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giovedì 27 giugno 2013

Stato senza relativa società?




Raramente ci s'imbatte in tomi di questo genere: sapere unire sapientemente conoscenza giuridica a conoscenza storica. Cassese ci riesce efficacemente, seguendo una provocazione precisa e che ha segnato, nel bene come nel male, più nella seconda che nella prima delle due alternative, la storia recente del Nostro Paese, attraversato, com'è noto, da opposte mitologie divisive le quali hanno spinto a considerato il 150esimo dell'Unità una sciagura di carattere generale più che un'opportunità per tanti.



Ad ogni modo, l'unica indicazione che qui voglio registrare è un rimosso della coscienza storica nazionale, ossia la messa in evidenza del carattere "continuista" nella storia del Paese. Detto altrimenti, fatta l'Unità nessun Governo si è posto il problema di come adeguare gli istituti e i regolamenti del Regno di Sardegna, ovvero di un piccolo Stato, alla nuova, ed inedita, cornice statuale unificata. D'altra parte, la questione venne in qualche modo messa tra parentesi mentre ci si concentrò piuttosto sul garantire un minimo di ordine sociale, agendo sugli apparati centrali ma ignorando tutti i passaggi intermedi dal "centro" alla "periferia". E d'altra parte, le élites piemontesi nulla o molto poco sapevano del resto del Paese, Cavour non si recò mai al di sotto di Firenze ... come avrebbero potuto concepire il loro Regno come qualcosa di inedito? Di nuovo? Di diverso dalla familiare e rassicurante simbologia regia?


Ragion per cui, lo Stato italiano appare più la normale continuazione del Regno di Sardegna senza però operare in alcun caso i necessari aggiustamenti di percorso. 


Scrive Cassese come "la costruzione di un nuovo Stato avrebbe richiesto interventi sulla sua costituzione, sull'amministrazione, sull'apparato giudiziario, sui rapporti tra poteri pubblici e cittadini. Invece, al centro dell'attenzione legislativa vi fu l'economia" (p. 46).



Non aver investito energie così come acume, nella costruzione istituzionale all'interno della nuova cornice nazionale, ed unitaria, fu un grave errore che, seppur giustificato se rapportato alle esigenze del contesto storico, non manca di esercitare duraturi quanto deleteri effetti ancora oggi.



Allora, raccogliendo la provocazione recante il titolo, l'Italia può correttamente, entro certi limiti temporali e concettuali, venir considerata una società priva di un adeguato Stato, ove, ovviamente, per 'Stato' devono intendersi tutti quegli apparati, intermedi e finali, di una cornice istituzionale unitaria.


Ma se ciò è sicuramente vero per gli anni immediatamente successivi all'unificazione, vale ancora oggi? Personalmente, sono propenso a rispondere negativamente a questa ulteriore sollecitazione.



(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/51lfNqYRZ9L._AA258_PIkin4,BottomRight,-47,22_AA280_SH20_OU29_.jpg)

mercoledì 26 giugno 2013

Ambiguità

"L’espressione linguistica tipica (ma non esclusiva) di una norma è un enunciato deontico: un enunciato che attribuisce una qualificazione deontica a un comportamento o un’azione. Gli enunciati deontici, però, sono affetti da una peculiare ambiguità. In contesti diversi, un unico e medesimo enunciato deontico può venire interpretato: 1) come espressione di una prescrizione, o di una norma; 2) come affermazione dell’esistenza di una norma […] Questa duplice possibilità d’interpretazione degli enunciati deontici è il riflesso di una duplice possibilità d’uso degli enunciati deontici. Un unico e medesimo enunciato deontico può venire usato, in contesti diversi: 1) al fine di prescrivere un certo comportamento, ossia di affermare che un certo comportamento è obbligatorio, vietato, permesso; 2) al fine di dichiarare che una certa norma esiste, cioè: al fine di informare qualcuno del fatto che secondo una certa persona, o una certa comunità di persone, o una certa cultura, o una certa norma, o un certo sistema normativo, un dato comportamento è obbligatorio, vietato, permesso"



(B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, p. 91)



Questa l'ambiguità di fondo del linguaggio normativo: discordanze sulla funzione o sugli usi del linguaggio medesimo? Ai posteri l'ardua ed inesausta questione.

domenica 23 giugno 2013

Sei tutelato, non lamentarti!



Si tratta di una retorica a dir poco strana e che, pur se sotto varie forme, suona, in genere, grosso modo, così: "Dal momento che tu sei maggiormente tutelato di me, per il lavoro che fai e per i diritti che, di conseguenza, ti vengono riconosciuti, non hai diritto a lamentarti né dello stesso né dei limiti che lo stesso presenta".



Se a ripetermela è l'uomo qualunque, l'uomo della strada, l'uomo che sulla piazza discetta di tutto, e che nulla sa del mio lavoro, pregiudizi o stereotipi a parte, alzo le spalle e tiro avanti, d'altra parte neanch'io so nulla del suo lavoro, e, quindi, non potrei mai e poi mai rispondere a tono ...



Se a ripertermela, però, è un mio collega, il quale, anche se magari malamente, sa benissimo come funziona la scuola italiana, comincio a preoccuparmi ...


Riflettendoci sopra mi convinco che sia una sorta di manifestazione della paurosa marcia indietro sui diritti che caratterizza le democrazie occidentali!



Chi me la ripete, infatti, è un precario della scuola, mentre io, a torto o a ragione, sono un effettivo della scuola. Allora, ogniqualvolta io ponga in evidenza limiti e criticità del "mio" mestiere, ecco che laconica parte la retorica: "Hai il coraggio di lamentarti? Tu sei di ruolo, io no, quindi, evita di proferire lamenti!".



A ben guardare, però, i miei non sarebbero lamenti, ma il legittimo esercizio di un diritto di critica, anche nei confronti del "piatto nel quale mangio".



Siccome, però, c'è sempre qualcuno meno tutelato di me, per rispetto della sua condizione, io, di ruolo, non dovrei lamentarmi (e quindi ingoiare qualsiasi rospo!) ...



Portata all'estremo, tale retorica imbavaglia tutti perché ci sarà sempre qualcuno messo peggio e rispetto al quale nessuno potrà più sindacare alcunché sul proprio lavoro ...



Dover guardare al peggio significa non chiedersi cosa fare per estendere i diritti anche a chi ne è escluso, ma sostanzialmente ridurli progressivamente anche agli altri.


Insomma, si realizza una colossale opera di marcia all'indietro sui diritti: dal momento che non tutti ne fruiscono appieno, riduciamoli anche agli altri!



E se tu osi porre in essere punti di debolezza del tuo lavoro, come salario, orario di servizio, utenza, team, e così via, devi stare zitto!



Non parlare, non fiatare, non muoverti!

Non sbandierare ai quattro venti i tuoi drammi, non volere a tutti i costi rendere partecipi tutti delle tue miserie!


Ipocritamente, allora, si afferma che siccome hai ancora un lavoro, devi tenertelo stretto, per rognoso e "stretto" che sia ...



Il che significa anche tagliare il mio diritto di critica, imbavagliare la mia lingua ...



Fortuna che ci sono ancora i blog!



Peraltro, la cosa ancor più sorprendente è la seguente: se ti lagni di tale retorica, i tuoi stessi colleghi se ne fregano! Così, resti solo ... tu e il divieto di obiezioni!



Allora, però, la retorica in questione risulta infine falsa: se non posso lamentarmi, mi manca una tutela (della libertà di pensiero e parola) ...


... ma questo sarebbe un discorso troppo lungo che la retorica in questione derubricherebbe a mero sfogo, e per il quale non osta perderci tempo sopra ...

Lasciamo allora che il vento fluisca placido tra le canne che si specchiano sul mare ...




(immagine tratta da: http://psicologoinfamiglia.myblog.it/media/02/00/443447200.jpg)


... e lasciamo ai tanti psicologi d'accatto, così numerosi sul web (senza però aver mai studiato psicologia ...), l'onere di diagnosticare al sottoscritto patologie personali e/o professionali ...

E tuttavia solo una cosa ancora: machissenefrega di tali pareri manco richiesti? Narcisisticamente, questo bisogno di diagnosticare patologie negli altri, cosa sarebbe?

venerdì 21 giugno 2013

La difficile arte del bilanciamento ...



Certamente oggi in Italia è difficile essere un giudice della Corta Costituzionale, chiamato più volte nel corso dell'anno a dirimere questioni dottrinarie, di principio e di lealtà tra parti dello Stato ...


Oggi si è fatto difficile il lavoro della Consulta sempre più esposta all'eccessiva litigiosità, tanto in orizzontale quanto in verticale, di tutti i giorni ...



Un giudice della Consulta oggi non può più stare tranquillo, il suo difficile mestiere da "straordinario" sta divenendo oramai "ordinario", non passa quasi più giorno senza che la sua arte non venga interpellata, e tirata a destra e a sinistra a seconda della convenienza di parte ...


Difficile appare oggi la difficile arte del bilanciamento dei principi e degli interessi di parte in un'ottica di giustizia costituzionale ...


Tutti vogliono avere ragione, e nessuno torto ...


Come i giocatori viziati di qualche top club, anche non facendone tuttavia parte, ognuno si lamenta dell'arbitro ...



Ciascuno si lamenta dell'ago della bilancia, al punto che se pende in direzione opposta alla mia, posso gridare allo scandalo, alla denegata giustizia, al colpo di Stato, e così via ...



Ovviamente, non è così ma che importa? La pubblica opinione, tranquilla nella sua percezione mediana e qualunque, recepisce che dei giudici mi stanno facendo un torto ...


Nessuno accetta più di perdere, figuriamoci se si può accettare un verdetto sfavorevole, sia pure di equilibrio costituzionale ...



Ho già sviscerato la fenomenologia del berluscones, dedico qui poche battute di commento all'ultimo increscioso episodio di persecuzione giudiziaria, la guerra dei vent'anni amplificano le sue emittenti, occorsa all'unto sceso tra i miserabili uomini comuni per salvarli, anche se non è affatto chiaro da "che cosa" ...



Giorno 19 Giugno 2013 la Consulta ha rigettato un ricorso, a sua volta sollevato nel 2011 dalla Presidenza del Consiglio, del Berlusconi il quale contestava al Tribunale di Milano il non aver accordato un rinvio di un'udienza ad altra data. Premesso che di per sé il Legittimo impedimento, così come propagandato dalla stampa "amica", e in parte anche dalla stampa "nemica", è una grava offesa all'uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, a meno che non si voglia accettare la formula Ghedini - Pecorella del "primus inter pares", variante formale dell'adagio comune "tutti eguali ma alcuni più eguali degli altri", e che quel che viene ribadito, per via ordinaria, è un principio costituzionale ovvio, per non dire banale, relativo alla lealtà tra apparati dello Stato, nonché tra rispettivi organi, di Governo e di Amministrazione giudiziaria, vediamo come i supremi giudici abbiano deciso come logica vorrebbe: avendo l'imputato spostato la medesima udienza più volte e una volta concordata, tra accusa e difesa, un data disponibile, l'imputato ha spostato una riunione del Consiglio dei Ministri proprio in tale data, senza motivi d'urgenza e senza spiegare più di tanto, il nuovo impedimento al Collegio giudicante. Ne consegue che bene ha fatto la Corte a procedere ugualmente all'udienza senza accettare un ulteriore rinvio.


Premesso ciò, veniamo ora ad esaminare la logica che sta dietro le ricostruzioni a posteriori della decisione della Consulta (rigetto del ricorso per violazione delle differenze di attribuzione tra diversi poteri dello Stato: la Magistratura avrebbe invaso la sfera di competenza dell'Esecutivo ...): siccome non è possibile che si diano due vincitori, ma solo una parte vince mentre l'altra perde, ecco che scatta l'accusa nei confronti dell'arbitro, in questo caso la Consulta, il supremo Organo, il Tribunale di legalità costituzionale. E come lo si fa? Proseguendo nella medesima logica binaria della competizione politica, o, se si preferisce, manichea: o con me, o contro di me! Pertanto, se la Consulta dava ragione a me, allora potevo dire che "la Corte ha stabilito il sacrosanto principio della sovranità dell'Esecutivo nei confronti delle prepotenze della Magistratura"; altrimenti, avrei potuto dire, ed effettivamente ho detto, che "la decisione della Corte è di natura politica la quale crea un grave vulnus per la democrazia dato che viene stabilito il principio della subalternità della politica alla magistratura".


Come si vede, pertanto, stante tale distopia deformante, che rimbalza nella gran cassa mediatica, questa è, a mio sommesso parere la somma della questione morale nostrana e del difetto di democrazia, ambedue eredità gravi dell'equivoco del '92, dal quale non usciamo, difficile appare l'arte del giudice costituzionale: barcamenarsi tra interessi contrapposti e dover bilanciare tra concorrenti principi ...


Qualunque sia la decisione, le reazioni seguono la medesima logica esclusiva: con una possibilità o con l'altra! 


Di fronte alla decisione, sembra che si debba per forza di cose prendere parte, pronunciarsi con una delle due contrapposte!


I berluscones, ovviamente, con il famoso perseguitato, novello Socrate, gli altri con i giudici ...


E qui sta il doppio, quanto speculare errore, a mio sommesso parere: se la Consulta ha deciso così, vorrà dire che ha ragione; si potrebbe adesso volgere lo sguardo altrove? Dedicare tempo ed energie ad altre questioni? Magari di gran lunga anche più importanti? E di carattere generale?


La Magistratura non certo bisogno di essere difesa, appunto a questo ci sono Presidenza della Repubblica e Consulta stessa.


Sintantoché ci caleremo dentro la logica contrappositiva del berlusconismo, non potremo avere alcun altro respiro né riuscire a veder altro.


E questo spiega anche il sostanziale immobilismo degli ultimi vent'anni ...


Il berlusconismo è stata una sciagura per il nostro Paese, un "tappo" per le normali logiche politiche ed istituzionali, un eccessivo corpo estraneo che si è messo di traverso nel normale fluire delle dialettiche pubbliche ...


E, forse, sino a quando non abbandonerà, spontaneamente o per raggiunti limiti fisici, l'agone della contesa politica, il suo destino personale verrà equivocato con quello della Nazione ...


O, se si preferisce, sino a quando non scomparirà dalla vita pubblica del Paese, il destino della res publica verrà equivocato con il destino suo personale ...


Ci son voluti vent'anni perché divenisse chiaro a quale disastro ci siamo consegnati, speriamo che non siano necessari altri vent'anni per uscire dall'attuale impasse!



(immagine tratta da: http://www.inchiostroverde.it/wp-content/uploads/2013/01/consulta.jpg)



martedì 18 giugno 2013

Questione di livrea ...

http://www.repubblica.it/scienze/2013/06/10/foto/parmitano_e_la_sua_sicilia_lo_scatto_mozzafiato_dalla_iss-60768618/1/

Riconosco la livrea, terra bellissima e maledetta, felice e disgraziata ...

Sono i tuoi figli di te degna?

Solo i silenzi osano rispondere a tanta arroganza!

Ma ciascuno in cuor suo, la verità conosce ...


venerdì 14 giugno 2013

Neo e vetero sul realismo ...

Memoria apocrifa di un mentitore

[Legenda: personaggi e abbreviazioni

Eubulide: introduttore – narratore (E)
Parmenide (P)
Nessuno (N)
Isocrate (I)
Liudvig (L)
Okin (O)
Sisifo (S)
Froid (F)
Saggio1 (S1)
Saggio2 (S2)
Saggio3 (S3)
Argo (A)]

E: Io, Eubulide, nel pieno possesso delle mie facoltà e sicuro dei miei ricordi, attesto quanto segue, cercando di riprodurre, per quanto possibile, il fruttuoso scambio di idee ed opinioni che fortunosamente noi mortali avemmo in quella ridente quanto ventosa cittadina sita all'estremità occidentale dell'isola a tre punte. Eravamo io, il venerando quanto terribile Parmenide, Ulisse, che chiameremo giocosamente “Nessuno”, Isocrate, noto storico locale, Sisifo, oscuro politico del luogo, tre anziani del posto, un cane e tre curiosi quanto strani uomini i quali hanno affermato di non appartenere alla nostra epoca. E non dubiterei delle loro amene parole s'io avessi il privilego di guardare con i miei occhi il loro bislacco abbiagliamento ... Francamente, la cosa mi appare in sé quantomeno dubbia, ma come posso mettere in discussione le loro amabili parole? Come posso non fidarmi di codeste inconsuete persone? Insomma, perchè avrebbero dovuto mentirci? Nemmeno io mento sempre, quindi abbiamo preso per buone le loro parole e, in nome dell'antica usanza ellenica dell'ospitalità, li abbiamo ospitato al nostro banchetto. Forse, però, abbiamo esagerato con il vino, delizia degli dei, tanto che, in preda ai fumi della digestione, ci siamo accomodati all'ombra sulla pubblica piazza e qui qualcuno, non ricordo esattamente chi, ha tirato fuori una questione molto di moda presso i pascoli, al punto che non temo diventi argomento famoso anche presso le cornacchie sui tetti prima che la stagione cambi. Siccome, però, di quella discussione sono il solo testimone, chi legge prenda sul serio le mie parole e non faccia come i poeti che, notoriamente, sono a tal punto gelosi dei loro versi da considerare gli dei invidisioni. Non sono geloso di queste mie memorie, non le considero parte di me, ma solo affabulazioni giocose di un burlone della mia risma … ma c'è forse qualcuno che può non prendermi sul serio? Che motivo potrebbero avere per temere ch'io dica cose false? Solo che provengo dalla brulla Creta? E allora? Ulisse, mio notissimo figlio della medesima terra, non andava forse in giro a spacciare menzogne? Eppure, lui gode di fama nobile, astuto e geniale, io invece per quale oscuro motivo dovrei esser considerato un bugiardo? Allora, narrerò quella giornata come s'io la vedessi ora davanti a me e mi nasconderò dietro le parole e i pensieri di chi partecipò alla conversazione in quella occasione. Tu che le leggi, accetta queste mie memorie, apocrife forse, ma veritiere. E qualora dovessero mancare di corrispondere a come andarono i fatti in tale occasione, non considerare di conseguenza come falso tutto quello che narrerò, ma come verità mancate quel che non appare del tutto vero e buone le altre cose che vi narro.

Nell'antica Lilybeum, un gruppo di allegri personaggi siede su dei sedili nella pubblica piazza, al riparo dal sole, e, tra un sorso di vino rosso e una risata, si confrontano su un tema difficile: la realtà.

P: eppur, per quanto la calura e questo caldo vento siriano mi offuschino il pensiero e il rigore, penso che una cosa sola possa dirsi della realtà …
I: che cosa, o sommo Parmenide?
N: sì, dicci saggio vegliardo, cosa può dirsi?
P: è ovvio, però, per la barba di Eracle! Una cosa, ed una soltanto: che è!
N: il lume del tuo genio immortale ancora riverbera e bagna questa landa aspra e brulla appena qua e là spruzzata dai toni severi degli olivi. Ma dimmi, oh caro maestro, se della realtà può dirsi solo che è, cosa può dirsi, invece, del sogno?
I: inusitata silloge, questa, a parer mio, ma interessante metafora! Il sogno non è realtà eppure, al pari delle cose che sono, esiste … come ne usciamo, sommo Parmenide?
P: non abbiam bisogno di uscirne, ritengo io, se è vero che quando Pandora incautamente scoperchiò il vaso, solo una virtù rimase sul suo fondo, la speranza …
O: parole arcaiche volano alte per l'aere, credo, ma sogno e realtà non sono la medesima cosa sembra …
L: e dici bene, mio caro amico ignoto, ma più che le cose che sono quel che sono, mi interessa sapere cosa succede, se succede, quando le mie parole incontrano le cose che sono
P: e dici il vero, mio caro amico (di bevute) …
L: d'altra parte, se è vero, come penso, che i confini del mondo sono i confini del mio linguaggio, quando quest'ultimo riesce a rappresentare le cose del mondo? E cosa accade quando ciò succede?
I: qualcosa di simile mi chiedo io quando studio il passato … abbiamo non oggetti, che pur furono un tempo, ossia cose che non sono eppure dobbiamo trattarle come se fossero
P: quel che le cose sono, è comunque ben oltre quel che possiamo saperne e pensarne e dirne, ma da questi sentieri perniciosi con veemenza vi invito a distogliere i passi. Certo quando dico che la realtà esiste, dal momento che la realtà esiste per davvero, allora dico qualcosa di vero, altrimenti mentierei al riguardo, e sarei come i cretesi che mentono sempre, almeno così narrano le cornacchie sui tetti, no?
L: allora, per internderti, se non fallo, che tutte le volte in cui una mia proposizione rispecchia l'ordine delle cose che descrivo, le proposizioni sono vere? Altrimenti sono false?
I: e come potrebbe essere altrimenti, mio caro sconosciuto del tempo che ancora dev'essere?
N: temo, però, che sospinti dalle agili spinte di Eolo noi ci stiamo un po' allontanando dalla questione in discussione: che la realtà esiste mi pare una cosa banale, quasi inutile discuterne sopra, mi incuriosisce di più, al contrario, indagare la sua negazione, come i sogno, ad esempio, che non è reale eppure esiste al pari di … di me, di voi, di questa città!
P: Oh, nessuno, ardita e pericolosa è la tua lingua, scavezzacollo alfine, ma ragionevole il tuo discorso: se della realtà può dirsi che è, cosa può dirsi del sogno? Non è eppure esiste, come il sole, la terra, le donne …
I: o i fatti del passato, non sono più eppure esistono per noi storici …
S: per non parlare, miei cari, dei fatti sociali, di per sé abbiamo a che fare con astute invenzioni teoriche, eppure, in qualche modo, siamo costretti a pensarli come esistenti, alla stessa stregua delle cose del mondo!
F: ancora non potete saperlo, signori di una volta, ma molti secoli a seguire, scoprirete l'esistenza di tante altre cose che sfuggono pure alla luce degli occhi!
L: non anticipare i tempi, oh Froid! Lascia pure che si cullino ancora, sia pure per poco, nell'innocenza che solo la mancata conoscenza assicura! Ma torniamo al momento in cui dire che la realtà esiste coincida con l'esistenza della realtà: cosa accade in questo caso? Posso dire di incontrare la verità?
N: verità? Cos'è la verità? Dov'è la verità?
I: esiste qualcosa come la verità? Non fatemi ridere, ve ne prego, per la feta di Minosse!
O: se esiste qualcosa che noi tutti si possa chiamare univocamente verità, allora dovremmo sbarazzarci di tutta quella complessità che le scienze oramai han raggiunto. Ma, semplificando alquanto le nostre parole, possiamo pure dire che la verità è quel luogo ove le distanze tra le proposizioni linguistiche e la realtà delle cose quasi si annullano, se non fosse che comunque le prime e la seconda sono comunque due cose di natura del tutto differente
F: hai detto bene, mio caro Okin, nemmeno io avrei saputo dirlo meglio, sempre che il mio fantasma non prenda il sopravvento sulla mia debole indole
N: non seguo bene di cosa parlino lor signori, ma insisto nella riproposizione del mio problema: il linguaggio che tutti noi adoperiamo non ci consente, però, di parlare solo di quel che esiste, ma anche di quel che non esiste. Allora, chi o cosa ci garantisce nella verità?
P: simili affermazioni, però, mi fan raggelare il sangue nelle vene: quale uso dissennato del linguaggio può condurre a dire cose siffatte?
L: per scriteriate che siano, e lo sono, comunque le parole di Nessuno dicono una porzione di verità: qual è il fondamento che invera le nostre proposizioni?
O: i fatti, forse?
N: ma perché esistono i fatti forse?
I: il discorso si fa interessante, a parer mio, infatti quelli del passato li chiamiamo fatti, ma esistono forse?
N: non sono, e allora come possiamo parlarne dal momento che solo di quel esiste dovremmo poter parlare?
F: eppure, noi sentiamo, percepiamo, conosciamo e parliamo anche di cose che affatto sono, come le pulsioni che ci agitano e, in qualche modo, ci influenzano … e tuttavia se non sono, come possiamo parlarne?
I: penso, addirittura, se non erro, perché certo posso pure non dire cose veritiere, che in certi casi i fatti o le cose di cui siamo certi circa la loro esistenza, siamo proprio noi a costruirli …
P: qual corbelleria son costretto a sentire?
S1: non adirarti, caro venerabile, bisogna pur indagare la faccenda, perlomeno per stabilire se, e in quali casi, quel che esiste, esiste davvero …
S2: Oppure, se, e in quali circostanze, qualcosa possa pure non esistere …
S3: Che, detto in altri termini, significa, né più né meno, stabilire cosa possiamo conoscere, non trovate?
P: si potrebbe anche pensarla in questi termini, sì
N: ovviamente
I: certamente
O: senza dubbio
L: dissodiamo, allora, senza posa, il marmoreo linguaggio
F: e disveliamo gli inganni che senza cura l'inconscio deposita qua e là …
P: non so cosa sia tale inconscio, ma penso sia qualcosa di simile al sogno, no? Allora, la realtà sicuramente esiste …
I: e chi lo dice, oh caro Parmenide?
P: come fai, mio caro amico, a mettere in dubbio proprio la base, peraltro comune a tutti gli uomini, di ogni conoscenza?
N: ma chi dice che sia davvero la base della conoscenza? E chi ci assicura che sia comune a tutti gli uomini? Io posso dire che l'acqua è fredda mentre un altro che è calda … chi dice il vero? E chi il falso? E chi o cosa assicura che qualcuno dica il vero e qualcuno il falso?
P: il linguaggio, però, entro certi limiti, rispecchia la realtà. Quindi, se uno dice che l'acqua è fredda mentre un altro dice che è calda, è la realtà stessa a decidere della rispettiva verità o falsità
N: non trovi, però, Parmenide, che in tal caso la verità sia un concetto costruito? Ossia una categoria che noi mortali formuliamo per un uso pratico e concreto, come dirimere le dispute, sempre intorno alle parole, e mai intorno alle cose?
P: ma se così fosse, mio caro Nessuno, che altro potremmo fare?
I: stavolta ti do torto, Nessuno, e seguo le cautele di Parmenide: sebbene limitato, il linguaggio è l'unico strumento che abbiamo …
L: questo non comporti, però, gentili signori, indulgenza nei suoi confronti! Molti, infatti, sono i suoi inganni, per tacere degli errori in cerca dei quali immancabilmente, comunque, noi turri dovremmo andare in cerca
F: errori? Non parlerei in questi termini, quanto, piuttosto, nei termini di finzioni linguistiche, di maschere enunciative con le quali noi uomini agiamo
O: anche la stessa conoscenza delle scienze è una finzione di natura linguistica, per quanto, però, appaia dimostrabile tramite esperimenti …
N: altre finzioni, però!
O: non lo nego, certo, ma non si tratta più, però, di finzioni come quelle dei poeti o dei narratori, ossia di falsità create ad arte per suscitare il diletto di chi le ascolta …
P: chissà, cari amici, cosa penserebbe il sommo Omero di queste nostre parole, ma veniamo all'obiezione mossami dall'astuto Nessuno …
N: attributo datomi da altri, non mio …
I: un esempio concretissimo di finzione, no?
N: insomma, ma può starci
P: ma penso che sarebbe più utile adoperare metafore per meglio intenderci tra noi …
N: te lo concedo, maestro!
I: vediamo
F: interessante!
O: stimolante!
S1: sperando che il flusso di pensieri e parole qui rifuso divenga chiaro
S2: lo sarà, se è vero, com'è vero certamente, che le cose possono essere come non essere …
S3: a me, però, piacerebbe proprio sapere non come siano le cose, o se possano essere, quanto piuttosto conoscere i limiti propri della umana conoscenza, ecco!
S1: penso che questa turba pensante di persone dabbene non possa mai tradire questa nobile aspirazine, comune a tutti noi, no?
S2: così pare, ma vediamo come evolve la discussione prima di trarne giudizi affrettati
S1: sì, vediamo, e conosceremo!
S3: vediamo, ma decideremo in seguito se abbiamo anche conosciuto e cosa
P: prendiamo allora, visto che siam d'accordo sull'uso delle finzioni, questo cratere di buon vino
I: è un cratere? Buono, davvero buono per esserlo del tutto …
N: vedete, io ritengo che le percezioni che delle cose possiamo avere varino da soggetto a soggetto e che la percezione in sé, che tanto ci piace equiparare a conoscenza, non sia altro che una costruzione sociale, non trovate?
P: prosegui adagio, mio buon amico, non intendevo certo dir questo. Sì, non è solo un cratere, dal momento che è empito con dell'ottimo vino, tanto buono da annebbiare la vista e rendere pesante il capo, ma dovremmo chiederci non cosa sia, ma se esiste. Insomma, è davvero qui davanti a noi oppure no?
I: posto il discorso presente in questi termini, temo che proprio nessuno possa dire il contrario …
N: in realtà, penso, che invece alcuni possano benissimo dire il contrario …
P: come il contrario? E negare anche l'evidenza? Oh, per i calzari di Cadmo!
N: lasciamo Cadmo della sua irrealtà onirica e veniamo a noi: certo che qualcuno può benissimo affermare che ol cratere nella tua mano destra non esiste, mio caro Parmenide, ma solo perché lo fa arbitrariamente!
I: intendi, non sensatamente?
N: ovviamente!
L: curioso modo di procedere … ma interessante sulle modalità che l'interazione comunicativa segue … ma vi prego, illustri signori, proseguite, continuate senza timori
F: se il significato di quel che diciamo è il frutto delle interazioni, di per sé dinamiche, tra parlanti, questo dibattito si profila davvero interessante!
P: francamente, trovo difficile seguirvi, ignoti signori del futuro, per come vi siete presentati a tutti noi, nondimeno, però, torniamo a questo cratere. Possiamo, dunque, affermare, e con sensatezza, che esiste, nevvero? Ne convenite?
I: arduo mi pare dire il contrario
N: sì, se intendi dire, mio buon Parmenide, che quel qualcosa che chiamiamo 'cratere' esiste …
P: bene, tanto mi basta! E ditemi ma quella fontana laggiù non è forse qualcos'altro di esistente? Che esiste come esiste il cratere che tengo serrato nella mia mano destra?
I: nessuno, penso, potrebbe negarlo
N: no, nemmeno io, ma desiderei tanto sapere dove vuoi condurci, oh Parmenide!
P: sulla retta via, lungo il sentiero del giorno ove è chiarezza e discernimento su quel che è e che non è, e, per conseguenza, su quel che è pensabile e dicibile e quel che, al contrario, non è né pensabile né dicibile …
N: sì, la fontana … e allora, caro Parmenide? Esiste, d'accordo, ma chiediamoci piuttosto: cosa esiste?
P: se concedi così poco, caro Nessuno, da dover subito eccepire e porre limiti, devo dedurne, forse, che poco t'interessi il fondamento di ogni conoscenza e che, piuttosto, brami di sapere come noi tutti conosciamo, con massimo disinteresse nei confronti di cosa viene conosciuto?
N: il punto è proprio questo, oh Parmenide: quella cosa là, la chiamiamo 'fontana', come mai? E quell'altra cosa, sotto ogni rispetto cosa differente dalla 'fontana', ma pur esistente, la chiamiamo invece 'cratere': perché? Sarebbe come dire che costruiamo un nome con il quale indichiamo tutte le cose simili, non trovi?
P: posso concedertelo, ma ancora mi sfugge il bandolo dei tuoi pensieri
N: arguta la tua battua, oh Parmenide, ma temo tu ti sbagli: i miei pensieri non sono smarriti, al massimo corrono agili lungo i sentieri ierti dei boschi, là ove sembra concentrarsi l'umanità stessa. Ma come mai tante cose diverse vengono percepite come simili ed etichettate sotto nomi comuni? Te lo sei mai chiesto, eh Parmenide?
P: mai le veloci fanciulle del Sole mi dissero cose simili, né tantomeno le agili giumente del desiderio mi sospinsero a tanto. Mi ricordi molto, e sotto molti aspetti, il furore fremente del giovane Patroclo. Ma, come i giovani, la tua esuberanza ti conduce ad un facile errore …
N: quale, di grazia?
P: facile: confondere conoscenza e conosciuto!
N: e che sarebbe mai, per la barba di Minosse!
P: quell'errore al quale giungono coloro i quali tanto s'intestardiscono dietro un pensiero ossessivo e finiscono con il sostituire il secondo con la prima! Così, anziché concentrarsi sulla conoscenza finiscono per farlo solo sugli oggetti di conoscenza. E tanto insistono che lo spicchio di luce, peraltro già molto ristretto, attraverso il quale ancora possono scorgere il mondo, si offusca del tutto. Al punto che, più nessuna differenza essi scorgono tra la conoscenza e i conosciuti, ed anzi: i secondi diventano la prima!
N: così pensi, oh Parmenide? Non pensi anche di esagerare?
P: affatto! Ma dimmi, piuttosto, come mai io chieda conto di quel che è e tu invece mi chieda di indagare su come chiamiamo quel che è!
N: forse perché le cose del mondo sono sì importanti, ma le valutazioni lo sono molto di più!
P: valutazioni? Da dove provengono? Chi ha parlato sinora di valutazioni?
N: non fingere, e non ingannarti, Parmenide, tutti noi qui riuniti, sinora, abbiam proferito valutazioni, opinioni, interpretazioni sulle cose del mondo, e questo è, appunto, il mio problema: come costruiamo siffatte interpretazioni? O, per dirla, come i milesii, come costruiamo il mondo?
P: ma il mondo non lo costruiamo affatto, esso è, al contrario, indipendente dalle nostre opinioni, così come dalle nostre conoscenze! Potremmo anche chiamare il 'cratere' con un altri nome, che so, 'piffero', eppure non per questo quel qualcosa che esiste e che altrimenti chiamiamo 'cratere' cessa di esistere!
N: e invece cessa proprio di esistere! E per noi che parliamo e per le generazioni a venire le cui pratiche linguistiche non contepleranno più l'applicazione del nome 'cratere' a oggetti siffatti!
P: il cambio di nome fa venir meno gli oggetti cui vengono applicati? Ma queli oscure stranezze mi tocca sentire! Che poi i milesii si chiedevano altro …
N: non fingere di non vedere, di non comprendere, una volta che una data cultura chiama le cose con un certo nome e tale nominazione si tramanda nel tempo, non importa più cosa sia quel qualcosa che chiamiamo con quel nome, anzi: il significato del nome stesso risulta costruito socialmente, come il frutto delle interazioni attive tra parlanti …
P: ma non è questo modo di procedere fallace? Le cose diventano nomi e questi ultimi tutto quel che importa … se non sono strane queste parole … dimmi, oh Isocrate, concordi con quel che dice Nessuno?
I: in parte, forse, oh mio buon Parmenide, ma sul resto dissento nella maniera più categorica ch'io conosca!
N: e cosa, in tal caso, non vi convince?
I: detto che i nomi restano etichette linguistiche che applichiamo alle cose nello strenuo, quanto vano tentativo, di indicare, e riconoscere come tali, le diverse cose presenti nel mondo, e che, pertanto, tali nomi nulla dicono veramente sulle cose cui si riferiscono, e possono cessare di essere utilizzate senza per questo influire affatto sulle cose stesse, c'è del vero in quel che dice Nessuno: se un antico re formula una tavola di leggi da rispettare, la validità di queste ultime si arresta alla loro efficacia. Una volta che non sono più efficaci, tali leggi, sebben valide, decadono, ossia muiono. In qualche modo, allora, una volta che nessuno più le nomia, ossia le proclama, gli oggetti di tali nomi, ossia i comportamenti condannati, seguono il triste destino delle loro nominazioni, ossia decadono. Sapessi quante volte, mio caro Parmenide, mi sono imbattuto in simili situazioni! Raccolte di leggi, codici, di società defunte, come le loro leggi!
P: questo, però, mi appare solo uno spostamento d'interesse, dalla conoscenza ai conosciuti, senza dir nulla di sensato intorno all'esistenza delle cose!
I: prendiamo ad esempio il mio lavoro, Parmenide: il pio Krasto, sovrano di Elimi, a tal compito mi ha destinato, nel ricostruire il passato di antiche civiltà. Ed umilmente mi sono dedicato, anima e corpo, a tale lavoro. Tuttavia, ogniqualvolta trovo una stele o una tavoletta di coccio con delle iscrizioni mi pongo il seguente problema: quanto ho davanti è una cosa reale oppure no? Inizialmente, si potrebbe rispondere di sì, dal momento che maneggio qualcosa in mano, ma la cosa mi fa problema. D'altro canto, essendo quel che maneggio una testimonianza di una civiltà che non esiste più, dovrei, più sensatamente, affermare che non esiste. Eppure, la tavoletta è lì nelle mie mani … allora, e più problematicamente, in quanto mera cosa, la tavoletta esiste, ed è nelle mie mani, nel contempo, però, e in quanto manufatto di una società scomparsa, devo convenire che è un nulla …
P: come puoi, mio caro Isocrate, affermare nel contempo che una stessa cosa sia e non sia?
I: hai ben donde a lagnartene, mio caro Parmenide, ma non riesco a dire le cose altrimenti: la tavoletta è e non è; è un nome di un'antica civiltà e non esiste.
N: esiste nella misura in cui parla di qualcosa che non è, dico bene?
I: benissimo, e nel contempo devo concedere che non è proprio perché parla di qualcosa che non è!
N: la tavoletta è una cosa che esiste, ma fondamentale, anche ai fini della sua propria esistenza, è l'interpretazione che ne possiamo dare, e che immancabilmente tutti noi diamo!
L: mirabile affermazione!
O: la stessa cosa può capitare in scienza: chiamiamo neutrino la conoscenza ultima da conseguire pur sapendo che la sua esistenza non può venir provata, ma solo suggerita per via delle limitazioni intrinseche ai procedimenti conoscitivi!
L: oh scienza, qual meraviglia per l'animo umano! Quale continua scoperta di limiti per l'umana conoscenza!
F: e tuttavia mi permetto di osservare come il problema in questa sede non sia il rapporto, di per sé problematico, tra 'nome' e 'cosa', ma il ruolo che le influenze, emotive, personali, sociali, culturali, hanno nell'attribuire ad una cosa quel nome, e non un altro, no?
L: d'altra parte, non è forse la conoscenza il gioco di scambiarsi significati?
N: e di modificarli quando non aggradano più?
P: ma modificarli significa anche dissolvere le cose cui si riferiscono?
L: a tal punto, cosa importa più delle cose?
N: contanto le intrepretazioni del mondo, non le cose
L: peraltro, i limiti del linguaggio sono, o non sono, i limiti stessi della mia esperienza, presente e futura?
P: certo una cosa è il linguaggio ed un'altra il mondo, ma da qui a sostituire il secondo con il primo, credo, ce ne corra! No?
I: il punto, caro Parmenide, non è cosa esista o meno, ma: come esiste quel che esiste!
N: il punto, e basta, è: come esiste per noi quel che diciamo esistere!
S1: si tratta, cioè, di una costruzione linguistica di tutte le cose?
S2: così pare: quel che esiste ha manifestazione, ossia sede privilegiata quanto unica di esistenza, nel linguaggio!
S3: o, per dirla altrimenti, quel che diciamo è, quel che non diciamo non è!
S1: e che quanto cambiamo nel dire, muore!
S2: e se gli finisce bene, diventa altro!
N: si trasforma come significato, ossia come quell'orizzonte rhetico al cui interno tutti noi dimoriamo. Anzi, quell'essere che tutti noi siamo …
P: questo è sì un parlare sicuro e ammaliante, ma mi è stato consigliato, ed in alto loco, di diffidare da questi ragionamenti, dai discorsi dei mortali che errano, coloro i quali presentano una doppia testa e parlano con lingua biforcuta. Il tuo discorso, oh Nessuno, è suadente ed ammetto che possa convincere più di uno sprovveduto, ma è, a parer mio, una grande mistificazione, un grande inganno, una grande finta del pensiero, o, se preferisce, una sua perversione.
L: sentiamo anche l'altra campana
O: e come mai, oh Parmenide?
F: polimorfo è il pensiero …
N: e sentiamo!
I: come abbiam prestato attenzione alle tue parole, adesso ne presteremo a quelle di Parmenide, oh Nessuno!
P: che il linuaggio sia una cosa e che la realtà sia un'altra cosa, mi pare cosa così banale che non merita neppure perderci tanto sopra a meditare. Piuttosto, pur essendo questo l'unico limite per la nostra conoscenza e per la nostra umana esperienza, il significato di qualcosa non può consistere esclusivamente nel gioco tra parlanti ma deve cercare di render conto di un riferimento che, in ogni caso, non può cessare di avere luogo. In ogni caso, comunque, qualunque siano il nome che diamo alle cose o l'interpretazione che desideriamo dare della realtà, dobbiamo riconoscere come quest'ultima resisti ai nostri nomi o alle nostre valutazioni, come sia indipendente e dai primi e dalle seconde, e come, per converso, non sia in alcun modo modificabile dal nostro intervento, né materiale né linguistico!
I. anche questo par vero, oh Parmenide!
N: e come la mettiamo, in tal caso, con la verità concorrente, poco fa da me esposta?
P: facile: una delle due è vera, e falsa l'altra!
N: così, di due verità ne avremmo una più vera e una meno vera? E non è forse questo un esempio lampante di costruzione di realtà, di significato, di interpretazione?
L: or la tenzone si fa interessante!
P: errore: mai può dirsi di una cosa che è e che non è!
N: e come risolviamo la contraddizione di poc'anzi, on caro Parmenide?
P: chi ci dice, per farti il verso, genersoso Nessuno, che noi si debba risolverla? Essendo una contraddizione, in sé e per sé, decade da sé da qualsiasi considerazione. E torniamo così, ben belli, all'alternativa secca di cui sopra: o le cose sono, e in tal modo non è sensato dire che ci sono anche cose che non esistono, oppure le cose non sono, ma in tal caso che ne parliamo a fare? D'altra parte, se non c'è luce, e segnatamante la luce del sole che consente di distinguere tra tutte le cose, tutto diviene possibile, e, dunque, anche pensabile e dicibile mediante il linguaggio. Ma è cosa saggia, al contrario, distinguere le cose che sono da quelle che non sono, e dire delle cose che sono o che non sono rispettivamente che sono o che non sono, mentre è cosa sciocca dire delle cose che non sono che sono e delle cose che sono che non sono. Chi ragiona o discute così o cerca di imbrogliare con discorsi agili e capziosi oppure non ha le idee chiare.
N: ma chi ha stabilito suddetta distinzione? E quali fattori esterni, umani, sociali, politici, economici, culturali, e così via hanno influito sulla sua configurazione? Quando dico che 'nulla c'è' non voglio certo negare l'evidenza di cose come il 'cratere' o la 'fontana' là, ma solo mettere il dito dove le costruzioni linguistiche umane sostituiscono l'esistenza naturale delle cose. D'altra parte, anche l'uomo può condividere con la natura la medesima funzione creatrice? Per intenderci, cambia qualcosa in termini di esistenza tra il 'cratere', manufatto umano, dal sole, manufatto naturale? E se il 'sole' cominciamo a chiamarlo 'luna', esiste più qualcosa che prima chiamvamo 'sole'? Io penso di no, e con me in molti oggi. Ma se ti aggrada, caro Parmenide, continuare a pensarla come si faceva molti secoli addietro, non sarò certo io a criticarti …
I: e tuttavia 'critica' ha sempre una doppia valenza: da un lato, significa 'sofferenza', mentre, dall'altro lato, significa 'opportunità'. Questo, a mio modesto modo di vedere, perché un periodo di crisi è sempre un periodo di transizione, di mutazione, di trasformazione: quindi, qualcosa si perde e qualcosa di inatteso fa la sua comparsa.
S1: nemmeno io saprei dirlo meglio. Ma non mi appare chiaro l'inciso di Nessuno: se l'interpretazione del mondo non altera la natura propria del mondo stesso, qual è il suo reale obiettivo polemico?
S2: anch'io percepisco la medesima difficoltà, ma con una sensibilità differente: se le intrepretazioni operano su qualcosa, non si tratta pur sempre di elementi secondari all'esistenza, o meno, delle cose? Peraltro, l'interpretazione, presa assolo, descrive solamente un'organizzione potenziale del mondo; bisogna, poi, vedere se, e in che misura, quest'ultima renda davvero conto del mondo.
S3: in effetti pensavo proprio a questo e vi ringrazio per aver illuminato le mie idee. Ora, penso siamo tutti d'accordo nel pensare, e dire, che esiste il 'cratere' nelle mani di Parmenide alla stessa maniera di come esiste la 'fontana' laggiù o quel cane lercio in fondo alla strada, dico bene? Se chiamiamo la fontana con il nome di 'fontana' o cominciamo a chiamarla 'cloaca', non penso che la cosa – fontana cessi di esistere. E lo stesso penso del 'cratere' o del sole o di noi qui presenti.
N: non vorrai, però, dirmi che non cessa di essere qualcosa per noi che la pensiero e la diciamo, spero …
S3: essere qualcosa per qualcuno, un pensiero come un discorso, nulla aggiunge o toglie, credo, all'esistenza in sé di tal qualcosa, no?
N: ma il punto, infatti, non è l'esistenza in sé delle cose, sulle quali proprio nulla possiamo sapere, pensare, o dire, quanto piuttosto comprendere come giungiamo ad avere categorie come il 'cratere', la 'fontana', il 'cane', il 'sole', e così via. Cessiamo di pensare come i milesii, la natura resta aliena alle nostre considerazioni, volgiamo dunque lo sguardo nei confronti della cultura umana, e delle sue espressioni: è là che si cela il grande, immenso, problema di quel che siamo, tutti noi, nessuno escluso!
S3: sicchè forse che tu, proprio tu, oh Nessuno, ne saresti escluso? Non vogliamo le Liutai escluderti dal loro canto pietoso. Ma se il problema è l'opposizione tra 'natura' e 'cultura', mi sembra ci siano dei problemi.
N: e difatti non intendo certo dire questo, ma noto come sia invalsa la tendenza a mistificarmi, dev'essere anche questo un banale esempio di influenzamenti esterni al discorso in sé
F: interessante questa lettura, ma mi scuseranno lor signori se faccio notare come non possediate ancora l'how known per comprendere i sottili meccanismi del pensiero umano …
L: sembrebbe un anacronismo, ma perfettamente logico per l'evoluzione della presente disputa
O: peccato per certi difettucci di esposizione, ma proseguite, miei cari, ve ne prego …
P: e lo faremo, caro Okin, non appena, però, Nessuno dirà a tutti noi, nessuno incluso beninteso, perché la cultura umana sarebbe più accessibile ai nostri pensieri, e alle nostre parole, delle cose di natura
N: risparmi, o Parmenide, le tue amene ironie, e rispondimi a tono, non lesinare affatto la tua sagacia: forse che mostriamo ancora oggi la medesima riverenza che un tempo i nostri padri mosravano nei confronti della sacra poesia omerica?
P: certo che no! Ma sempre sacri restano cotali versi immortali!
N: ma oggi meno sacri di ieri, no?
P: questo te lo concedo, ma dimmi, te ne prego, dove desideri arrivare …
N: è presto detto: non siamo oggi più increduli di un tempo rispetto ai prodotti, anche i più sacri, della nostra cultura?
P: nel senso che vi prestiamo meno deferenza?
N: non solo deferenza, ma anche la tendenza a prestari assenso, a credeveri sinceramente … insomma, chi mai oggi potrebbe credere alla guerra di Troia come effetto di una contesa tra dei? Eppure, quando Omero la mise in versi, tutti vi credettero e vi credevano, ma non per opportunità quanto per sincero assenso! Oggi non è più così, e la medesima tendenza possiamo individuarla anche per altri argomenti o oggetti o espressioni della cultura umana … prendiamo ad esempio la poesia di Eschilo …
P: prosegui, ti ascolto
N: egli narrò di Prometeo punito per aver osato conoscere, no?
P: così recitava il sommo Eschilo: conoscere è soffrire!
N: e quando scrisse tale tragedia, tutti vi credevano, e lo facevano con sincerità, nevvero?
P: come negarlo?
N: oggi le cose non sono più così, nevvero? I nostri giovani se ne fanno beffe, ed anche noi, credo, non ci crediamo più di tanto, se non per ossequio a quelle radici dalle quali, volenti o nolenti, tutti noi deriviamo …
P: ma il fatto che prestiamo meno assenso di un tempo alle narrazioni umane non implica, né di fatto né tantomeno di principio, che tali narrazioni di colpo scompaiono, no?
N: eppure, in qualche modo, scompaiono sì: se non vi prestiamo assenso, ossia non li consideriamo importanti e non li assumiamo più a modelli per la nostra condotta, è come se non ci fossero più!
L: arguto, oh Nessuno: puff! Spariti! (batte entrambe le mani)
P: ma questa, mi scuserai (rivolto a Nessuno), è solo una finzione! Una mistificazione! Scompaiono dai pensieri e dalle parole di alcuni, o di molti, ma continuano ad esistere come cose …
N: lontane dai nostri pensieri e dalle nostre parole, come possiamo affermare ancora che siano? Se non penso o non nomino il 'cratere', continua forse ad esserci? Se non penso o non nomino più la 'fontana', forse che esista ancora? E fintantoché non nomino il 'cane', è forse esistito per tutti noi? E l'elenco potrebbe continuare a lungo … (ammiccamenti all'indirizzo di Isocrate)
I: ti comprendo, on Nessuno, ma, ripeto, la tua posizione mi è estranea, anche se condivido parte della tua sensibilità: l'essere qualcosa per il nostro pensiero o per il nostro linguaggio è una condizione parallela, e non competitiva, dell'essere qualcosa per sé, né più né meno di quanto accade per nostre tavolette …
L: ma la significazione non è, forse, tutta interna al singolo scambio comunicativo che viene mandato ad effetto, cari signori?
I: ma questo specifico significato non è condiviso da tutti, mi pare …
F: divergenti e plurarli sono al riguardo le opinioni di noi tutti!
O: e ci mancherebbe, direi!
I: se così è, come risolviamo il dilemma di Parmenide?
N: decostruendolo per quello che è: una pratica linguistica che esercita retoricamente un dispositivo di potere sui parlanti!
P: mi scuserai, caro Nessuno, ma la tua obiezione è facilmente ribaltabile: cos'è, infatti, la tua pratica linguistica?
N: io adduco ragioni, tu invece?
P: posso dire di fare altrettanto!
N: no, invece, perché la tua opinione è più antica della mia!
P: e questo che c'entra, mi scuserai!
N: prendiamo quel cane lercio che dorme in fondo alla strada
P: per farne che, di grazia?
N: ora gli lanciamo questo mio calzare e gli chiediamo di portarcelo indietro, e vediamo chi dei due si aggiudica la palma della posizione vincente, che, beninteso, non significa di per sé anche che sia quella vera
P: non comprendo il senso del gioco …
N: tu chiamerai il calzare 'calzare' io, invece, lo chiamerò 'nottola' e, una volta lanciata accanto al cane, tu, oh Parmenide, gli chiederai di portarti il 'calzare' mentre io di portarmi la 'nottola'
P: comincio ad intuire: sicché a chi darà ascolto, decreterà il vincitore della contesa … inusuale, ma mi piace!
N: d'altra parte, se il calzare è un 'qualcosa', che, quindi, esiste, dovrà essere la medesima cosa sia per noi che per lui, no? Ma se il cane risponderà positiva all'una o all'altra sollecitazione, vorrà dire che l'uno o l'altro tra noi due avrà ragione o, perlomeno, più ragione dell'altro
S1: bislacca procedura di risolusione di una controversa!
S3: neanche i traci osano tanto, credo!
S2: stiamo vedendo, cari amici, qualcosa che nessuno prima di noi ha veduto …
L: mirabile esempio di testo che sconfina nel contesto!
F: non comprendo il tuo entusiasmo, Ludvig: è roba vecchia come il mondo!
I: nemmeno io l'ho mai veduta, prima!
N: siam tutti pronti, allora? (si toglie il calzare e guarda tutti gli altri)
P: sì
(Nessuno lancia il calzare accanto al cane il quale apre gli occhi e, pur non muovendosi dalla sua posizione, gli getta un'occhiata)

P: comincio io, se non ti spiace, Nessuno
N: nessun problema, fai pure!
P: qui bello, portami il calzare! So che vuoi farlo!
(il cane non si muove)
N: già pregusto il dolce sapore della vittoria (ammicca maliziosamente nei riguardi di Parmenide) avanti bello, portami indietro la nottola!
(il cane non si muove)
I: e ora come si fa? Chi ha vinto?
(giunge sulla piazza Sisifo trafelato e molto agitato)
S: perdigiorno che non siete altro! Ancora qui a cianciare? A blaterare? Quando vi metterete a lavorare? Eh? Quando vorrei sapere? I persiani hanno invaso l'isola di Delo e minacciano di raggiungere Lylibeum! Correte, dunque,alle armi, inutili sudditi!
P: vedi, oh Nessuno, com'è potente, l'urgenza del sensibile?
N: falla finita, Parmenide, forse volevi dire com'è irresistibile la forza del potere che si cela dietro le parole?
(tutti si alzano e la folla si disperde)
L: ma nessuno proprio viene a prenderci qui nel passato? Non vorrete forse dirmi che devo andare in guerra? Di nuovo? Ancora? No, grazie: già dato!
F: questo è l'inevitabile destino dell'umanità: lo spirito di morte primeggia sullo spirito di vita!
O: ma se usassimo anche solo un pizzico di razionalità, non ci troveremmo, forse, in situazioni consimili …
L: e come? Non hai visto come la razionalità si sia arrovelata senza trovare soluzione alcuna al problema?
F: peccato, però, per quel cane che inaspettamente non ha scelto né per l'una né per l'altra posizione! Mi ha sorpreso, davvero! E chissà cosa mai possa pensare dei nostri discorsi … guardate … apre la bocca adesso (tutti guardano in direzione del cane)

….


C: woff! Bau!

L: un'esatta deduzione, mio caro! Hai proprio ragione!
F: concordo!

O: non comprendo, ma dico io la stessissima cosuccia!



(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/3/31/Disputation.jpg/200px-Disputation.jpg)