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martedì 28 agosto 2012

Aristotele ... l'ingannatore! Dialettica nell'elenchos


[Quanto segue riprende idealmente un discorso già avviato ed espresso in questo post. Il presente, invece, desidera analizzare in termini dialettici la dimostrazione indiretta che Aristotele offre del principio di non contraddizione. SI tratta ancora di una bozza, ma presenta già molti aspetti interessanti]

Il dilemma della “prima mossa” nell'elenchòs aristotelico

Il topos classico, per quanto concerne il principio di (non) contraddizione (PDNC) è certamente Metafisica IV. ove Aristotele cerca di dimostrare la natura fondamentale dello stesso, evitando nel contempo di cadere in una facile petitio principii, data la sua strutturazione esigenziale.
Possiamo leggere, nella traduzione del Reale, come

Ci sono alcuni […] i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare […] Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i principi. Ora alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito, e in questo modo, per conseguenza non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione [1]

Solo chi ignora il (PDNC) potrebbe, a detta dello stagirita, desiderarne anche una dimostrazione. Questo, però, è impossibile dato che esso è il principio alla base di tutto. Anzi, Aristotele sembra anche dire che è proprio grazie all'esistenza del (PDNC) che è possibile fornire dimostrazione di altri principi. Di conseguenza, il (PDNC) regge l'intero edificio speculativo, assicurando sensatezza, coerenza, credibilità, verità alle proposizioni di quest'ultimo. La stessa metafisica, in quando scienza che mira a studiare l'essere in quanto essere, si fonda sul (PDNC), a sua volta, pertanto, garanzia di dimostrazione. Pertanto, come può il (PDNC) esaudire i desideri degli ignoranti i quali, non convinti della bontà dello stesso, chiedono una sua dimostrazione? Simpliciter, il (PDNC) non può dimostrare il (PDNC): un procedere in questo modo sarebbe vizioso, circolare. Se il (PDNC) cercasse di dimostrare sé stesso avremmo la situazione paradossale, quanto innaturale, seguente: lo strumento della dimostrazione che desidera dimostrare sé stesso. Come può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Come può lo strumento farsi a sua volta fine? E come può darsi, in ultima istanza, questo fine se si dovrebbe realizzare la condizione seguente: uno strumento che si fa strumento di sé? Per questo motivo, solo per ignoranza, dià apaideusían, si può volere una dimostrazione del (PDNC), chiederne una prova: è solo in virtù del (PDNC) che è possibile dare dimostrazione. Come chiedere dimostrazione dell'organo di ogni dimostrazione? Semplicemente, non è possibile, è insensato farlo.
In precedenza, sempre Aristotele aveva sottolineato la natura essenziale del (PDNC) per una scienza dell'essere in quanto essere, episthéme tis hé theoreî tò òn hê òn [2], e, per lo stesso motivo, i medievali hanno coniato la famosa espressione firmissimum principium, ossia il principio più saldo (di tutti), peraltro traduzione latina dell'espressione aristotelica bebaiotáte archè, principio saldissimo [3].

Come mai lo stagirita, se il (PDNC) è a fondamento di qualsiasi conoscenza possibile, avverte il bisogno di dimostrare, entro certi limiti, proprio tale natura? Non dovrebbe, forse, essere già evidente? Lo stesso aveva precisato in precedenza come

il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto […] e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una mera ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente,dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti [4]

Appare la doppia la determinazione essenziale che Aristotele attribuisce al (PDNC): (i) la non ipoteticità (e, quindi, l'apoditticità); e, (ii) l'essenzialità. Con (i), Aristotele intende asserire come il (PDNC) sia apodittico nel senso che un'ipotesi non faccia né conoscenza né condizione di possibilità per quest'ultima. Piuttosto, il (PDNC) è condizione stessa di possibilità per qualsivoglia conoscenza. Ragion per cui, non può essere una mera ipotesi. Con (ii), Aristotele intende affermare come il (PDNC) è l'essenza della conoscenza, ossia il fondamento (infondato) del pensiero umano. Senza il (PDNC) non può esservi conoscenza in un duplice senso, e conseguente alla determinazione doppia di cui sopra: (a) senza l'apoditticità del (PDNC), non v'è pensiero; e, (b) senza pensiero fondato sul (PDNC), non v'è conoscenza. Solo gli ignoranti (di queste ultime cose, doppia determinazione e duplice senso) possono, a torto, chiedere soddisfazione del (PDNC). Almeno ad Aristotele le cose appaiono chiare e piane.
Eppure, anche al suo tempo, non mancavano i detrattori dello stesso secondo i quali, grosso modo, era la contraddizione stessa l'anima delle cose, il dissidio insanabile tra negazioni a reggere le cose del mondo, a configurarsi quale principium della realtà. Da qui il doppio problema che Aristotele cerca di affrontare nella Metafisica: (1) da un alto, dimostrare come erri chi nega la vigenza del (PDNC); e, (2) dall'altro lato, indicarne la natura essenziale, senza però autoconfutarsi. Affrontare il problema (1) sembrerebbe, a prima vista, cosa più facile rispetto a superare il problema (2) dato che chi non rispetta il (PDNC) non dice cose sensate, ossia cose da prendere sul serio, cose coerenti, cose razionali, cose comprensibili. Questa la gamma di valori che Aristotele racchiude entro le formulazioni epistemica, logica e metafisica, del (PDNC): si riesce a dire cose comprensibili anche da altri se, e solo se, si rispetta il divieto di contraddizione. Pertanto, impossibile sarà: (a) credere entrambe vere due negazioni in contraddizione; (b) asserire come entrambe vere due negazioni contraddittorie; e, (c) vedere due principi l'uno negazione dell'altro (ma si potrebbe parlare al riguardo anche di molti più principi). Queste tre impossibilità si raccordano ovviamente (e come potrebbe essere diversamente) con la doppia determinazione (i) – (ii) e con il duplice senso (a) – (b). anzi, si potrebbe anche dire che si tratti di dovute conseguenze.
Ma se gli stolti, gli ignoranti [5], possono sbagliarsi nel chiedere conto di offrire una dimostrazione anche per la condizione di possibilità della dimostrazione in sé stessa, nondimeno Aristotele non si perde d'animo ed offre quella che, a suo dire, è una dimostrazione indiretta del (PDNC):

Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l'impossibilità in parola per via di confutazione [6].

E siamo così alla famosissima, a mio sommesso parere, anche giustamente tale, dimostrazione per confutazione di Aristotele, meglio nota anche come elenchòs (che, a dire il vero, significherebbe solamente confutazione). Ricapitolando, però, per ovvie esigenze di chiarezza espositiva, Aristotele nega che sia possibile una dimostrazione diretta del (PDNC), perché ciò comporterebbe l'assurdo teoretico di un (PDNC) che operi sul (PDNC), ossia su sé stesso, un oltrepassamento epistemico di confini che nemmeno il (PDNC) può permettersi di sognare. Sempre, lo stagirita, per, reputa possibile una dimostrazione indiretta del (PDNC), ossia una sorta di dimostrazione che, in parola, consenta mostrare l'erroneità della richiesta del negatore del principio. Questo dimostra l'elenchòs: che è impossibile fare a meno del (PDNC), per indimostrato che quest'ultimo resti. Se il (PDNC) non può dimostrare sé stesso, allora sarà possibile dimostrare che è in errore chi nega il (PDNC). Un altro modo, ai tempi di Aristotele, per realizzare il brocardo seguente: se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. Si tenga però in considerazione la limitazione che Aristotele pone a tale dimostrazione per confutazione: in parola e per via di confutazione, deïxai elenctikōs. Come a dire che non si tratta di una vera e propria dimostrazione, di per sé impossibile da realizzarsi, ma di una simulazione dimostrativa la quale ha palesemente il carattere della sconfessione per quanti neghino la validità del (PDNC). Detto altrimenti, quanto Aristotele si accinge a fare è ingaggiare uno scontro dialettico con i nemici del (PDNC) al fine di mostrare come questi ultimi siano in errore poiché per negare la validità al (PDNC) bisogna utilizzare proprio il (PDNC), ossia quanto si vorrebbe eliminare. Pertanto, sono contraddittori gli stessi negatori del (PDNC): per dimostrare la contraddittorietà di qualcosa bisogna pur adoperare il (PDNC). Di conseguenza, come si può pretendere di farne a meno? Ma non anticipiamo troppo gli esiti e il filo del discorso, procediamo con più metodo.
La situazione attuale è, grosso modo, la seguente: vi sono due interlocutori in contrasto tra loro, l'uno asserisce la natura essenziale del (PDNC), l'altro, invece, nega la natura essenziale del (PDNC). Per dirimere la controversa vi sarebbe una strada obbligata, la dimostrazione del (PDNC). Ma nel caso presente, la cosa appare quantomeno problematica: può il (PDNC) dimostrare il (PDNC)? Una dimostrazione diretta, pertanto, appare una strada non percorribile. Resta un'unica alternativa: una dimostrazione indiretta. Cosa s'intende con quest'ultima locuzione? Sicuramente, una dimostrazione che si concluda con la sconfitta dialettica di una delle due parti. Lo stagirita propone di procedere in questo modo:

(A) esiste il (PDNC) (posizione del primo interlocutore);
(B) non esiste il (PDNC) (posizione del secondo interlocutore).

Chi ha ragione (e chi torto)? Aristotele percorre un sentiero contorto al termine del quale appare inequivocabile l'errore di (B), ossia del secondo interlocutore, altrimenti del negatore del (PDNC). Infatti, come può reggersi (B) senza far ricorso al medesimo (PDNC) che vorrebbe negare? DI conseguenza, la posizione del secondo interlocutore, del negatore del principio, dei nemici del (PDNC) è contraddittoria: o si fa del tutto a meno del (PDNC), dato che non vi si crede, e, quindi, qualsiasi proposizione asserita diventa arbitraria, opinabile, oppure ci si giova del (PDNC), si evita di asserire proposizioni erronee, di assumere comportamenti contraddittori. Per negare che esista il (PDNC), alla fin fine, risulta necessario far uso dello stesso (PDNC), ossia di quanto si desiderava fare a meno, negare, confutare. Qui Aristotele celebra la sua vittoria dialettica: (B) perde perché si contraddice, ossia, in parola, si autoconfuta, utilizzando proprio quello che voleva confutare.
Forse, però, è bene cedere il passo al ben noto discorso aristotelico:

[…] per via di confutazione: a patto, però, che l'avversario dica qualcosa [échonta lógon]. Se, invece, l'avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad una pianta. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, egli sia avvale di un ragionamento. Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione[7]

Aristotele ha descritto in questo passo le movenze di un gioco dialettico che, proprio per il suo non essere un “gioco cooperativo”, ma competitivo, pone in competizione due attori i quali sostengono due posizioni contrarie, quanto esclusive. La situazione così descritta è tale da comportare che solo una delle due posizioni risulterà vera. Il problema, però, è dato dal dilemma seguente: chi giocherà per primo? Infatti, stante la natura della tesi in gioco, come mostrato dalla coppia (A) – (B), il successo finale arriderà solamente a chi muoverà per primo. Di conseguenza, è lo stagirita a fare la prima mossa, esigendo che l'avversario “dica qualcosa”. Dire qualcosa, però, significa utilizzare proprio il (PDNC) che l'avversario, invece, intende negare. Pertanto, pur non volendo, l'avversario è costretto ad utilizzare proprio quanto nega. A questo punto, infatti, Aristotele ha buon gioco nel riscontrare la contraddittorietà dell'avversario il quale prima sostiene di voler negare il (PDNC) e dopo finisce con l'affermare (ossia: utilizzare) il (PDNC). Ragion per cui, l'avversario si autoconfuta, cade in contraddizione, commette una petizione di principio: per confutare il (PDNC) utilizza il (PDNC). Ammessa quella clausola così apparentemente “neutra”, Aristotele compie per primo la mossa e si assicura il successo finale: l'avversario non è credibile in quanto adopera proprio quello che vorrebbe negare. La mossa dello stagirita è strategica perché impone all'avversario la sconfitta dialettica. La limitazione pretesa, dire qualcosa che abbia significato e per lui e per gli altri, allà shemaínein gé ti kaì autö kaì állo, segna la direzione che assumerà l'intera contesa. Ed è ben strano che l'avversario lo faccia, che conceda tanto. Basterebbe, infatti, che rimanesse in silenzio, senza operare movenze di assenso e/o di dissenso, per non fare il gioco di Aristotele. Se, invece, come sembra, l'avversario concede sia pure solamente questo, di dire qualcosa di sensato e per lui e per (tutti) gli altri, ecco che, sia pure inconsciamente, si sottomette alla signoria del (PDNC) che prima non riconosceva come tale. Siccome così facendo cade in una petizione di principio, su di lui ricade l'onere della colpa, ossia la responsabilità della petizione stessa. Argomentando di conseguenza, Aristotele decreta la fine della contesa a suo vantaggio indicando nell'avversario l'intera responsabilità della confutazione. Infatti, egli dice che il responsabile della petizione non sarà colui che dimostra, ossia Aristotele stesso, ma colui che provoca la dimostrazione, ossia l'avversario. Riutilizzando la nostra coppia dialettica, la colpa della confutazione, della petizione, dell'errore, chi è nel falso, in soldoni, non è (A), ossia il sostenitore del (PDNC), ma (B), ossia il negatore del (PDNC), paradossalmente proprio colui che chiede la dimostrazione, e non colui che dimostra. D'altra parte, (B) appare, alla fin fine, uno sciocco perché per confutare il (PDNC) finisce con l'utilizzarlo. Ma è abile Aristotele a fargli ingoiare questo amaro boccone perché chi concede la clausola di dire qualcosa di sensato e per sé e per (tutti) gli altri, concede pure che v'è qualcosa di vero, ossia che il (PDNC) esiste, indipendentemente dalla dimostrazione. L'interlocutore (B) cade proprio dove avrebbe dovuto tenere, passando, e contraddittoriamente, da un atteggiamento negativo ad un atteggiamento affermativo, prima nega, poi afferma, il (PDNC).
Tuttavia, quanto Aristotele intendeva, però, affermare con il gioco dialettico qui rappresentato, è che il sofista, qualunque negatore del (PDNC), sbaglia in partenza dato che il (PDNC) è la condizione stessa di possibilità di discorsi sensati e per sé stesso e per tutti gli altri. Ma solo nel momento in cui chiede, erroneamente, e fatalmente, conto, ossia dimostrazione, può accorgersi del suo errore: l'autoconfutazione è infatti la sanzione definitiva del “salto mortale” al quale dovrebbe insanamente affidarsi per riuscire nel suo intento, fare a meno del (PDNC). Come abbiamo visto, però, il significato del (PDNC) ruota attorno a doppie movenze particolari, (i) – (ii) e (a) – (b), le quali descrivono il ruolo non emendabile dello stesso nello strutturare un pensiero razionale, ove 'razionale' sta per 'sensato', avente, cioè, un significato che possa venir compreso da tutti. L'essenzialità del (PDNC), infatti, si riverbera sull'intersoggettività dello stesso: in quanto fondamento del pensiero, il (PDNC) viene adoperato, e compreso, da tutti, senza che qualcuno possa pretendere di farne a meno.


(immagine tratta da: http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRh029nhIShe4GNsgI8FtmO1WZy8tfQ_pymsu2q8Mv41CHr1GKb3g&t=1)

 Note

[1] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 145 (1005b 35 – 1006a 1 – 10).
[2] Ivi, p. 131 (1003a 20).
[3] Ivi, p. 143 (1005b 15).
[4] Ibidem.
[5] In Metafisica 1005b e sg., Aristotele precisa come un discorso più articolato sul (PDNC) sia già stato svolto negli Analitici, opera confluita nel cosiddetto corpus detto Organon, ossia strumento (presumibilmente, di conoscenza). Pertanto, l'allusione all'ignoranza, come causa della richiesta, in sé assurda, di dimostrare la dimostrazione, ossia il (PDNC), il principio più noto, più saldo, di tutti, è sottilmente ironica: chi chiede conto del (PDNC), non ha (mai) letto gli Analitici.
[6] Ivi, p. 147 (1005b 11 – 15).
[7] Ibidem.


giovedì 23 agosto 2012

Doloroso è conoscere ...







Il Prometeo incatenato è un'opera tragica del grande autore greco Eschilo. Si pensa fosse parte di una trilogia, avente come protagonista il gigante Prometeo, reo di essersi schierato dalla parte dei mortali e, per questo, di essersi posto contro il volere di Zeus, il Re degli dei.


Certamente, Eschilo riprende, e riformula in maniera originale, secondo il canone proprio del registro “tragico”, in termini certamente più “umani”, il mito del titano Prometeo, discostandosi, sotto certi aspetti dalla versione canonica. Infatti, qui il reo è sì punito per aver portato il “fuoco” agli uomini, assieme a tante altre technai, ma sotto traccia si allude al possesso di un “segreto” tale da minare le fondamenta stesse del potere di Zeus, da poco “nuovo signore” (v. 310) degli dei, dopo il “parricidio” di Crono, detronizzato proprio da Zeus.


Qui non interessa certo la “teogonia” messa in scena, e narrata, da Eschilo, né fare confronti con l'omonima di Esiodo, né ricostruire la complessa evoluzione della mitologia greca, con tutta la genealogia di dei e semidei, ma mettere in luce alcuni aspetti che, sommessamente, reputo rilevanti, anche ad una considerazione “filosofica”, della tragedia eschilea.


In primo luogo, l'interpretazione che il tragediografo fornisce del “mito” di Prometeo. Infatti, nel prologo Kratos e Bia, potere e forza, accompagnano Efesto che deve materialmente incatenare Prometeo sulla Scizia “per aver rubato il fuoco” (vv. 1 – 2). La seconda non parla mai in prima persona, mentre la prima interloquisce a lungo con il dio, quasi costringendolo ad eseguire la pena, secondo il volere di Zeus. E nonostante il peso di forza e potere Efesto sembra tentennare, “manca il coraggio” (v. 16) ammette lui stesso. Sì, Prometeo è colpevole di aver rubato il fuoco e di averne fatto partecipi gli uomini (vv. 7 – 8), ma egli viene punito anche perché “forse così imparerà ad amarla la signoria di Zeus” (v. 10). E questo è interessante. Pesa di più nel giudizio sull'operato di Prometeo il furto del fuoco, ovviamente metafora delle tecniche gratuitamente donate agli uomini, o il non rispettare Zeus nel suo nuovo ruolo di Signore degli dei? Forse, credo che Eschilo consideri causa della sofferenza di Prometeo più la lesa maestà che l'aver offerto aiuto a mortali che, in assenza della generosità del titano, sarebbero rimasti nella loro condizione di minorità. Prometeo è colui che dona il progresso agli uomini, che consente loro di evolvere verso tappe più avanzate di progresso, civile, sociale, politico, tecnologico, culturale. Nell'annosa questione greca sull'opposizione tra physis e nòmos, Eschilo propende per la seconda: è solo attraverso la cultura che gli uomini possono evolvere. E si tratta, anche in questo caso, di uno scenario per così dire canonico. Infatti, è sempre stata presente questa opzione nell'orizzonte teorico greco data l'estrema importanza da sempre attribuita alla polis, e alla sua nascita, come cesura tra la preistoria e la storia elleniche [1]. Il superamento di un modello sociale fondato sulle tribù, e la sottoposizione delle condotte individuali al giudizio collettivo di una comunità attorno ad una tavola condivisa di valori, è il prodromo della nascita stessa della città stato, ossia della polis, e, quindi, del successo della cultura sulla natura, per quanto, ovviamente, ciò abbia sempre comportato la presenza di una sorta di rimorso nella coscienza greca, di pentimento per il tradimento perpetrato ai danni della madre Terra, Gaia, la più antica, e più “materiale” delle divinità del Pantheon. Forse per lo stesso motivo, l'elaborazione culturale greca ha sempre immaginato le furie, le Erinni, le operatrici misteriose della “Nemesi”, della vendetta, come cagne furiose, come esseri immondi, dai tratti animaleschi, naturali. La Natura esige il pagamento del fio per la colpa commessa di aver deviato i propri passi dal suo corso ancestrale. Ma Prometeo questo concede agli uomini: di riconoscersi come tali. E, quindi, di poter evolvere verso altre forme, verso altri codici, verso altre norme.


Portatore di “fuoco”, il titano è anche insofferente nei confronti della nuova signoria di Zeus. Non sappiamo se riconosca o meno la sua autorità, ma certamente dato il dono proibito fatto agli uomini, non denota certo molta simpatia nei confronti del figlio di Crono. E per questo sembra patire i rigori della sua pena.


Seppur tentennante, Efesto, incalzato da potere, esegue la condanna e Prometeo resta immobile alla catena per l'eternità.



Dopo un lungo silenzio, Prometeo comincia a parlare e si rivolge alla natura, a quella stessa Physis, di cui Gaia, è incarnazione divina. E cosa le dice d'interessante? Che è necessario riconoscere “che la forza del fato non si vince” (v. 105). Fato? Destino? Necessità? Le categorie filosofiche qui faticano a render conto, logon didonai , della profonda semantica del verso poetico. Il fato è invincibile forse perché orizzonte finale di tutto? E se tale, come pretendere di batterlo? Se limite estremo delle azioni, come mai lo stesso soffre anche Prometeo che uomo non è? Forse che pure i titani hanno gli stessi limiti? E qui si palesa il secondo elemento a mio parere rilevante: qual è il limite di uomini, dei e semidei? Eschilo al riguardo appare chiaro: esistono due vincoli estremi rispettivamente per uomini e divinità: la morte e la necessità. Prometeo, che è un semidio, non può conoscere la morte, e, sotto questo punto di vista la sua pena è ancora più tremenda di quanto non sembri (soffrire per l'eternità). Tuttavia, paradossalmente, pure non ha potuto affrancare i mortali dall'estremo loro limite della morte. Infatti, egli ha elargito loro grandi doni, ma tutto tranne che l'immortalità. E nonostante il fuoco, e altre technai, essi continuano a morire, scontrandosi ingloriosamente con il loro limite di sempre. Gli dei non muoiono, ma anch'essi sono limitati. A differenza delle grandi religioni rivelate, gli dei greci non sono onnipotenti e, a dirla tutta, vedono anche poco nel futuro. Poco potenti, anche se in misura somma rispetto ai mortali, e poco previggenti, gli dei greci appaiono miseramente come poco più che umani, soggetti sovente alle medesima passioni che prendono i mortali. Certo i semidei sono meno potenti degli dei, ma anche questi ultimi appaiono soggetti ad un potere loro superiore, la necessità, il fato, il destino. La realtà ingloba dentro di sé anche le divinità. Queste ultime non si collocano al di là di quest'ultima, ma al di qua del suo limite, la necessità. Le vie di uomini, semidei e dei sono le stesse della realtà, dell'unica realtà esistente, a sua volta sottomessa al fato. Si tratta di un “progetto intelligente”, tyche, o di una “mera casualità”, automaton? Gli autori greci tacciono al riguardo, nonostante quella che, per Aristotele, è l'invidia che gli dei provano nei confronti dei poeti, più vedenti di loro [2]. Anche se lo stagirita gira l'argomento sostenendo l'inattendibilità di questi ultimi, sovente bugiardi, poco affidabili.


Detto questo, appare evidente come le simpatie di Eschilo vadano tutte al titano che osa mettersi contro Zeus pur di aiutare esseri così insignificanti come gli uomini, minacciati di “seminare un'altra stirpe umana” (vv. 232 – 233), soppiantati da un'altra e nuova stirpe. Solo Prometeo osò opporsi, e pagando in prima persona per la propria temerarietà. Ma era solo questa la colpa di Prometeo? Ancora ritorna il quesito di partenza: qual era la vera causa della condanna? Questo aver osato sfidare il volere del nuovo Re degli dei oppure il timore che rivelasse l'oscuro, ossia il segreto sul futuro di Zeus, ermetico anche allo stesso nuovo Signore dell'Olimpo? D'altra parte, Prometeo fa esegesi del suo stesso nome, e si presenta ad Io come colui che “vede lontano, oltre ciò che è chiaro” (vv. 842 – 843). Più vedente di Zeus oppure, più semplicemente, a conoscenza di un segreto che il Signore non vorrebbe si sapesse? In altre parole, cosa arma le mani di Zeus? La sua giustizia, avendo Prometeo osato mettere in questione la sua signoria che, seppur nuova, è pur sempre l'ordine costituito, oppure il timore, sapendo Prometeo qualcosa di terribile e minaccioso per il potere di Zeus? Prometeo è, paradossalmente tre volte colpevole: (1) ha rubato il fuoco per donarlo agli uomini (valicato i confini che “giustamente” separano umanità e divinità); (2) ha posto in discussione il potere di Zeus (lesa maestà); (3) è a conoscenza di un segreto proibito sul futuro corso degli eventi (e sul destino stesso che attende la sommità dell'Olimpo). Per questi tre distinti, ma convergenti, livelli di responsabilità Prometeo è stato incatenato sulla Scizia. Ma è la colpa numero (3) che adesso ci interessa mettere in rilievo.


Ad un certo punto, Prometeo riceve la visita di Io, figlia di Inaco, e, per responsabilità di Zeus consegnata ad un oscuro destino di follia errabonda. É dialogando con ella che il titano allude al suo segreto, alla sua conoscenza, alla fine della “signoria di Zeus” (v. 756). Come Io troverà termine alle sue (ingiuste) sofferenze con la morte, a Prometeo, cui morir non è concesso, non troverà termine alle sue (ingiuste) sofferenze. Il titano si paragona alla sfortunata Io lasciandosi sfuggire il segreto in suo possesso: un termine alle sue sofferenze v'è, ma non dipende dall'orizzonte della fine, del termine materiale e temporale dell'esistenza singola. Questo termine è legato alla fine del potere di Zeus, al suo futuro detronizzato. A questo punto Io incalza il titano, lo interroga, e sapientemente Eschilo dispiega il contenuto di questa conoscenza misteriosa, così elevata che solo balbettando può esser detta, che solo allusivamente può venir espressa. L'orizzonte sovrumano della verità, che in Parmenide conduceva alla finzione della dea senza nome, metafora dell'intelligenza del filosofo che perviene alla conoscenza superiore [3], spinge Eschilo ad usare toni non chiari. Ad ogni modo, Zeus cadrà, e per mano della generazione di Io, “un figlio più forte del padre” (v. 769).


Ma come ha aiutato il titano gli uomini destinati ad un futuro limitato di morte? Questa almeno è la stessa domanda che Io pone al reo e quest'ultimo le risponde in maniera vaga: “seminai le speranze, che non vedono” (v. 250). Che speranze dà Prometeo agli uomini? Certo, lui può più di loro ma sempre meno degli dei e anche questi ultimi, in ultima istanza, non possono infrangere le barriere della necessità, di tyche, l'orizzonte fatale delle moire. Pertanto, comunque gli uomini non sfuggiranno al loro destino terminale, la morte. Allora, quali speranze valide ha distribuito loro Prometeo? Se si sa di dover morire, è possibile che qualsiasi attività si blocchi nell'attesa fatale del termine ultimo della parentesi temporale. Ma se si squarcia il velo dell'attesa in favore dell'azione operante, produttiva, ecco che si scorge un orizzonte nuovo e potente: il domani. Ossia, la speranza, elpís. Prometeo concede agli uomini una speranza nel “domani”, che in precedenza loro non avevano. Filosoficamente ciò è affine all'insieme delle pratiche che gli uomini hanno messo in campo per “esorcizzare” il timore della morte, quella molla antropologica che ha sospinto i mortali stessi lungo il cammino della filosofia, che nasce “grande” [4], perché affronta da subito le questioni massime, la vita, la morte, la necessità, il destino, il bene. É per il timore della morte che l'uomo ha inventato la filosofia[5], un insieme di rituali che allontanino il pensiero delle morte e che lascino intravedere la speranza nel domani.



Ma dalla speranza degli uomini si passa ad interrogare le possibilità di speranza per Prometeo. Le sue sofferenze termineranno? Potrà tornare libero? Se “tutto ciò che gli uomini conoscono, proviene da Prometeo” (v. 506), chi aiuterà stavolta il titano incatenato? Sintantoché Zeus resta il Signore dell'Olimpo, Prometeo non può sperare nella salvezza. Ma lui sa qualcosa che sfugge agli altri. Dialogando con la corifea, egli afferma “da questi ceppi sarò sciolto” (v. 513). Come? Da dove deriva tanta sicurezza? In fondo, nemmeno lui può saperlo, con certezza almeno, e nondimeno coltiva questa speranza. Le moire non gli hanno assicurato nulla eppure lui crede che finalmente verrà messo rimedio alla sua ingiustizia. Perché? Al v. 514 leggiamo assieme la rivelazione al riguardo, la sorgente della sua speranza: “L'arte è troppo più debole del fato”. Le technai vanto e causa di tanti mali per Prometeo, cedono comunque il passo al fato. Ma ciò significa anche che lui ha donato false speranze agli uomini in quanto le tecniche non salvano i mortali. D'altra parte, chi potrebbe illudersi di sfuggire, via tecnica, alla morte? Nemmeno la scienza moderna può tanto, figuriamoci la scienza del VI – V sec. a. C., l'arco temporale durante il quale Eschilo svolse la sua intensa attività tragica. La tecnica è “troppo più debole” rispetto al corso naturale, alle leggi di natura. Nessun artificio potrebbe alterarne l'equilibrio, quella stessa scissione causata da Prometeo, reo allora di aver rotto l'harmonia delle cose. In queste parole vi si leggono insieme un rammarico e una raggiunta consapevolezza. Rammarico perché purtroppo non v'è rimedio al limite terminale che attende ciascuno di noi e consapevolezza perché una volta accettato come inevitabile questo esito diventa possibile progettare un avvenire differente. E proprio in quest'eventualità va colta, a mio sommesso parere, la ragione della speranza del titano di venir liberato in futuro dalle sue pene (ingiuste). Infatti, anche l'avvento di Zeus è frutto di techne, di arte, di manipolazione artificiale, di invenzione, verrebbe da dire “umana”. E, pertanto, è anch'esso soggetto al limite dell'artificiale rispetto al naturale, è anch'esso troppo più debole rispetto al fato. Di conseguenza, cesserà un giorno di essere attuale, operante, cederà il passo ad un'altra signoria, portando con sé al venir meno delle ragioni che portarono Efesto ad incatenare Prometeo. Solo allora giungerà la liberazione per il titano ribelle. Basta aspettare quel momento, che verrà, e Prometeo non manca certo di tempo. Solo che nonostante questa certezza non può che provare paura di patimenti successivi.


Neanche Zeus “potrà sfuggire mai sfuggire al fato” (v. 520). e qui giungiamo ad un altro elemento che, a mio sommesso parere, va posto nella giusta luce, ed illuminato in chiave teorica. Anche il più potente degli dei è sottomesso al fato. Gli dei greci, allora, non sono esterni a questa realtà, ma sono solo le propaggini estreme di quest'ultima. Pertanto, pur potendo in gran parte interferire con il corso naturale delle cose, con le leggi della natura, con il kosmos, sono anch'essi soggetti al fato, alla natura, alle leggi di questa stessa realtà. In fondo, nemmeno Zeus può sottrarsi alla necessità. Questi dei greci fanno ancora la loro magra figura, più simili a “grandi uomini” che a divinità vere e proprie. Non sfuggono nemmeno loro al limite estremo della realtà che tutto avvolge e dirige.



Giunge, com'è noto, a quel punto trafelata Io alla quale Prometeo profetizza il futuro dolente e alla quale ribadisce il suo segreto. Ma le sue urla giungono sino a Zeus che non esita ad inviare Ermete a carpirne la conoscenza occulta. “ecco il portaordini di Zeus, ecco il valletto del signore nuovo” (vv. 941 – 942), lo saluta procotoriamente Prometeo. Ma il messaggero di Zeus taglia corto: “si dica di che nozze vai gridando, da chi sarà abbattuto il suo potere” (vv. 947 – 948). É chiaro, il Nuovo Re degli dei ha udito le oscure profezie del titano e, allarmato, desidera scoprire cosa davvero sappia del futuro nebuloso. Ma Prometeo non tradisce quanto detto poco prima a Io, non rivela quanto di sua conoscenza, “meglio essere schiavi a questa pietra che i messi di fiducia di Zeus Padre” (vv. 968 – 969). Questo confronto serrato, ma duro ed orgoglioso descrive al meglio quella tendenza pre – romantica altrimenti chiamata “titanismo”: l'atteggiamento di colui che, forte del proprio convincimento nella giustezza del proprio operato, rivendica con forza la bontà delle sue ragioni, non temendo chi per anzianità o per potere o per autorità è più “forte” di lui. Prometeo non cede né alle lusinghe né alle minacce portategli da Ermes e tace su quanto sa. A quel punto, allora, al termine della tragedia eschilea, il fulmine di Zeus ancora una volta si abbatte su Prometeo, trascinandolo nell'abisso senza fondo, punizione per la hybris di cui il titano si è fatto interprete e sostenitore nella sua rivolta contro il nuovo Re degli dei.


(immagine tratta da: http://www.rivistazetesis.it/Prometeo_liberato.jpg)



Al termine della presente ricognizione, senza troppe velleità a dire il vero, resta da valutare l'atteggiamento complessivo del titano. Infatti, i romantici hanno inteso spesso sopravvalutarne il titanismo, senza però prendere in considerazione anche le ragioni degli altri, di quei nemici comunque attori, alla pari con lui, delle commedie, degli equivoci, dei drammi della vita quotidiana. L'unica cosa certa è che per Eschilo la conoscenza provoca dolore, la verità è sofferenza. In questo senso, quanto la tragedia presente vorrebbe insegnarci è che non v'è conoscenza vera priva di sofferenza. Prometeo sa e soffre. Zeus sa e soffre (anche se non lo dà a vedere). Efesto sa e soffre (e lo dà a vedere all'inizio dell'opera). Io sa ed impazzisce. Quali sono le vie della conoscenza e della sanità mentale? Ma proprio questa caratteristica viene messa in luce da Severino secondo il quale “la conoscenza della verità salva dall'angoscia del divenire” [6], ma conoscere non è privo di conseguenze, anche negative.


Pertanto, la filosofia nasce anche come rimedio all'angoscia dello sparire, del dissolversi nel nulla di cui la trasformazione, o divenire, è pallida, ma significativa, espressione. Conoscere la verità, se non evita il dolore, la fatica stessa insita nel processo conoscitivo, però, consente di prevedere il futuro, di prevedere, con una certa dose di approssimazione, quale direzione assumeranno gli eventi futuri, di scorgere, cioè, quel 'domani' che Prometeo dona agli uomini. Di conseguenza, Severino avanza la sua personale interpretazione della tragedia eschilea secondo la quale “la vera grandezza eroica di Prometeo consiste nel suo sapersi liberare dalla hybris e nel suo comprendere che il sommo rimedio, per l'uomo, è la verità incontrovertibile dell'epistéme” [7]. La filosofia è, da questo punto di vista, accettazione del domani e previsione del suo sviluppo, prima ancora che possa divenire attualità.


Ancora una volta, dunque, i “grandi” autori classici sanno interrogarci sul significato che attribuiamo alla nostra vita, così colma di dolore, di sofferenza, ma anche così fiduciosa in un avvenire radioso, così piena di “speranza” nel “domani”.
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[1] Cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano, 20117, p. 190 e sgg.

[2] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 13 (982b 30 – 983a 1-4).

[3] Cfr. U. Di Toro, L'enigma Parmenide, Aracne, Roma, 2010.

[4] Cfr. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064, p. 21 e sgg.

[5] Cfr. F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008, p. 3.

[6] Cfr. E. Severino, op. cit., p. 79.

[7] Ivi, p. 82.


Riferimeni bibliografici

Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000.
E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano, 20117.
U. Di Toro, L'enigma Parmenide, Aracne, Roma, 2010.
Eschilo, Prometeo incatenato, Rizzoli, Milano, 20062.
F. Rosenzweing, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008.
E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 20064.

domenica 12 agosto 2012

Romanzo fantasy ambientanto a ... Marsala!

Voci di un antico presente è un romanzo fantasy, ma non troppo, che trova nel perimetro lilybetano il suo contesto d'ambientazione.

Narra della vita delle giovani generazioni, precarie per scelta, non loro, prive di futuro e disincantate nell'attuale mondo del lavoro. Ma anche del coraggio che serve per continuare a sperare, dell'intelligenza che bisogna avere per spuntarla nella vita di tutti i giorni, dell'aiuto che la storia, un passato mai del tutto tale, un passato "presente", deve garantirci se desideriamo essere qualcuno o qualcosa domani ... 

Colpi di scena e un ritmo serrato conducono il lettore lungo le trame di organizzazioni segrete, complotti, azioni, intrighi di varia sorta, inganni amorosi, sino all'epico finale quando ciascuno di noi è chiamato a scegliere di diventare chi si è ... 

D'altra parte, chi può sfuggire al proprio destino!


Pronti a lasciarvi travolgere? Sono sicuro di sì ... ;)


http://www.lafeltrinelli.it/products/9788891010773/Voci_di_un_antico_presente/Pizzo_Alessandro.html


(immagine tratta da: http://static.lafeltrinelli.it/static/images-1/l/395/3646395.jpg)

martedì 7 agosto 2012

Verso l'ASN ...

Gli ultimi prodotti della ricerca personale su 54 in totale ... buon viatico verso ... chissà! E chi potrà mai dirlo! Intanto si prova, il resto si vedrà! In ogni caso, un contratto di lavoro ce l'ho ... ma sognare, almeno sinora, non costa nulla!

Elenco dei prodotti della ricerca

 
 
PIZZO A. (2012). Deontic Paradoxes and Moral Theory, p. 1-48, ISBN: 9788891014184
 
PIZZO A. (2012). What Can (not) Deontic Logic Do for Computer Law. DIRITTO & DIRITTI, ISSN: 1127-8579
 
PIZZO A. (2012). Nodi critici dell’informatica giuridica. DIRITTO & DIRITTI, ISSN: 1127-8579
 
PIZZO A. (2012). La svolta intologica in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice "è". Elementi eleatici. p. 357-388,
 
PIZZO A. (2011). Recensione a Roberta De Monticelli, La questione morale
 
PIZZO A. (2011). Logica deontica. APHEX, vol. 3; p. 1-22, ISSN: 2036-9972
 
PIZZO A. (2010). Logica si dice in molti modi. Un viaggio concettuale dentro la ragione umana. DIALEGESTHAI; p. 1-15, ISSN: 1128-5478

giovedì 2 agosto 2012

Le vie del logos argomentativo ....





F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel, Mimesi, Milano, 2011, pp. 224, € 18,00.

Il presente volume di Fabio Mazzocchio, edito da Mimesis, affronta il confronto serrato condotto da Karl Apel con il pensiero postmoderno contemporaneo intorno a due argomenti ben precisi, e delimitati: (a) l'intersoggettività; e, (b) la fondazione.

Personalmente ho conosciuto, e frequentato, l'autore in due occasioni particolari del mio percorso, umano e professionale, prima presso la SISS, nel biennio 2002 – 2004, e successivamente nel corso del XVIII Ciclo del Dottorato di Ricerca in Filosofia presso lo stesso Ateneo palermitano. Ora, la lettura del suddetto volume aumenta in me il rammarico di non aver conosciuto l'autore in misura maggiore di quanto, invece, io non abbia fatto. Vero è che non si piange sul latte versato, ma l'amaro in bocca resta lo stesso.

Il testo si scandisce in due capitoli, il primo dedicato alla “difesa della ragione” (p. 15 e sgg.), e il secondo dedicato, invece, alla “fondazione trascendental-pragmatica” (p. 99 e sgg.). Infine, v'è anche una conclusione che tira le somme del discorso articolato in precedenza.

L'interesse prioritario che dovrebbe condurre il lettore è l'originalità della risposta che Apel fornisce ad una delle questioni “classiche” del discorso filosofico in generale: perché essere razionali? La strategia di risposta non consiste in un mero recupero di una certa tradizione anteriore agli ultimi esiti del XX secolo, ma un fare con questi ultimi i dovuti conti. Solo così appare possibile riscoprire la ragione, operandone una rifondazione, stavolta su basi innovative, trascental-pragamtiche. In questo modo, il logos del classico discorso filosofico viene “salvato”, facendolo passare attraverso le rapide della semiotica moderna, del linguistic-turn novecentesco, e, infine, last but not least, attraverso il “depotenziamento” postmoderno della teoria. Questo perché l'orizzonte fondativo del logos può essere riabilitato solo sotto la forma di una lingua (p. 23 e sgg.) capace di render conto del processo conoscitivo umano evitando, però, nel contempo, anche il solipsismo di certe costruzioni moderne. D'altra parte, sarebbe da sciocchi far finta di niente davanti all'epistemologia novecentesca, con Khun e Popper, davanti alla riscoperta della semiotica, da parte di Peirce, davanti all'erosione del pensiero, con Heidegger, Gadamer, Wittgenstein, al rovesciamento di prospettiva, nei rapporti di forza, tra “pensiero” e “linguaggio”, con Austin, Searle, all'inibizione della teoria, con Derrida, Deleuze, Lyotard, Foucault, Rorty. Allo stesso tempo, però, Apel si fa profondo interprete del bisogno di non ignorare gli apporti preziosi, questi davvero irrinunciabili, della riflessione moderna precedente. Ecco allora prendere forma il suo progetto di recupero della filosofia prima, sia pure in una veste accorta e progredita, dopo il successivo sviluppo della disciplina nei secoli successivi. La lingua umana, pertanto, non rappresenta soltanto una realtà a lei esterna, ma vi contribuisce, non nel senso di un mero, quanto vago, costruzionismo, ma nel senso di costituire un orizzonte trascendentale di senso (p. 39). La scomparsa del soggetto, da questo punto di vista, non costituisce affatto un problema, ma un mero lemma conseguente alla svolta trascendentale della filosofia contemporanea. L'implosione della ragione durante il secolo appena passato, si staglia davanti alla proposta apeliana di una riscoperta di una “tavola di valori condivisi” (p. 45), di un orizzonte universale sulla base della comune ragionevolezza degli uomini. Il logos del discorso è così distante dall'astratto logos della filosofia, si fa carico della preziosa e fragile finitudine umana, incarnata in corpi e in epoche storiche. Sia la natura “aperta” all'esterno del discorso sia la natura interpersonale del gioco discorsivo, e razionale, cui ciascuno, liberamente, prende parte, garantisce l'intersoggettività, evitando arroccamenti pericolosi in vetuste, quanto impossibili, “torri d'avorio”.

Ecco, dunque, ripristinato il valore supremo, ed universale, della soggettività, evoluzione ultima del soggetto moderno: la costruzione del significato, all'interno del discorso tra esseri umani ragionevoli, non è dato prima dello stesso scambio comunicativo, ma “si costituisce solo nel rapporto comunicativo tra parlanti” (p. 79). Si dà verità, allora, solo all'interno di una dimensione pubblica del discorso. Giocare pubblicamente al discorso vuol dire pertanto scorgere un fondamento inaggirabile su un “dispositivo di 'autoregolazione'” (p. 93) che se da un lato ci espone al gioco infinito del dialogo, dall'altro “ci introduce nel territorio del senso” (p. 93). Essere aperti al dialogo e prendere parte al discorso ci caratterizza proprio come esseri umani razionali.

Lo sfondamento del soggetto, quale orizzonte ultimo del pensiero, apre alla possibilità di scorgere una possibile fondazione davvero ultimativa oltre l'orizzonte aristotelico del principio di non contraddizione (p. 100 e sgg.). D'altra parte, se vogliamo mediare con le punte più avanzate della polemica postmodernista, bisogna allora prendere congedo da pretese assolutistiche sul firmissimum principium poiché tale atteggiamento si configurerebbe esattamente come una fuga dal gioco, rischioso certo, del dialogo, aperto e pubblico. Non si tratta, però, di rinegoziare la natura e il significato del divieto di contraddizione, ma evincere nella dimostrazione per confutazione di Aristotele una possibilità, nuova, ed anche “antica”, di fondazione trascendental-pragmatica della ragione umana. L'elenchos, infatti, si costituisce quale “dimensione performativa dell'agire linguistico” (p. 119) di difensore e di negatore del principio stesso. Siccome, però, la sua dimostrazione presenta un carattere linguistico e comunicativo, ecco che tale dialettica funziona quale agire linguistico che vincola i parlanti al rispetto di certe regole e alla costruzione attiva di un significato condiviso (p. 135).

Allora Apel non si pone nei termini di una comune posizione metafisica. Anzi, fa proprio un certo orientamento post-metafisico per operare un “recupero di alcune mosse caratterizzanti il sapere filosofico fin dalle sue fasi aurorali e di alcuni suoi tratti classicamente costitutivi” (p. 140). Sotto questo aspetto, le movenze del divenire elenctico legano assieme “impossibilità della contraddizione, la necessità del senso e l'essenza comunicativa dell'uomo” (p. 145). Il fondamento non va cercato altrove rispetto all'esercizio del logos stesso, ma è il suo stesso esercizio a costituirlo (p. 156).

Queste riflessioni segnano lo scarto tra la “comunicazione” di Apel e l'analoga “comunicazione” di Habermas. Il primo, infatti, ci spinge non solo a rilevare l'importanza della filosofia quale “critica permanente e istanza veritativa” (p. 175), ma anche “a trovare in essa la specificità e l'inaggirabilità della meta-istituzione costituita dal gioco argomentativo” (p. 175).

Ciò, ovviamente, non esime certo dal porre comunque alcuni rilievi critici sulla proposta apeliana. L'autore, in modo particolare, insiste sull'eccessiva fretta con cui Apel si libera “del dispositivo metafisico” (p. 187), consistente nel tentativo di ri-pensare il logos come interazione umana ma rinunciando “all'unità trasparente e all'autosufficienza della ragione” (p. 187) senza, però, privarsi anche degli elementi dell'universalità e della criticità. Pertanto, l'inaggirabilità della fondazione, per come è caratterizzata l'etica del discorso di Apel, se evita certamente di ricadere nella metafisica dogmatica, resta problematica per questioni che il filosofo tedesco omette di considerare.

Tuttavia, resat da rilevare come tale inaggirabilità non “si pone fuori dalla storia” (p. 192), ma descrive il dispositivo che “assicura le possibilità stesse del nostro comprenderci in quanto uomini” (p. 192): il logos argomentativo.