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lunedì 27 febbraio 2017

C'è un diritto a morire?

Esiste un diritto a morire? Considerazioni chiarificatrici …

A vicenda conclusa, conduco le seguenti considerazioni.
Ogni volta, si ripete la telenovela. I suoi passaggi sono i soliti, mi si passi la sintesi estrema:

1. malato terminale o senza speranza alcuna di guarigione invia un appello al presidente della Repubblica di turno con il quale chiede aiuto;
2. lo stesso, successivamente, manda un appello al Parlamento affinché vari subito una legge sul “fine – vita”, o variabilmente sul “testamento biologico”;
3. segue un intervallo breve ma di intenso silenzio;
4. improvvisamente, chi per lui comunica che il soggetto si trova in Svizzera e che si sta sottoponendo alle visite del caso;
5. qualche ora dopo, il portavoce improvvisamente comunica che il soggetto “può sempre cambiare idea”;
6. segue un silenzio di poche ore;
7. improvvisamente, arriva il comunicato con cui si annuncia la morte “dolce” del soggetto;
8. qualche ora dopo, si diffonde un ultimo messaggio del soggetto defunto nel quale si recita sempre lo stesso bozzetto “muoio all’estero perché il mio paese non me lo ha consentito”.

Al netto delle vicende soggettive e del singolo caso, e a prescindere dall’umana sofferenza esperibile in questo come in tanti altri casi, ritengo sia doveroso svolgere alcune considerazioni. Non possiamo giudicare le persone, ma riflettere sulle loro azioni sicuramente sì. Certo, le presenti potranno piacere come non piacere, ma quando leggo di considerazioni di terzi che non mi piacciono, non nego certo loro la possibilità di intervenire nella discussione. Spero valga lo stesso per me.
La sequenza (1) – (8) è ovviamente frutto di un’abile regia la cui finalità finale è ben chiara: non fare l’interesse del soggetto, ma utilizzarlo per investire di onda emozionale l’elettorato nazionale. Sì, alla fine il soggetto ha avuto quanto chiedeva ma ciò non lo ha  certo messo al riparo da approfittatori o da abili persuasori che desideravano strumentalizzarne la sofferenza. E non credo lo si possa negare. Peraltro, è stucchevole annunciare che “può anche cambiare idea” dopo che, a proprie spese, lo si è trasportato in Svizzera. Forse anche ipocrita, ma è funzionale al gioco retorico messo in scena. Tutto per realizzare il colpo ad effetto finale: è finalmente libero.
Libero … da che cosa? E qui veniamo alle riflessioni più dure. Se nella messa in scena mediatica, una sorta di spot pubblicitario/propagandistico, è ovvio che la responsabilità del soggetto venga diminuita e sciolta nell’apparato che ne ha gestito le ultime settimane, comunicati compresi, sulle motivazioni delle sue decisioni ci sono molte cose da dire.
In primo luogo, la libertà del soggetto. Da una vita scintillante e pericolosa ad una vita immobile, oscura e con mille difficoltà prima assenti. È comprensibile che ci senta prigionieri, è la condizione propria di qualsiasi disabile, ovvero di chiunque non possa liberamente entrare in relazione e relazionarsi soddisfacentemente con gli altri. Ma è sempre vita. Ecco il primo problema: non si tratta di quantità, ma di qualità. L’assenza di livelli elevati di soddisfazione personale nella vita che si esperisce non c’entra con la libertà. Voleva liberarsi della propria libertà? Ma è morto proprio per poterla affermare … No, al netto dei giochetti retorici, il soggetto ha rifiutato la vita, asserendo di voler riaffermare la propria libertà. Magari quella di cui godeva prima dell’incidente, una solo ricordata ed enfatizzata, oppure una solo sognata ora che viveva con quanto gli era rimasto. Ma la libertà c’entra con la vita?
Secondo problema. Cos’è la vita? Un insieme di desideri e moventi correlati? Oppure tanto altro? In altre parole, quando asseriamo che la “vita è mia”, cosa intendiamo? Una lunga sequela di pensatori moderni ci hanno detto e ripetuto che la vita è nelle nostre disposizioni personali, ovvero che possiamo farne quel che vogliamo. In merito, ritengo che si tratti di una semplificazione che riposa su due equivoci, distinti ma vagamente confusi. Innanzitutto, la vita non è un bene che consumiamo. La sua fungibilità non c’entra nulla, ma proprio nulla, con la qualità del prodotto. Certo se intendiamo la nostra esistenza come un bene, è del tutto naturale desiderare il massimo del profitto, ovvero che il bene – vita sia perfetto, e non malandato o fiacco o di bassa qualità. Cosa ha rifiutato il soggetto in questione? La vita? No, la qualità del bene-vita. Ma considerare la vita un bene, come un’auto o una moto o il conto in banca fa il paio con l’altro equivoco cui accennavo in precedenza, vale a dire la diretta permeabilità della disponibilità della vita a sorgente dell’arbitrio morale. In altri termini, quando affermo che “ la vita è mia” intendo anche asserire che ne posso fare quel che voglio e, cioè, che sono io soggetto morale che possa legiferarvi sopra. Il che è, almeno prima facie, del tutto erroneo. Infatti, tale soggetto morale è adagiato su una fallacia tanto grossa quanto invisibile ai più, vale a dire che una cosa è la volontà personale del singolo un’altra cosa la sua possibilità tecnica. Detto altrimenti, non è affatto consequenziale che se voglio qualcosa, questo qualcosa rientri nelle mie disponibilità per il semplice fatto che esistano una o più tecniche disponibili all’uopo. Ciò significa che quando asserisco la “vita è mia” sto semplicemente ribadendo verbalmente, e con qualche altro atto, un mio desiderio, una mia massima, un mio capriccio, un mio arbitrio in altri termini. Ma il fatto che lo stesso sia (tecnicamente) possibile, non garantisce in alcun modo circa la sua moralità. Anzi, la possibilità non comporta la sua liceità, chi lo pensi o lo sostenga, volutamente o in buona fede, cade in grave errore. Penso che la filosofia moderna abbia parlato in merito di fallacia naturalistica. Ma ometterò la cosa per tutelare la sensatezza delle presenti considerazioni. Che sia tecnicamente possibile fare qualcosa alla (mia) vita non autorizza alcun passaggio immediato alla sua bontà assiologica. Questo perché non è la possibilità materiale a rendere moralmente buona una determinata azione. Quando si asserisce che la “vita è mia”, in realtà, si asserisce che quanto voglia farne della stessa è … un mio diritto. E così giungiamo all’ultimo stadio delle presenti considerazioni.
I difensori del gesto estremo, anche molto disperato, a dispetto dell’ingentilimento retorico presentato ai media, si trincerano dietro al valico insuperabile del diritto soggettivo. Ma cos’è un diritto? Dall’infanzia sino alla terza età, la nostra epoca è attraversata dagli assertori apodittici del diritto infallibile del soggetto. Questo è un mio diritto. Questo è un mio sacrosanto diritto. Questo è un mio diritto fondamentale. E così via. Tutto, o quasi, è considerato, asserito e difeso, come un diritto del soggetto che lo concepisce, asserisce e difende. Non è così, ovviamente. Non ogni desiderio personale è un diritto. Non ogni capriccio è fonte di diritti soggettivi. Non ogni arbitrio è sorgente di diritti. Il diritto sta alla vita di ciascuno come ciascuno sta al mezzo. Ecco il punto. I diritti sono strumenti per la vita del soggetto, non viceversa. Altrimenti, si verifica quello che, i più sapienti di me, chiamano i “diritti insaziabili”. Ovvero, la progressiva, ed inarrestabile, estensione del novero dei diritti ha come suo corrispettivo la scomparsa del senso stesso del diritto soggettivo, vale a dire della legittima pretesa del soggetto a godere di un certo trattamento di favore in accordo ad una sua particolare condizione esistenziale. Ma se io asserisco che “essendo mia la vita, è mio diritto farne quel che voglio” ci troviamo alle prese con un grosso equivoco la cui strutturazione epistemica è difficilmente districabile per via dei mille equivoci su cui riposa. Disporre della vita non è un diritto. Sarebbe semplice, ma i più fraintendono tra aspirazione e tutela degli interessi personali. La fungibilità della vita non si traduce in sua disposizione, come quando si tratta un qualsiasi altro bene. Addirittura, si potrebbe rincarare la dose dicendo che la vita non è un diritto. La ragione di ciò è tanto semplice quanto ignorata. La vita è un insieme di condizioni, di stati, di relazioni, di mezzi, di progetti, di variabili. Ne consegue che essa è il fine del soggetto. Allora, come può la vita diventare strumento nelle disponibilità del soggetto? Trattasi di mera strumentalità che tradisce la prospettiva arbitraria del soggetto stesso. Infatti, affermare l’esistenza di un diritto personale sulla vita significa asserire che la vita è sottoposta al dominio del soggetto, e che, quindi, è, né più né meno, strumento per l’affermazione del soggetto stesso. Si potrebbe pensare a qualcosa di più paradossale? Ma questo è l’esito, ipotizzo non frutto di adeguata riflessione e ponderazione, di un altro stile di pensiero, e di atteggiamento, che connota, in lungo e in largo, la nostra mentalità corrente. Infatti, è conseguenza del nesso volontàdiritto. Eccoci, così, giunti, all’ultima stazione, al cospetto del terribile diritto del soggetto. In realtà, quando asserisco “la vita è mia” sto giustificando il mio imperio sulla vita. Pertanto, ogni contenuto della mia volontà è equiparabile ad asserti giuridici, la cui forza è corrispondente a quella di prerogative personali accordatemi dalla società cui appartengo per via della sorgente intima e personale della volontà che legifera. Ma questo è un insensato scimmiottare nel piccolo giardino del desiderio personale del singolo il meccanismo pubblico e generale del riconoscimento di diritti. Ed è insensato perché equipara erroneamente volontà e trattamento di favore. Non è così. Non funziona così. È pericolosa come dinamica. Elevare a rango di pretesa soggettiva meritevole di tutela e promozione erga omnes significa abbassare il diritto a questioni di bottega o di commercio tra singoli. Non è un caso che tutti i commentatori si siano prodigati o sentiti in obbligo di asserire che “nessuno può transigere” circa la bontà del desiderio del soggetto in questione. È ovvio che un siffatto stato di cose rende ciascuno uno straniero morale in casa d’altri. Così, il terribile diritto del singolo eleva steccati altissimi tra il “sé” e tutti gli altri, come se a casa sua vigesse un altro diritto, altri diritti personali …
In effetti, a ben guardare, il soggetto in questione non ha chiesto né la fine dell’accanimento terapeutico, che d’altra parte non era in corso, né tantomeno di porre fine alle sue sofferenze, che una buona terapia del dolore avrebbe facilmente consentito. Il soggetto ha chiesto di morire, ha scientemente e deliberatamente chiesto di rifiutare la vita. È normale se si considera la vita un bene fungibile. Se è difettosa, la si può ben rifiutare. Non è forse un suo diritto? Non è un diritto di recesso? La strumentalità della vita, però, ha inesorabilmente ridotto il soggetto che la rifiutava a strumento a sua volta. Infatti, rifiutare la vita in nome di un diritto personale a rispedirla al mittente, in quanto qualitativamente non all’altezza, significa, né più né meno, che il soggetto stesso è infine mezzo del diritto che asserisce. Ecco qua il punto cruciale: l’estensione inesorabile del catalogo dei diritti ha il rovescio di rendere possibile l’inversione del normale rapporto tra il diritto e il soggetto che ne fruisce. In altri termini, ed è questo ciò che ostende la divulgazione sul tema, il soggetto è divenuto strumento di affermazione del diritto stesso, e non più suo fruitore. La sua vicenda è stata sapientemente adoperata per affermare la sovranità assoluta del diritto a disfarsi della propria vita. E poco importa che inizialmente sia stata una scelta consapevole del soggetto o che il tutto sia partito dal soggetto stesso. Il diritto in questione ha finito con il fagocitare il soggetto stesso, a sua volta ingranaggio nel meccanismo infernale attivato: atomizzare i soggetti in regni parziali di diritti personali. Infatti, quando asserisco che “la vita è mia”, asserisco nel contempo che “solo io posso farne quel che voglio”. Il che, però, comporta anche la scissione dei rapporti tra il soggetto in questione e la comunità di appartenenza. Non v’è più un vincolo generalista che deponga circa la bontà o meno dei diritti soggettivi.
E qui giungiamo alle ultime considerazioni. Proliferano foto e meme degli ultimi tempi. Cosa ci dicono queste immagini? Che una persona soffre. Il moto immediato è cercare di fare qualsiasi cosa per lenire tali sofferenze. E questo è, in effetti, il messaggio ultimo di chi ha confezionato la telenovela, vale a dire far accettare ai più l’idea, nonché la bontà, di un (presunto) diritto soggettivo a porre termine alla propria vita. Ma soffriva davvero? Ecco, l’immagine non ce lo dice, ma, nella sua crudezza, nella sapiente disposizione della sua scenografia medica e mediatica, ce lo fa supporre. Che significa? Significa che vi è un significato emotivo che le immagini recano pur mostrando altro. Si parla tanto di post – verità, ma in fondo la crudezza del presente attuale agisce sugli strati profondi della nostra coscienza e parla al nostro di presente, alla nostra di vita, alla nostra di salute, alla nostra di volontà. Sì, quella visione attiva il nostro dispositivo intimo e inconscio di difesa perché mostra, e ci rende tangibile, la nostra stessa fragilità umana, la vulnerabilità corporale che ci caratterizza. Nella storia del soggetto in questione ciascuno ha visto la propria vita, ha scorto il concreto rischio di fare la stessa fine, ha gustato l’indesiderabile condizione di vita danneggiata, di libertà limitata, di bassa qualità … E questo ha attivato il primordiale meccanismo di difesa dell’io, vale a dire la negazione. Temo di perdere tutto quanto? Temo di perdere la mia libertà? Temo di perdere le bellezze della vita? Bene, nego questo timore. Ma per negarlo, devo anche rimuovere ciò che lo causa, vale a dire la visione che percepisco, le stesse foto retoricamente e ad arte prodotte allo scopo di suscitare disgusto. La conclusione è asserire circa la volontà espressa dal soggetto, ossia negare la causa del suo di disgusto, la vita stessa. Ma questo ci spinge ad un’ultima considerazione, la seguente: la qualità di una vita non risiede spesso nella sua vera o meno qualità, ma nella sua relazione con i nostri desideri. In altri termini, non vediamo con gli occhi, ma con il ventre. Ed una volta abilitato il passaggio dal desiderio alla sorgente morale, nulla diminuisce questa miopia soggettiva. Ma non è un problema solo del singolo, ma dell’intera comunità. Infatti, il normale esito è un nichilismo giuridico dal momento che i diritti valgono non più per tutti, ma per il singolo utente o, comunque, in funzione della sua eccezionalità. Ne consegue anche come il singolo sia del tutto solo. E questa non è una ricchezza o forza, ma una profonda debolezza. D’altro canto, il fatto che il soggetto in questione sia stato affiancato da un vero e proprio apparato la dice lunga sulla condizione di emarginazione e di esclusione dello stesso. Questo dovrebbe sollecitare più d’una legittima questione circa la sua effettiva libertà così come circa l’accertamento della sua effettiva volontà. Una persona sola o indotta, più o meno direttamente, a considerare poca cosa la sua vita e, magari, anche spinta a rifiutarla. Era cosciente? Era libero di farsi una sua idea? Di ponderare i pro e i contro? Questo è un problema insidioso dato che potrebbe falsificare l’intera telenovela mandata in onda. Ma non lo sapremo mai, con un soggetto divenuto testimonial di una causa non propriamente sua, del “terribile” diritto a rinunciare alla propria vita …



(url: http://www.documentazione.info/sites/default/files/field/image/rfd-right-to-die-articlelarge.jpg)

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