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domenica 31 gennaio 2016

Scommettiamo?


Prendiamo in considerazione la "scommessa" pascaliana ...


Convinto della ragionevolezza della fede, egli escogita un argomento, a suo modo conclusivo, per dimostrare (oltre ogni ragionevole dubbio) l’esistenza di Dio, vale a dire la famosa “scommessa su Dio”.


Il punto di partenza è il seguente: poiché la ragione non può dire nulla su Dio, e, quindi, non può in alcun modo aiutarci a dirimere la questione, conviene scommettere sulla sua esistenza. 


In altri termini, poniamo caso che noi si voglia scommettere che Dio esista. Cosa possiamo dire? Se esiste, abbiamo scommesso bene in quanto, comunque sia, abbiamo guadagnato qualcosa, e segnatamente l’infinito, vale a dire la beatitudine. Se, invece, non esiste, non abbiamo comunque perso molto ma solo qualcosa, e segnatamente i beni terreni, ossia il finito.



Poniamo, invece, che noi si voglia scommettere sulla non esistenza di Dio. Cosa accade? Poniamo che Dio non esista. In tal caso, abbiamo comunque guadagnato qualcosa, e segnatamente i beni finiti. Se, invece, Dio esiste, allora abbiamo perso, e comunque, qualcosa, di certo non i beni terreni, che abbiamo sempre, ma sicuramente i beni del cielo, vale a dire l’infinito, la beatitudine eterna in altri termini.

Lungi da noi voler produrre mal di testa o capogiri o vertigini o nausea negli sventurati lettori, ma il senso della scommessa è chiaro: con essa Pascal vuol dirci che conviene sempre, e in ogni caso, scommettere su(ll’esistenza di) Dio! 


In altri termini, è sempre conveniente puntare sulla sua esistenza piuttosto che sulla sua non esistenza. Quel che si potrebbe guadagnare sovrabbonda, sempre e comunque, quanto, al contrario, potremmo perdere.


In altri termini, a chi potrebbe parlare Pascal? Solo agli uomini del suo tempo? Ne siete davvero sicuri?


(url: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/66/Pascal-old.png) 

martedì 26 gennaio 2016

Not signal

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This blog is not connected

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This blog will be active as soon as possible


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Its author will soon return to write ...


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Bye bye ...

lunedì 11 gennaio 2016

Pillole di #verascuola 2

Pillole di #verascuola 2

“Un altro diffuso convincimento riguarda il fatto che l’insegnamento sia più efficace se si avvale della tecnologia […] e che i curricoli (più multimedialità = più apprendimento) si debbano adattare ai desiderata dei giovani, i quali vorrebbero una scuola all’avanguardia. Sfortunatamente le risultanze scientifiche hanno sistematicamente smentito l’ingenua convinzione dell’automatico effetto benefico delle tecnologie”

(A.Calvani, Come fare una lezione efficace, Carocci, Roma, 2015, p. 36)

Le parole di Calvani sono quanto più preziose ci possa essere nel confuso e prono politicamente panorama pedagogico italiano. Infatti, a fronte di un’eccessiva e acritica adesione al mantra di tendenza del ‘più tecnologia = più qualità didattica’, Calvani sottolinea, e dall’alto della sua esperienza e del suo curriculum in merito, come un maggiore uso di tecnologia non si traduca affatto in un automatico miglioramento degli apprendimenti!
Ora abbiamo pure le ricerche a dimostrarcelo, ma, e di sicuro, bastavano un po’ di buon senso, così come pure un po’ di conoscenze minime di pedagogia, per evitare di cadere nel facile ed ingenuo tranello … D’altra parte, chiunque sappia come funzioni una lezione o come funzioni la scuola sa benissimo che le tecnologie sono dei neutri strumenti, privi di per sé di qualsivoglia valenza formativa, e che, al contrario, per favorire un innalzamento qualitativo degli apprendimenti se ne richiederebbe un uso funzionale …

Ma a fronte della #verascuola v’è l’edulcorata #labuonascuola ove, ed ancora, si cade nell’ingenuità di cui sopra e si propone un indecente Piano Scuola Digitale … avremo un giorno anche ottimi alunni digitali? Chissà!

lunedì 4 gennaio 2016

Pillole di #verascuola 1

Pillole di #verascuola 1

Di INVALSI e valutazione …

(versione intermedia di un lavoro più corposo presentato ad una webzine per la pubblicazione)

Nel corso del 2015, sotto la turbolenza professionale relativa ai progetti di (ennesima) riforma della scuola, peraltro molto penalizzante per la vita professionale, e modificante il ruolo giuridico, degli operatori scolastici all’interno della stessa comunità di apprendimento, sono state messe in campo azioni di più o meno velato boicottaggio delle annuali prove INVALSI. Queste ultime sono delle indagini statistiche centralizzate di valutazione esterna sugli esiti di apprendimento di campioni medi della popolazione studentesca.


L’INVALSI, Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione, a seguito del D.lgs n. 258 del 1999, sostituisce il Centro Europeo dell’Educazione e, di concerto con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, procede a rilevazioni periodiche dei livelli medi di apprendimento degli alunni. Esso «fornisce alle scuole molte indicazioni per la riflessione sui processi di insegnamento-apprendimento e per individuare priorità su cui definire obiettivi di sviluppo e interventi da mettere in atto»[i].

La sua storia è nota, ignoto il suo futuro, del tutto incerto il suo reale contributo al miglioramento del servizio pubblico di istruzione. Il primo riferimento diretto ad una valutazione del servizio scolastico la troviamo nell’art. 603 del Testo Unico, ovvero il D. Lgs. n. 297 del 1994. Vi viene espressa un’intenzionalità, ma è ancora assente un disegno completo sulla valutazione. Basta attendere tre anni e il discorso viene ripreso nell’allegato “Documento per l’avvio del servizio nazionale per la qualità dell’educazione” alla circolare ministeriale n. 403 del 1997. Nel 1998 si hanno le raccomandazioni OCSE le quali trovano declinazione nell’art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 275 del 1999 che introduce il sistema delle rilevazioni periodiche degli apprendimenti e della qualità del servizio erogato. Così, il D. Lsg. N. 258 del 1999, che trasforma il CEDE nell’odierno INVALSI, realizza il primo embrione di un sistema centralizzato di valutazione degli apprendimenti e della qualità del servizio di istruzione. Ma è «ancora un profilo debole»[ii]. Le cose cambiano nel biennio 2001 – 2003 quando il ministro Moratti dà l’input a dei progetti piloti che consentono di volgere il dibattito sulla valutazione nella direzione della costruzione di «un istituto nazionale e un sistema organico di valutazione»[iii].

L’art. 3 della L. n. 53 del 2003 individua e precisa i principi e i criteri da osservare per la valutazione degli apprendimenti e della qualità. Con il D. Lgs. n. 286 del 2004 si costituisce l’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema Educativo e di Istruzione (I – N – VAL – S - I). Tuttavia, è solo con la L. n. 176 del 2007 che le attività dell’istituto prendono concretamente avvio. Le vicissitudini delle prove INVALSI sono, dunque, storia recente: la scuola pubblica italiana le subisce da solo 7 anni! Eppure, pare storia antica! Con il D.P.R. n. 122 del 2009 abbiamo il riconoscimento dell’Invalsi e del sistema nazionale di valutazione degli apprendimenti attraverso la sua attività concreta nelle scuole.


In altri termini, le prove INVALSI dovrebbero servire a migliorare le usuali pratiche di insegnamento-apprendimento, focalizzando l’attenzione delle scuole sui punti di forza e di debolezza delle stesse. L’istituto dovrebbe fornire una base documentaria onde poter comunicare alla comunità di riferimento non solo la gestione economica – finanziaria, ma anche il capitale umano prodotto. Attraverso la misurazione INVALSI si completa, pertanto, la base di conoscenza che, assieme ai dati di gestione, rende conto all’esterno dell’attività della singola istituzione scolastica. Dunque, la misurazione degli apprendimenti, per come operata dall’INVALSI, è fondamentale nel processo di costruzione di un bilancio sociale, e, in un’ottica più vasta, nella prospettiva di una rendicontazione sociale delle attività annuali da parte delle scuole.


La sequenza di tale rendicontazione, a partire dalle verifiche INVALSI, può anche venir espressa nella forma che segue:
fig.1 – dall’interno verso l’esterno.

La responsabilità sociale delle scuole deriva da «un dovere di trasparenza e rendicontazione sull’operato non di un singolo individuo, ma dell’intera organizzazione»[iv]. Il principio della responsabilità sociale delle scuole, radicalmente imperniato sulla stessa finalità informativa dei dati INVALSI, mette capo ad una precisa imputazione di tipo conoscitivo sulla gestione delle risorse compiuta dall’istituzione scolastica e sui risultati della stessa.



Ma se questo è il modello generale alla base di qualsiasi processo di rendicontazione esterna, per quale motivo usufruire delle prove INVALSI? Non basterebbe una qualche forma di autovalutazione di istituto? Si tratta di una soluzione già in uso nelle istituzioni scolastiche, ma che non consente di cogliere il nesso tra tipologia di organizzazione scolastica e impatto sociale ottenuto da quest’ultima. Rispetto ai questionari di valutazione interna, dunque, i dati desumibili, oltre ad essere parziali, non consentono alcuna comparazione con livelli standard di apprendimento. Ne emerge anche una malcelata sfiducia nei confronti delle stesse realtà scolastiche di base, in vario modo considerate incapaci o inaffidabili quando si tratta di valutare, ed autonomamente, il proprio operato. Attraverso l’INVALSI, in altri termini, il “centro” governativo (Ministero; Governo; Parlamento; opinione pubblica; politica; etc.) opera un controllo (esterno) sulla “periferia” amministrativa, non fidandosi delle varie forme di (auto)valutazione interna delle istituzioni scolastiche, e tradendo, in maniera molto paradossale, la stessa fiducia accordata con il riconoscimento della piena autonomia scolastica.



Ora, sebbene i dati delle prove INVALSI in passato siano anche stati strumentalizzati sia nella polemica retorica contro i docenti, in vario modo ritenuti inadeguati alla funzione chiamati a svolgere, ma in maniera ovviamente del tutto decontestualizzata, sia nella forma della stesura di vere e proprie classifiche tra scuole virtuose, e, dunque, buone, e scuole non virtuose, e, dunque, cattive, Paletta invita alla cautela e a utilizzare in modo accorto la mole informativa desumibile[v]. Non basta rilevare, misurare, aggregare e comparare dati statistici, è necessario anche che la singola istituzione scolastica avvii una seria riflessione sui dati in suo possesso al fine di mettere in campo iniziative volte al miglioramento della propria attività istituzionale. E questo secondo la nota logica del controllo esterno, ovvero l’INVALSI ottiene e certifica una base di conoscenza che ritorna infine alle singole scuole per pretenderne una conseguente modifica organizzativa finalizzata all’attivazione di un processo di miglioramento.



Veniamo ora, anche seppur brevemente, alle ragioni di tanta ostilità nei confronti delle prove INVALSI. A fronte di una scuola ogni anno più povera e con risorse sempre più esigue, le uniche fonti di spesa in qualche modo aumentate sono il finanziamento dell’istituto di valutazione e le retribuzioni dei dirigenti scolastici. Tralasciando qualsiasi considerazione di opportunità e di meritevolezza riguardo a questi ultimi, i futuri super – presidi, o, il che è lo stesso, i presidi – sceriffi, della riforma “La Buona Scuola”, è quantomeno singolare che lo Stato aumenti la spesa dell’istituto senza richiedere a quest’ultimo un serio aumento di competenze e di attività. Così, mentre l’operatività effettiva dell’istituto resta immutata, ne aumenta la spesa. Basterebbe, allora, far osservare che si tratta di una cosa anomala, ma di per sé non pare sufficiente per rendere giustizia al profondo malessere dei docenti. Infatti, l’istituto si limita a:


fig. 2 – Attività invalsi.

In tale elenco, mancano due voci parimenti importanti, ma che pare non essere di pertinenza dell’istituto, vale a dire x) somministrare concretamente le prove agli studenti; e, xx) correggere materialmente le singole prove. Per compiere gli ultimi due passi è imprescindibile la buona volontà dei docenti. E, ribadisco: la buona volontà! Perché? La risposta è semplice, l’intera valutazione da parte dell’INVALSI “cala dall’alto” sulla normale didattica scolastica e viene imposta ai singoli docenti che devono poi 1) somministrarla agli alunni; 2) sorvegliare questi ultimi durante l’espletamento; 3) correggere i singoli questionari; e, infine, dulcis in fundo, 4) caricare i dati sulla piattaforma. Ovviamente, non un solo centesimo di euro viene loro elargito per questo volontariato che interrompe, a tutti gli effetti, la didattica ordinaria e che porta via svariate ore di attività (non) funzionale all’insegnamento.
E già tanto basterebbe per far comprendere la legittima ostilità dei docenti. Purtroppo, però, v’è dell’altro! Infatti, le prove in questione appaiono del tutto aliene rispetto agli apprendimenti curriculari. In altre parole, quel che misurano è uno standard di capacità, e non un livello medio di apprendimenti. Si tratta, pertanto, di prove estranee al normale curriculum scolastico e che non possono che suscitare più di qualche perplessità, e nonostante che, proprio per i motivi su esposti, non può che essere così dal momento che le misurazioni operate dall’istituto sono delle registrazioni (esterne) di parametri statistici (valutazione di sistema), e non delle verifiche (interne) di apprendimenti individuali (valutazione curriculare). Ed è, allora, se proprio si vuole guardare a fondo la dinamica tra singole scuole ed INVALSI, del tutto anomalo che a compiere simili registrazioni statistiche non sia del personale di tale istituto, o, al massimo, un personale ispettivo a ciò dedicato, ma lo stesso personale scolastico privo delle reali competenze per farlo con criterio o comunque non retribuito per tali scopi. Così, ad un sostanziale volontariato forzato si aggiunge il rischio di errori materiali imputabili alla differenza tra il momento di formulazione e produzione dei questionari e il momento di somministrazione, correzione degli stessi e ricavo delle informazioni da questi ultimi.



Ovviamente, la loro introduzione nel sistema, la loro finalità e il tipo di collaborazione tra singole scuole ed istituto potevano essere pensati diversamente e in un modo certamente migliore, ma, duole rilevare ogni volta, le politiche scolastiche vanno un po’ così: innanzitutto vengono imposte dall’alto alla meno peggio e richiedono in seguito, per poter funzionare, della disponibilità volontaria, e, quindi, non retribuita, della principale, ma forse spesso anche l’unica, forza lavoro a disposizione delle istituzioni scolastiche, vale a dire dei docenti. Così, in un turbinio di retorica governativa e di umore di pancia popolare, se le cose vanno bene, è solo perché ci sono ottimi dirigenti scolastici che reggono e fanno filare le istituzioni scolastiche. Invece, se vanno male è solo perché ci sono pessimi docenti, che sarebbe appena il caso di allontanare dalle classi.



La valutazione di sistema, dunque, in conclusione, sembra ‘schermare’ la responsabilità istituzionale e gestionale dei dirigenti e colpevolizzare oltre misura la responsabilità professionale dei docenti, oltre che render concreta una vera e propria ideologia del merito secondo la quale ««i capaci e meritevoli» sono i più intelligenti e volenterosi, mentre quelli che non riescono o non si impegnano o sono «limitati» sul piano cognitivo»[vi]. La differenza tra la retorica moralistica e le concrete dinamiche di sistema, invece, sta tutta nella capacità, ovviamente non innata, di interpretare ed utilizzare conseguentemente i dati derivanti dalla valutazione di sistema. Tutto il resto è lotta senza quartiere della politica scolastica e della guerra dei discorsi, a loro modo interessanti, ma, in fin dei conti, inadeguati a render conto dell’effettivo “merito” di tutti gli attori coinvolti nel funzionamento della singola organizzazione scolastica. In fondo, infatti, basterebbe maggiore buon senso. Come scrive Cerini, infatti,

Forse troppe speranze sono oggi rivolte alla valutazione. C’è il rischio di un’eccessiva enfasi sul testing (e sulla rilevazione standardizzata degli apprendimenti) come via privilegiata alla qualità della scuola. Prove di verifica delle conoscenze (e delle competenze) degli allievi dovranno quanto meno essere accompagnate da visite e sopralluoghi alle scuole da parte di team qualificati, che possano rilasciare report e suggerimenti per il miglioramento[vii]

Volendo tirare le somme, allora, potremmo utilizzare lo schema seguente al fine di comprendere meglio la natura oltre che la differenza tra la valutazione didattica e la valutazione di sistema:


fig. 3 – Differenti tipi di valutazione.

Tuttavia, a mio onesto modo di vedere, v’è un non – detto che rimane sempre sullo sfondo all’intera polemica sulla valutazione, vale a dire le conseguenze derivabili dall’accertamento dei meriti così come delle colpe dei vari attori. In altri termini, puntare sulla responsabilizzazione delle scuole senza però distribuire premi o punizioni a seconda dei meriti di ciascuno sembra non render conto, né giustificare fino in fondo, della veemenza con cui il tema è stato imposto e discusso nell’agenda pubblica. Una valutazione “forte” infatti sembrerebbe essere l’anticamera per un effettivo riconoscimento dei meriti individuali. Invece, almeno sinora, ciò non è accaduto. Come mai? La risposta che credo di poter dare è la seguente: (come sempre accade in Italia) le riforme si fanno a metà, né carne né pesce, perché per modificare qualsiasi assetto effettivo ci vorrebbero ingenti risorse e queste ultime o non ci sono o non si vogliono trovare (per ragioni estrinseche, ovviamente)! Così, si vorrebbe introdurre la valutazione, ma senza modificare le voci e i volumi di spesa. Pertanto, la valutazione di sistema in Italia è intrinsecamente debole: indica di sfuggita alcune criticità, ma lascia alla buona volontà dei dirigenti, come dei docenti, la scelta di cosa fare, su stretta base volontaria, ossia non incentivata, per migliorare gli esiti di apprendimento e la qualità del servizio reso. La logica, oltre che del tutto scontata, conseguenza è che l’INVALSI certifica non tanto gli esiti di apprendimento e del servizio di istruzione, quanto, e piuttosto, la costituzionale incapacità del sistema stesso ad aggiornarsi e a migliorarsi.



[i] Cfr. A. Paletta – C. Bonaglia – C. Boracchi – L. Peccolo, La scuola rende conto … op. cit., p. 74.
[ii] Cfr. D. Previtali, op. cit., p. 141.
[iii] Ivi, p. 143.
[iv] Cfr. A. Paletta, Scuole responsabili dei risultati. Accountability e bilancio sociale, Il Mulino, Bologna, 2011,  p. 99.
[v] Ivi, p. 121.
[vi] Cfr. N. Capaldo – L. Rondanini, Manuale … op. cit., p. 434.
[vii] Cfr. G. Cerini, Premessa: l’etica del render conto, in G. Cerini (cur.), Il nuovo dirigente scolastico tra leadership e management, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2010, p. 280.