fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana, Rizzoli, Milano, 2008, p. 151.
[2] Ibidem.



(immagine tratta da: http://static.haisentito.it/haisentito/fotogallery/625X0/29593/scuola-alunni.jpg)

domenica 1 settembre 2013

Liar ...


"Se affermo di mentire, sto dicendo la verità? Se sì, sto mentendo e quindi l'affermazione è falsa; ma se non sto dicendo la verità, sto mentendo, e quindi sto dicendo la verità. Perciò, la mia affermazione è sia vera sia falsa"


(M. Clark, I paradossi dalla A alla Z, Raffaello Cortina, Milano, 2004, p. 131)


In un post recente, esaminavo brevemente la natura dei paradossi. Nel presente, invece, desidero spendere solo alcune parole di commento su uno dei paradossi più celebri, il mentitore.


Suvvia, chi di noi può dire di non aver mentito almeno una volta nella vita? Pierino per aver mentito, non viene più creduto. E questa sembra essere la giusta conseguenza per i bugiardi: la mancata attendibilità.



Ma questo solo se possiamo sapere subito se una persona è adusa o meno alla menzogna. In assenza di tale informazione, quanto sostiene è vero e falso al 50%.



Come possiamo comportarci allora?




Clark formula la dinamica che segue all'asserzione autoreferenziale "Io sto mentendo", variazione della proposizione (P) che ho discusso altrove.




Se abbiamo l'enunciazione presente e ci chiediamo se sia vera o meno, ecco che scatta il perverso quanto bizzarro meccanismo del paradosso: se è vera, allora l'enunciazione è falsa; parimenti, se è falsa, allora è vera. Dunque, e paradossalmente, nel senso di andare contro ogni nostro più intimo e rafforzato convincimento interiore, abbiamo innanzi un'enunciazione che possiamo senza timore tacciare di contraddizione. In che senso? Semplice, è un'affermazione tanto vera quanto falsa!



E qual è la causa di tutto ciò? Altrettanto semplice: la struttura autoreferenziale. Infatti, la proposizione in questione dice di sé stessa di essere falsa (qualcosa di simile, anche se non posso dirmi sicuro che sia la stessa cosa, accade se la stessa predicasse di sé la verità).




Ora, immaginiamo di formulare proposizioni che sulla falsa riga di quella presente, mettino in scena il meccanismo perverso e sorprendente dell'autoriferimento ...


Avremmo in tal caso, altrettanti casi di paradossi?



(immagine tratta da: http://www.davidealgeri.com/images/stories/parco-di-pinocchio.jpg)