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martedì 30 dicembre 2014

La valutazione del merito accademico



(url immagine: http://www.azioneuniversitariaroma.org/AU/wp-content/uploads/2012/06/Universitari-cover.jpg)


Sì, avevo promesso di non occuparmene, ma sbollita l'amara sorpresa della plurima bocciatura nelle procedure per l'ASN della tornata 2012, ho pensato di stendere le seguenti due o tre brevi considerazioni. In realtà, non ce ne sarebbe bisogno, dato che un commento "a caldo" l'avevo già steso nella prefazione al mio ultimo volume "Parva Logicalia" alle pagine 4 e 5.

Ma "a freddo" penso sia possibile aggiungere qualcosa ad integrazione, mica a ritrattazione, sull'opacità dell'intera operazione di valutazione dell'idoneità scientifica dei candidati.

Dicevo, bocciatura plurima. Infatti, sono stato bocciatoi in tutti e quattro, mi pare, settori scientifici disiciplinari per i quali avevo presentato, ingenuamente, candidatura. Compiendo una sintesi dei vari giudizi negativi, estrapolo i seguenti elementi, vagamente comuni:

1. carattere introduttivo e/o ricostruttivo delle pubblicazioni:
2. carattere poco originale delle pubblicazioni;
3. impatto trascurabile nel mondo accademico (numero di citazioni);
4. mancanza di ruoli pregressi e/o attuali nel mondo accademico (contratti di docenza; assegni di ricerca; funzioni di ricercatore; etc.);
5. superamento di due mediane su tre (con punteggio finale calcolato sulla base del numero di pubblicazioni ricadenti in specifiche categorie bibliografiche, con eccezione delle riviste di fascia A).

Sull'elemento 1 mi pare ridicolo aggiungere altro: un giudizio soggettivo, e non oggettivo, non può che non poter essere valutato ulteriormente. Peraltro, quanti accademici non hanno prodotto opere introduttive a determinati temi o di ricostruzione degli stessi? Per i valutatori della tornata 2012 è un difetto, non un merito.

Sull'elemento 2 trovo delle difficoltà. Quando una pubblicazione è poco originale? Forse quando s'inserisce all'interno di un serrato dibattito? Oppure quando si omette di citare altri autori e si finge che quel che si dice sia opera propria, peraltro originale? E se anche fosse, sino a che punto è lecito "copiare" senza dichiararlo? La scientificità di un lavoro andrebbe premiata, e non punita con la votazione di "scarsa originalità", no? Ma v'è un retro-pensiero che proprio non riesco a reprimere, e cioè: per dire che un'opera è originale ci vuole il serio e paziente impegno di lettura e valutazione, che significa leggere a fondo la pubblicazione e collegarla con i luoghi imprescindibili dell'argomento diretto e, sullo sfondo, al settore scientifico di riferimento. Ora, se tutto ciò non viene fatto e ci si limita a dire che la pubblicazione è "poco originale" mi vien da pensare che non vi siano stati né lettura né valutazione e che i revisori si siano limitati a scorrere "superficialmente" la/le pubblicazione/i, giungendo infine, in ciò influenzati dalla mancata conoscenza pubblica del correlativo autore, alla sentenza di "poca originalità". Non è così? Non è probabile che sia accaduto proprio così? Peraltro, ciò mi induce anche a pensare, data la mole di candidature, che i commissari siano andati dritto agli autori che conoscevano, per sentito dire, per averne letto in passato qualcosa, o che conoscevano direttamente per i loro trascorsi universitari oppure conosciuti "per presentazione" proprio in vista delle suddette procedure ASN. E che tutti gli altri siano stati scorsi con sufficienza e/o fastidio. Così, i primi sono stati tenuti in maggior considerazione mentre tutti gli altri in qualche modo andavano eliminati. Intendo dire che, almeno nel mio caso, il giudizio sia più una giustificazione ex post della valutazione collegiale indirizzata da due considerazioni generali: a) "chi è questo qua?"; e, b) "cosa ha scritto questo qua?". E il non trovare riscontri ha condotto al giudizio negativo che, però, andava, e solo successivamente, motivato. Ecco, allora, profilarsi lo strumento sempre utile, in una valutazione non trasparente e del tutto personale, della "mancanza di originalità". E chi, specie un valutato, può contestare un simile giudizio? Semplicemente non può. E difatti, pur essendo tentato, non ho fatto ricorso, proprio avrei voluto evitare altro ridicolo dopo tanto discredito gratuito.

Veniamo al punto 3, però. Avendo davanti circa 60 pubblicazioni, tra monografie, articoli e recensioni, del sottoscritto, i valutatori hanno fatto ricorso allo strumento meritocratico per eccellenza: il numero di citazioni dell'autore e/o delle sue opere. Scoprendo così che il sottoscritto non ne ha molte, solo due o tre di due opere. Bene, allora il suo impatto è trascurabile, che parliamo a fare ancora? Tutto bene, si potrebbe concludere, perché mi dolgo? Non ci si lasci abbagliare dall'ingenuità dello strumento "publish or perish" (o Google Scholar, se più aggrada) perché al di là dei numeri di punteggio ("rank") non dice proprio nulla sul reale impatto dell'autore. Ma restiamo legati alla procedura in questione. Io scarso impatto. Altri candidati idonei impatti pure minori al mio. Io bocciato, Loro idonei. Come mai? Questo, vale a dire la discrepanza di conclusioni a parità di condizioni, è quello che andrebbe motivato nei giudizi singoli, e non limitarsi a concludere, confortati dai numeri statistici, che l'impatto è trascurabile, ergo il candidato non è idoneo. Ma la cosa buffa è che se sottoponiamo gli stessi revisori, vale a dire i chiarissimi commissari, a loro volta luminari accademici nei vari settori scientifici disciplinari, si scopre che il loro impatto, registrato con i medesimi strumenti, è generalmente pari a 0, o giù di lì. Allora, la domanda diviene: la registrazione di un impatto zero è uno strumento dirimente oppure è uno strumento confortante di un giudizio già deciso (e sulla base di ben altre e certo più meschine considerazioni)? Penso che nessun commissario mi risponderà mai. D'altra parte, sono chiarissimi!

Sotto con il punto 4. Da più parti ci si lamentava della mia assenza dal mondo accademico. Lasciamo perdere le motivazioni di ciò, e concentriamoci solamente sulla seguente considerazione: in cosa vantare contratti pregressi o in corso avrebbe modificato l'esito della valutazione? Tocchiamo qui con mano, a mio sommesso parere, un neo del sistema universitario italiano. Infatti, l'attendibilità scientifica di X passa non tanto, o meglio non solo, per la sua produzione scientifica, quanto per il credito accademico che può vantare. Un credito maturato attraverso presentazioni, contatti informali, convegni ... tutte occasioni di visibilità vis - a - vi, io accademico conosco te giovane studioso ... Il resto, originalità, impatto, mediane, merito, passa in secondo piano! Se ti conosco e il mio caro collega, luminare di ...., garantisce su di te, perché non dovrei essere "leggero" nel valutarti? Ecco, dunque, lo scandalo delle procedure ASN: la cooptazione universitaria non solo è sopravvissuta al cambio di procedure di selezione ai ruoli universitari, ma è stata addirittura istituzionalizzata dietro il paravento delle procedure oggettive e occultata meglio dietro l'opacità della "trasparenza" gettata addosso a chi cerca informazioni. Poteva uno sconosciuto come il sottoscritto ambire a qualcosa di meglio, dato il sistema delle relazioni personali informali interno al reclutamento universitario? Sinceramente, no.

Punto 5. Quello che mi fa più rabbia. Supero due mediane su tre, con un certo punteggio complessivo, ma vengo bocciato, Idonei conseguono un punteggio inferiore al mio e non superano più di una mediana, promossi! Come mai? A caldo non capivo, ora, invece capisco. Tutto cristallino, chiarissimo! Stanti i punti 1 - 4, cosa importa più se X supera due mediane su tre mentre Y una su tre, piuttosto che tutte e tre? X è bocciato, tanto chi lo conosce o cosa ha fatto d'importante?, Y, invece, è promosso, e merita tutto il bene di questo mondo.

A conclusione, pertanto, di tali considerazioni urge aggiungerne ancora una soltanto. Ci sono amici che mi criticano per queste stesse considerazioni ("quale accademico ti vorrà mai un giorno dopo il veleno che hai sputato loro addosso?") ma da parte mia posso solo rispondere che: grazie a Dio, non ho bisogno di prostituire la mia lingua e la mia coscienza per ambire un dì ad un precarissimo posto universitario! Mi tengo la gloria vana dei miei lavori, con l'annessa coscienza pulita! Degli altri non mi curo!

post scriptum

a scanso di querele, non intendo certo dire che tutti gli idonei siano stati raccomandati o aiutati, ve n'erano pure di grande prestigio e davvero meritevoli, ma solo che nel mio caso singolo il giudizio è stato un tantino più severo della media generale. Tutto qui. E d'altra parte, se si ha la coscienza pulita, che fastidio possono dare le mie parole? Urla di risentimento di un povero mentecatto sfigato (e senza santi in paradiso)?

lunedì 29 dicembre 2014

La Buona Scuola!

"L’attenzione alla crescita professionale dell’insegnante, la creazione di ruoli di leadership a livello di curriculo, lo sviluppo del caoching fra pari, l’introduzione di programmi di mentoring, la sperimentazione di forme di «pianificazione collaborativa», nonché lo sviluppo di una gestione e un sistema decisionale che facciano dell’istituto scolastico il loro punto di riferimento, sono tutte testimonianze di come molte scuole e sistemi scolastici cerchino oggi di coinvolgere gli insegnanti nella vita e nelle attività che avvengono al di fuori dell’aula, con lo scopo di far assumere maggiori responsabilità in materia di politiche e pratiche che vengono adottate in tale ambito"

(M. Fullan – A. Hargreaves, Cosa vale la pena cambiare nella nostra scuola? Definire e raggiungere obiettivi significativi di miglioramento, Erickson, Trento, 2005, p. 22)

Questa è la normale dinamica dei rapporti di lavoro all'interno delle varie e singole istituzioni scolastiche. Ovunque, si cerca di far lavorare di più i dipendenti, ma sempre a parità di salario. Da qui la difficoltà, per gli operatori scolastici stessi, di trovare motivazioni ed energie per un aumento della produttività che non sia mero volontariato e che sia premio per la professionalità profusa. D'altra parte, se si lavora di più, non si dovrebbe percepire di più?

In altre parole, anche semplici e dirette: la buona scuola non è forse una scuola nella quale s'investe? Invece, tutte le politiche scolastiche dell'ultimo ventennio buono sono consistite in forme variamente dissimulate di aumento gratuito dell'impegno per il personale scolastico!

Ora, se davvero si vuole aumentarne la produttività, non sarebbe bene immettere risorse nuove nell'istruzione? Davvero si vuole continuare con la farsa delle riforme a costo zero? Oppure, quella del merito del personale, a quote invariate?

Il/la ministro/a, o chi per lui, ci pensi! Tanto le risorse, quando lo si vuole, si trovano ...


(url immagine: http://budgetngbayan.com/wp-content/uploads/2012/04/Stakeholder-engagement.jpg)

giovedì 25 dicembre 2014

Natività



"[1]In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. [2]Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. [3]Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. [4]Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, [5]per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. [6]Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. [7]Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.

[8]C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. [9]Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, [10]ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: [11]oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. [12]Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». [13]E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva:

[14]«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama».

[15]Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». [16]Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. [17]E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. [18]Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. [19]Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.

[20]I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.
"

(Lc II, 1 - 20)




(url immagine: http://www.maranatha.it/rosarium/immagini/gioia3w.jpg)



martedì 23 dicembre 2014

Non contraddizione aristotelica? Una replica!

Non è mia abitudine, ma stavolta lo faccio: il presente post è la risposta ad un commento che recentemente ho ricevuto al mio post da titolo Aristotele ... l'ingannatore!, e che trovate anche nella stessa sede come risposta.


(url immagine: http://www.gazebos.it/wp-content/uploads/20111007101103.jpg)


La ripropongo qui perché la trovo particolarmente "illuminante", e non me ne vogliamo i miei telchini!

Marco ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Aristotele ... l'ingannatore! Dialettica nell'elen...": 

E' il PdNC che fonda il Pensiero o il Pensiero che è il fondamento del PdNC?

Oppure la distinzione Pensiero / Incontraddittorietà è essa stessa una distinzione contraddittoria, in quanto pensare è pensare-incontraddittoriamente o non è pensare (ossia sono un medesimo: e distinguere un medesimo, come tu fai, è assurdo perché impossibile).

Ma un altro aspetto:
"L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere, passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC)."
Intendendo qui PdNC quale dimostrazione della innegabilità dell'incontraddittorio, chiedo:
la negazione del principio è reale o no?
Se è reale, allora il principio è realmete negato (e non è affatto riaffermato, ma appunto è invalidato);
se invece non è reale la sua negazione, allora non è reale nemmeno la sua riaffermazione elenctica.

Come ne esci?

Caro Kumpel Marco, innanzitutto ti ringrazio per il tuo commento: vuol dire che il post, benché pessimo, è stato oggetto di lettura, peraltro attenta, da parte di qualcuno.
Ma veniamo a noi, dato che non è affatto mia intenzione ignorare le obiezioni di terzi, oltre a non essere mia abitudine farlo.
Mi chiedi: “E' il PdNC che fonda il Pensiero o il Pensiero che è il fondamento del PdNC?”. Trovo che sia una reduplicazione, di per sé inutile, del problema. Infatti, potremmo, e provocatoriamente, riformulare il quesito nella forma seguente: il pensiero – con la ‘p’ minuscola – fonda il PDNC oppure è fondato dal PDNC? Così posta la problematica non ne usciamo. Infatti, qual è, se vi è, la distinzione tra pensiero e PDNC? Il pensiero è pensiero se, e solo se, funziona in conformità al PDNC, altrimenti abbiamo altro che non sia pensiero, ossia poesia, mito, narrativa, etc. Ma se il pensiero incorpora il PDNC, viene meno l’obiezione: non è che il PDNC fondi il pensiero e/o il pensiero sia fondamento del PDNC. No?
Ma passiamo alla seconda obiezione, di per sé, più interessante. Citando un mio passo, argomenti: “Intendendo qui PdNC quale dimostrazione della innegabilità dell'incontraddittorio, chiedo:
la negazione del principio è reale o no?”. Bene. Assumiamo che la negazione sia reale, di conseguenza, dici, il PDNC sarebbe realmente negato, e, quindi, invalidato. Problema: negare non equivale ad invalidare. La negazione, proprio in quanto tale, deve essere dimostrata, cioè reggere l’onere della prova. Onere che lo svolgimento stesso del movimento elenctico in Aristotele esclude in partenza. Detto altrimenti, per quale motivo ammesso, e non concesso, che la negazione del PDNC sia reale, dovremmo concludere che sia inutile proseguire il discorso dato che il PDNC verrebbe meno? E, per di più, chi o cosa ci assicura che così procedendo noi non si stia adoperando propriamente il PDNC che si nega e che vorremmo non più valido? Di conseguenza, la negazione del PDNC dovrebbe essere ipotetica. Ma, sostieni tu, “se invece non è reale la sua negazione, allora non è reale nemmeno la sua riaffermazione elenctica”. E per quale motivo, che possa dirsi sensato? Peraltro, mi pare che tu stia equivocando tra dimostrazione elenctica e sussistenza del PDNC iuxta propria principia. Intendo dire: Aristotele ha l’ardire di dire l’indicibile, vale a dire elevare alla dimensione di parola quanto quest’ultima, per virtù, presuppone. In altri termini, il logos non può parlare di sé stesso, pena o l’equivoco o il fraintendimento o l’errore o il girare a vuoto … la parola non può parlare dei presupposti o fondamenti della parola stessa! Tant’è che lo stagirita, infatti, evita questo problema partendo dal negatore del PDNC, senza in prima persona assumere l’onere dell’inevitabile prova che, in caso contrario, gli verrebbe, e giustamente, richiesta (parli del PDNC, bene dimostralo!). Ora, la dimostrazione elenctica nega la posizione del negatore del PDNC. Ci troviamo, cioè, in una posizione derivata e indiretta di confronto sul PDNC, oggetto al di fuori della portata stessa della parola o logos … Ma concediamo che la tua obiezione sia fattibile, ecco come ne esco: non è forse vero che per poter distinguere, e in maniera sensata, tra le due alternative, e per cogliere anche la presenza stessa di eventuali contraddizioni e incoerenze, non necessitiamo appunto del PDNC? Dunque, ti chiedo: possiamo davvero uscire dallo spazio di parola concessoci dal PDNC?

Chiusa finale: il gioco retorico di Aristotele è chiaramente una finzione, ma è drammaticamente efficace non tanto per la confutazione del confutatore del PDNC, il quale, a rigore, manco potrebbe sognarsi di costituirsi in quanto tale, dato che, a sua volta, dovrebbe proprio far uso del PDNC; ossia di quel che vorrebbe negare, ma nel momento iniziale del movimento elenctico, vale a dire quando pone l’unica condizione essenziale per lo spazio del discorso: dire cose che abbiano senso e per me e per te, pena il silenzio delle piante.



domenica 21 dicembre 2014

Annunciazione



(url immagine: http://www.maranatha.it/Festiv2/festeSolen/0325-w4.jpg)

"Venne un angelo dal cielo, 
si chiamava Gabriele: 
era lui del cielo divin messaggero
per annunziare lEmmanuele: 

«Ave Maria di grazia piena,
Iddio Signore è con Te. 
Tra tutte le donne sei tu la benedetta 
Madre dellAmore sarai, dice il Signor ».

Santa Maria, Madre di Dio, 
prega per noi, noi peccatori. 
Santa Maria, Madre di Dio, 
prega per noi, noi peccatori,
ora e nell'ora della morte. 
Amen!"



sabato 20 dicembre 2014

Jørgensen: dilemma o puzzle?



"mentre Jørgensen abbozza la sua logica degli imperativi […] la letteratura ha individuato nel suo articolo la prima formulazione di una topica ben precisa, sin da allora chiamata con l’espressione seguente: dilemma di Jørgensen"



(a. pizzo, Il puzzle di Jørgensen, in i. pozzoni (cur.), Schegge di filosofia moderna XI, DeComporre. Gaeta, 2014, p. 7)


Il segreto della distanza di Jørgensen dalla celebre topica che prende il suo nome, meglio conosciuta come dilemma di Jørgensen, è in  quanto segue: mentre lui costruisce un'elementare logica degli imperativi, tutti gli altri vi vedono la definitiva asserzione della separazione tra logica delle proposizioni indicative e una logica (?) delle proposizioni imperative. O, per meglio dire, mentre Jørgensen cerca di superare il puzzle che scorge prendendo in considerazione le proposizioni normative, altri vi leggono la constatazione di un limite invalicabile tra indicativi e imperativi.

In altri termini, viene cucito addosso a Jørgensen qualcosa che lui non s'è manco sognato di costruire.

Talvolta succede nelle polemiche accademiche/editoriali. Il caso presente insegna!



(url immagine: http://inchiostrovariopinto.altervista.org/wp-content/uploads/2014/01/10609531_10204477832769526_6852246169135392546_n.jpg)


(vedi anche la recensione al volume di Antonio Marturano dedicato appunto al dilemma di Jørgensen)

mercoledì 17 dicembre 2014

Leibniz e la domanda fondamentale

(riflessioni in progress)


(url immagine: http://cias.rit.edu/~ckb3412/MYM/Site/showcase/images/leibniz.png)


Nell’opera minore Principes de la nature et de la grâce fondés en raison (1714), Leibniz scrive che :

Fin qui abbiamo parlato come semplici fisici. Adesso è necessario elevarsi alla metafisica, e perciò ci serviremo del grande principio, in genere poco impiegato: Niente accade senza ragion sufficiente – vale a dire: Niente avviene senza la possibilità, per chi conosce abbastanza le cose, di rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare perché avviene così e non altrimenti. Una volta stabilito questo principio, la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione del perché esse devono essere così e non altrimenti[1]

Dopo aver parlato delle monadi e di come distinguere tra percezione e coscienza, il Nostro comincia a trattare in maniera metafisica dell’ordo rerum, vale a dire della natura iuxta propria principia della realtà che dimoriamo. Nel far ciò, però, non può non attingere ad un unicum principium, a ragione considerato il più importante di tutti, il quale pone in essere il fondamento di tutto quel che esiste. Tale principio è il cosiddetto principio di ragion sufficiente e sostiene che nulla possa avere luogo senza una sua ragion d’essere

Leibniz lo formula nella maniera seguente: que rien ne se fait sans raison suffissante[2]. In virtù di quest’ultimo, niente ha luogo senza che sia possibile indicare una ragione sufficiente a spiegare perché avviene proprio così, et non pas autrement[3]

Il filosofo ci sta dicendo proprio questo, vale a dire che nulla accade a caso e che una ragione trascendente l’ordine delle cose stabilisce cosa deve avere luogo e come. Ora, se nulla, ma proprio nulla, non può avere luogo senza una ragione che ne disponga appunto l’aver luogo, le cose che sono, in quanto sono, esistono proprio perché v’è una ragione che le fa essere, v’è cioè una ragione ulteriore che ne consente il passaggio, necessario, dal piano della mera possibilità al piano dell’attualità, ossia dell’esistenza, appunto come cose. 


Una tale ragione è sufficiente a produrre uno stato di cose reale, vale a dire attuale, consentendone la conversio dalla possibilità all’esistenza. Perché le cose siano, piuttosto che non essere, perché le cose esistano, piuttosto che essere solamente potenziali, è necessario l’intervento di una causa agendi efficace, vale a dire efficiente nell’indirizzare il corso reale delle cose, capace, cioè, di assicurare la continuità metafisica tra l’ordo rerum, di per sé del tutto potenziale ma non ancora attuale, e l’ordo rerum, di per sé del tutto attuale. Proprio l’azione di siffatta ragion sufficiente rende così conto dello scarto metafisico tra quel che rimane solo possibile e quel che, al contrario, è divenuto reale, ossia attuale, cioè esistentivo. La presenza di una tale ragion d’essere, infatti, rende conto del perché le cose siano come sono, e non altrimenti. 


Stabilito questo, la domanda fondamentale vien da sé: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Non una domanda banale, non una domanda facile, non una domanda scontata. Se quel che esiste esiste proprio perché v’è una ragion sufficiente, qual è tale ragione? Non appena il discorso da preliminare entra nel merito, e le questioni si approfondiscono, cominciano i problemi teorici. Questo e non quello, la realtà attuale e non un’altra realtà, qualunque essa sia, l’ordine presente e non un altro, la realtà e non la possibilità, come mai? Sì, v’è una raison suffissante che rende conto di ciò, ma più precisamente qual è? Al riguardo, ritengo sia possibile osservare una curiosa torsione speculativa in Leibniz il quale dal discorso metafisico passa agevolmente a quello ontologico, spostando il centro focale dal principio di ragion sufficiente ai suoi prodotti ontici. Pertanto, gli sembra lecito porre una domanda così particolare, relativa allo scarto ontico tra qualcosa e nulla. Ora, se la domanda fondamentale è di per sé consequenziale allo stabilimento del principio generale, secondo il quale nihil sine ratione, come mai esiste qualcosa piuttosto che nulla? Prima facie, suggerisce il Nostro, il nulla sarebbe più semplice del qualcosa, e, quindi, anche più possibile, ma così non accade, così non viene disposto dal principio stesso, così è stato decretato ove si vuole ciò che si puote. Esiste qualcosa, non nulla. Anzi, mentre qualcosa può esistere, nulla non può esistere. Il divieto ontico di traduzione attualista di una possibilità è attuale nel caso del nulla, mentre non esercita il proprio dominio nel caso di qualcosa. Di conseguenza, mentre qualcosa è, nulla non è. Ebbene, ci chiediamo con Leibniz: come mai accade proprio ciò, e non altrimenti? Perché esiste qualcosa, et non pas autrement? Benché apparentemente più semplice, nulla continua a non esistere, all’esatto contrario di qualcosa. Come mai? 

Tuttavia, a scanso di facili equivoci, bisogna chiarire il lessico di Leibniz. Il paragone di semplicità tra qualcosa e nulla non è indicativo della maggior o minore probabilità di esistere dell’uno o dell’altro, ma è correlativo della differenza metafisica tra le monadi. Infatti, le monadi sono semplici, vale a dire unità indisgiungibili. Quindi, nonostante che il nulla, ossia qualcosa che non è, sia più semplice, più vicina alla dimensione delle monadi, non garantisce sulla sua esistenza attuale. In altri termini, Leibniz attinge al discorso metafisico occidentale per proiettare lo stesso nella modernità, intendendolo, però, non sul versante dell’opposizione ontica tra essere  e nulla, ma su quello della molteplicità in luogo della semplicità. Detto altrimenti, il Nostro non prende posizione pro o contro Parmenide, vale a dire a favore o contro l’Essere e il Non-essere assoluti. Al contrario, Leibniz enuncia una domanda che è fondamentale rispetto al molteplice. Detto altrimenti, il Nostro formula una domanda che chiede conto di come mai dall’unità derivi la molteplicità, come mai dalla semplicità derivi tutto il resto, anche l’esatto opposto, il preciso contrario, vale a dire la complessità. Infatti, posta la domanda in questione, bisogna che sia possibile rendere ragione pourqui elles doivent exister ainsi, et non autrement[4]. Per Mugnai, osta far osservare come Leibniz consideri il possibile nei termini di un’assenza di contraddizione mentre il necessario «è ciò il cui opposto è impossibile»[5].


E tuttavia non si può non tener conto di una profonda suggestione teoretica che proprio il passo in questione suscita e che rimanda ad uno dei topoi principali della filosofia occidentale, vale a dire alla sistemazione metafisica della cultura occidentale operata dalla scuola eleatica. Infatti, il problema dello spiegare come mai dall’unità discenda la pluralità è la sfida fondamentale per la filosofia occidentale, la quale, per parte sua, ha risolto, o preteso di risolvere, in vario modo l’ardua faccenda, e che ha attanagliato la riflessione di alcuni autori in modo particolare. Il mio pensiero va a Parmenide e alla sua svolta ontologica consistente, in estrema sintesi, nello stabilire, una volta per tutte, la maniera corretta attraverso la quale si possa dire e pensare, una doppia svolta nel senso che è tanto ontologica quanto logica[6]


Da questo punto di vista, dunque, non può certo stupire la reazione di tanti autori contemporanei i quali, mossi dal medesimo spinto di contraddizione scorto da Severino[7], negano precisamente questo aspetto della riflessione parmenidea, polemizzano proprio con questa doppia movenza, appuntano i propri strali all’indirizzo della teorizzazione eleatica intorno all’essere, segnatamente l’essere assoluto di cui non parla il Nostro. 

Tuttavia, nello stesso tempo, ritengo sia corretto accostare proprio la presente domanda fondamentale, perlomeno nella precisa sfumatura semantica qui messa in luce, alla svolta compiuta da Parmenide. Infatti, se il problema è esattamente quello di rendere conto del passaggio impossibile dall’unità alla molteplicità, diviene plausibile quel che Cassin scrive in merito a Parmenide, sia pure attraverso il filtro critico di Gorgia, «è il movimento di differenziazione tra «non è» e «è», il quale suppone che si possa come minimo dire «non è» per distinguerlo, è l’atto stesso della krisis, a produrre la loro indistinzione»[8]. Il che significa, detto altrimenti, che «tutto quello che è, è sul modello del non-essere. Il quale comincia ad essere semplicemente perché lo si enuncia […] l’essere parmenideo non è altro che un effetto di qualcosa che viene detto, ma questo perché non esiste altro essere che non sia quello che è prodotto dal dire»[9]. In tale lettura, dunque, la metafisica parmenidea diviene logologia, vale a dire un particolare tipo di discorso il quale costituisce l’essere, la fa essere, lo trasforma da non – essere in essere. Come a dire che l’essere non è, ma lo diviene solamente se oggetto del discorso, del linguaggio, del dire che nomina le cose, facendole esistere. Per Cassin, allora, ma non esclusivamente per essa, l’ontologia è una finzione la quale, più correttamente, è una logologia, vale a dire un discorso che produce l’essere[10].


Ma torniamo ora a Leibniz. La domanda fondamentale, proprio in quanto tale, esplica la medesima funzione logologica? È il chiedere conto a produrre la medesima realtà chiamata in causa? Ecco il problema: la domanda è davvero fondamentale oppure è solamente il gioco dialettico che costruisce l’artefatto altrimenti nominato come principio di ragion sufficiente


Perché esiste un qualcosa, e non un niente? In altri termini, la questione presente consiste nel chiedere conto di quel che fa esistere qualcosa, e che assume rilevanza teorica nel momento in cui si pone a comparazione quel che è, ossia il qualcosa che esiste, con quel che pur potendo essere non è, ossia il qualcosa che non esiste, appunto il niente, o nulla. E com’è possibile che il medesimo principio qui appellato garantisca del passaggio continuo dal non-essere, vale a dire il nulla, all’essere, vale a dire al qualcosa? O, viceversa, medesima la dinamica costante dal qualcosa, vale a dire l’essere, al nulla, vale a dire il non-essere? La legge segreta dell’universo, vero e proprio tormento per gli ingegni filosofici d’occidente, persevera nel suo intimo a reggere le sorti contingenti del travaso di qualcosa nel niente, così come, in parallelo, di niente in qualcosa. E alla medesima legge intende presumibilmente rivolgersi Leibniz, nel suo chiedere conto del come mai essere e nulla, qualcosa e niente, unità e complessità, semplicità e pluralità possano dialogare tra loro e reggersi in mutui rapporti di derivazione.


Tuttavia, è solo per il tramite del linguaggio che le cose, così come i principi, sia pure con estrema difficoltà, possono venir pensati e descritti, anche a costo del fraintendimento, anche a costo dell’equivoco, anche a rischio della chiacchiera. Leibniz non si sottrae a tale pericolo, lo affronta di petto, cerca di portare dalla sua parte la vittoria ma, alla fine, credo si possa asserire, si invischia nella circolarità di una domanda che è fondamentale solo in quanto assume il fondamento come suo orizzonte conglobante.

(continuerà ... forse!)




[1] Cfr. G. W. Leibniz, I Principi razionali della natura e della Grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ibidem.
[4] Supra.
[5] Cfr, m. mugnaiPossibile/necessario, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 116.
[6] Cfr. A. Pizzo, Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è», “Dialegesthai”, XIV, 2012, ISSN: 1128-5478, contenuto on – line: http://mondodomani.org/dialegesthai/ap20.htm.
[7] Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano, Adelphi, 20052, p. 27: « L'essere [...] non è la totalità che è vuota delle determinazioni del molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze, l'area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui si possa dire che non è un nulla. L'essere è l'intero del positivo».
[8] Cfr. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002, pp. 35 – 6.
[9] Ivi, p. 39.
[10] Ivi, p. 57: «Onto-logia: il discorso commemora l’essere, ha per compimento quello di dirlo. Logologia: il discorso fa essere, l’essere è un effetto del dire. In un caso, l’esterno si impone, e impone che lo si dica; nell’altro, il discorso produce l’esterno».

domenica 14 dicembre 2014

Argomenti ontologici e non ...

Dio non esiste!

Dio esiste!

E come fa ad esistere con il male nel mondo?

E come fa a non esistere dato il male nel mondo?

Non posso crederci ...

Se non dovesse esistere perché c'è anche altro nel mondo, esistiamo forse noi?

...

Questo, in estrema sintesi il messaggio spiazzante del video seguente.

mercoledì 10 dicembre 2014

Scuola ... il multiverso!

Faraone dice che si cambia verso ... magari così fosse! Di seguito la mail ...

"Carissime e carissimi,
sono Davide Faraone, ho 39 anni e sono stato
eletto deputato per la prima volta in questa legislatura.
Ora
il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, mi ha voluto come
Sottosegretario al Miur per rappresentare un governo che sta mettendo la
scuola al centro della propria azione, non solo a parole ma con i fatti.
italiana e per il Paese.
� davvero il momento della svolta per la scuola
scolastici. Sono migliaia gli interventi gi� partiti, e quelli in
Siamo partiti dagli edifici
E adesso La Buona Scuola. Ci stiamo
programma nei prossimi mesi, per rendere le scuole pi� sicure e pi� belle.
alcun coinvolgimento sulle scelte politiche che riguardano la scuola. Per
occupando di ci� che avviene nelle nostre aule. Da tempo non vi era questo abbiamo voluto ascoltare tutti, perch� l'istruzione
sar� l’Italia tra vent’anni dipende da come � la
� il motore per ogni sviluppo economico, sociale e culturale del Paese e la scuola � patrimonio di tutti i cittadini. Come scuola oggi, ripete spesso Matteo Renzi. � per questo che vogliamo
davvero tutti coloro che hanno voluto partecipare contribuendo alla
una Buona Scuola. La consultazione � terminata in questi giorni, con l’impegno del Ministro Stefania Giannini e di coloro che hanno collaborato al Ministero e nei territori. Ringrazio
mandare il loro punto di vista. Saranno soprattutto le critiche ad essere
riflessione collettiva sulle proposte. Ma il lavoro davvero impegnativo arriva adesso. Il piano ipotizzato nel documento del governo sar� rivisto alla luce delle proposte di coloro che hanno voluto vagliate. La complessit� della scuola � affrontabile solo se
scuola e per la scuola ha vissuto tempi particolarmente pesanti fatti di
ognuno di voi ci aiuter� a trovare soluzioni che migliorino i risultati delle nostre studentesse e dei nostri studenti. Questo � il nostro compito e la nostra speranza. So che chi lavora come voi nella tagli e spesso di umiliazioni. Ora si cambia verso! La tenuta del sistema � stata possibile proprio perch�
Davide Faraone"
abbiamo potuto contare sul vostro lavoro. Ed ora ci contiamo ancora di pi�. Potremo ottenere risultati solo con il dovuto impegno e con la necessaria motivazione di tutti. Abbiamo una grande responsabilit�, sono certo che lavoreremo bene insieme. Cari saluti

Davide Faraone"

sabato 6 dicembre 2014

Frammenti di considerazione sulla natura tautologica della ratio anselmi

(frammenti di una riflessione in progress)


(url immagine: http://api.ning.com/files/uiOgHOR8758iKiWs2dlYnIkaArjDXOgIot-8T88hggUu3EjvXe9Dy28bbjAbUXNyNq4xFB9JJB6y0p1nLM1g299GIHHbdbk-/SantoAnselmodeCantuariaCambridge.jpg)


Per Fabro, il ragionamento di Anselmo è semplice e consta di tre parti: 

1) considerare Dio l’essere perfettissimo; 
2) considerare l’esistenza una perfezione; 
3) considerare che tutti, insipiens compreso, comprendono Dio come l’essere pervertissimo[1]

Di conseguenza, proprio per via della definizione iniziale, non si può che concludere che Dio esista, altrimenti verrebbe meno la condizione secondo la quale Dio è un essere perfettissimo. Infatti, se non possedesse anche l’esistenza, come potrebbe possedere tutte le perfezioni possibili? 

Per negare che Dio sia l’essere perfettissimo si deve quantomeno possedere il concetto di Ente massimo (proprio perché perfettissimo). Ma l’Ente massimo non può esistere solamente nelle teste di chi lo pensa, e correttamente, lo intende, in quanto Ente dotato di tutte le perfezioni possibili, ma deve «esistere anche nella realtà»[2]. Anselmo ha così inventato l’argomento ontologico, una particolare strutturazione argomentativa in forza della quale si passa dal pensiero all’essere.

E l'insipiens? Tutto qua il suo ruolo? Tutt'altro!

Secondo Sciuto, lo stolto è colui che «non comprende ciò che dice»[3] e, facendo ciò, separa «parole e pensiero»[4]. Viceversa, anche lui concorderebbe con Anselmo nell’asserire la massima tautologia possibile, e cioè che Dio è l’essere al massimo grado di perfezione. 

Va da sé, ovviamente, il passaggio seguente, e cioè che, proprio perché perfettissimo, non può che esistere. Distinguere tra intellectum e res significa contraddirsi, significa pensare una cosa e crederne un’altra, significa intendere la nozione di Dio, come essere perfettissimo, e non intenderla, ossia comprendere Dio come non perfettissimo, significa cadere velocemente in un comportamento vizioso, credere in una cosa e agire in difformità da quest’ultima. 


Una volta che sia mostrata la vanità della contraddizione dello stolto, la sua negazione di Dio viene meno, decade spontaneamente. In altri termini, penso sia legittimo concordare con Brocchiero e Parodi quando sostengono che Anselmo mostri con estrema chiarezza la contraddizione cui va incontro l’insipiens «nel momento in cui nega il passaggio dall’esistenza mentale a quella extramentale»[4]

Piuttosto, e volendo concedere il massimo, lo stolto potrebbe dire solamente Deus non est, non anche pensarlo[5]. Così, lo sciocco afferma che Dio non esiste. Ma per farlo, deve contraddire la nozione stessa di Dio, l’essere perfettissimo. Tuttavia, non può tanto. Dunque, si auto-confuta dal momento che cade da solo in contraddizione, ovvero considerare Dio ad un tempo l’essere perfettissimo e l’essere non perfettissimo. 


Contraddicendosi, le sue parole non contano nulla. Seguendo le esatte movenze della dimostrazione elenctica del principio di non contraddizione, Anselmo fa ricadere sullo stolto l’onere della prova, dimostrando, dunque,sì che Dio esiste, ma senza farlo direttamente. Infatti, se lo stolto che nega Dio si contraddice, allora sarà vera la proposizione opposta, ossia che Dio esiste. È contraddittoria, dunque, qualunque proposizione che nega l’esistenza di Dio[6]


E questo è quello che fa Anselmo nel gioco dialettico con l’insipiens[7]. Se assumiamo ex absurdo che Dio non esiste, a quali conseguenze giungiamo? Perveniamo ad «una conclusione impossibile»[8]. Di conseguenza, non può essere vera la posizione ateistica. 


Pertanto, sarà vera la posizione teista. 


Ma questa è vera non solo perché è falsa la posizione opposta, ma anche perché riposa su un’evidenza difficilmente negabile, e cioè che Dio, per essere l’essere perfettissimo, deve esserlo tanto in intellectu quanto in re. Il carattere assolutamente evidente della prova anselmiana deriva dalla sua natura tautologica: non una mera ovvietà, ma una verità priva di condizioni di verificazione!



[1] Cfr. cfabroL’uomo e il rischio di Dio, Editrice Studium, Roma, 1967, p. 276.
[2] Cfr. eseverinoLa filosofia dai greci ai nostri tempi. La filosofia antica e medievale, Rizzoli, Milano, 20064, p. 283.
[3] Cfr. i. sciuto, Introduzione, a: Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996, p. 34.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. m. f. b. brocchierom. parodi, Storia della filosofia medievale, Laterza, Roma – Bari, 20055, p. 150.
[6] Cfr. a. pizzo, Argomento ontologico. Una storia convergente per una lettura divergente, Aracne, Roma, 2009, p. 26.
[7] Cfr. r. g. timossi, Dio e la scienza moderna. Il dilemma della prima mossa, Mondadori, Milano, 1999, p. 301.
[8] Cfr. a. pizzo, op. cit., p. 27.
[9] Cfr. E. bencivengaLa dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede, Mondadori, Milano, 2009, p. 20.



lunedì 1 dicembre 2014

Quel che significa genitorialità ...

Bellissima canzone di Elisa che descrive poeticamente quel che prova un genitore ...

"Sarà difficile diventar grande 
prima che lo diventi anche tu 
tu che farai tutte quelle domande 
io fingerò di saperne di più 
sarà difficile 
ma sarà come deve essere 
metterò via i giochi 
proverò a crescere 

Sarà difficile chiederti scusa 
per un mondo che è quel che è 
io nel mio piccolo tento qualcosa 
ma cambiarlo è difficile 
sarà difficile 
dire tanti auguri a te 
a ogni compleanno 
vai un po' più via da me 

A modo tuo 
andrai 
a modo tuo 
camminerai e cadrai, ti alzerai 
sempre a modo tuo 
A modo tuo 
vedrai 
a modo tuo 
dondolerai, salterai, cambierai 
sempre a modo tuo 

Sarà difficile vederti da dietro 
sulla strada che imboccherai 
tutti i semafori 
tutti i divieti 
e le code che eviterai 
sarà difficile 
mentre piano ti allontanerai 
a cercar da sola 
quella che sarai 

A modo tuo 
andrai 
a modo tuo 
camminerai e cadrai, ti alzerai 
sempre a modo tuo 
A modo tuo 
vedrai 
a modo tuo 
dondolerai, salterai, cambierai 
sempre a modo tuo 

Sarà difficile 
lasciarti al mondo 
e tenere un pezzetto per me 
e nel bel mezzo del 
tuo girotondo 
non poterti proteggere 
sarà difficile 
ma sarà fin troppo semplice 
mentre tu ti giri 
e continui a ridere 

A modo tuo 
andrai 
a modo tuo 
camminerai e cadrai, ti alzerai 
sempre a modo tuo 
A modo tuo 
vedrai 
a modo tuo 
dondolerai, salterai, cambierai 
sempre a modo tuo"

(Tratto da: http://www.angolotesti.it/E/testi_canzoni_elisa_104/testo_canzone_a_modo_tuo_1818117.html)