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venerdì 30 agosto 2013

Intelligenza a creatività


(immagine tratta da: http://www.gnuranza.altervista.org/images/stories/creativity.gif)




Che rapporto c'è tra l'intelligenza e la creatività? Sono, forse, la medesima cosa? Oppure si tratta di abilità differenti?

Scrive Boncinelli:

La capacità di trovare soluzioni ai problemi, grandi o piccoli, della vita quotidiana è la funzione che viene più spesso associata all'intelligenza […] Si ritiene che le capacità creative contribuiscano alla risoluzione dei problemi, e in linea generale i solutori creativi tendono ad apparire particolarmente dotati sul piano dell'intelligenza. Il creativo, in realtà, più che come un risolutore di problemi si pone come un individuatore di problemi[1]

Allora, mi chiedo: sono un creativo? Vedo i problemi, ma so risolverli? Forse, non è così importante, ma a cosa serve un altro profeta che predica sventura e metta il dito nella piaga? Il creativo, se intelligente, dovrebbe offrire prospettive inedite a partire dalle quali scorgere sfumature del medesimo problema in forza delle quali è possibile anche trovarvi delle soluzioni.

Ancora Boncinelli scrive:

intelligenza e creatività paiono essere facoltà distinte anche se irrelate[2]

Questo pare evidente anche ad uno sprovveduto di psicologia e/o neuroscienze come il sottoscritto. Infatti, trovare problemi e saper risolverli non equivale a fare e l'uno e l'altro in maniera creativa. Parimenti, saper interpretare la realtà senza però riuscire ad incidervi sopra mi sapere un mero spreco di risorse creative ...

Tuttavia, allora, pur essendo delle facoltà rispettivamente eterogenee, l'una e l'altra servono allo scopo supremo della conservazione della specie umana. Infatti, aggiunge ancora Boncinelli:

Il pensiero sorge là dove c'è un pericolo, e il creativo può essere colui che vede, nel pericolo, la possibilità della salvezza, forse perché, più di altri, sperimenta il lato oscuro dell'umanità[3]

Del tutto innovative sono, però, le sorprendenti conclusioni:

insomma, sappiamo che cos'è un'idea? No.
Sappiamo come può nascere una buona idea? Non direi.
Possiamo fare qualcosa per favorire lo sbocciare di nuove buone idee? Ne dubito.
Ma allora perché hai scritto questo libro? É stata un'idea ...[4]

Come a dire che, in soldoni, il creativo è colui che sa fare buon uso della facoltà intellettiva, sorprendendo magari all'ultimo minuto utile colui che ha di fronte o che “legge” le sue opere.

Cosa che, ovviamente, non pretendo certo di fare con questo pallido blog ...


Note
[1] Cfr. E. Boncinelli, Come nascono le idee, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 99.
[2] ivi, p. 115.
[3] Ivi, p. 120.

[4] Ivi, p. 149.

mercoledì 28 agosto 2013

Paradox!



Cos'è un paradosso? In soldoni, tanto perché il tempo è denaro, possiamo considerarlo un'enunciazione oppure il risultato di un ragionamento che, per vari motivi, appare contraddittorio, e, dunque, falso, pur essendo, inopinatamente, vero, ossia razionalmente oltre che ragionevolmente derivato in maniera corretta.

L'etimologia del termine non inganna: para - doxon, ossia qualcosa che cozza contro l'opinione comune, con il (buon) senso comune, così alieno a simili bizzarrie.

Il problema, però, dei paradossi è che, pur essendo delle falsità, vanno trattati come se fossero veri, vale a dire che forzano i soggetti ad accettarli come sensati nel proprio reticolo epistemico.

Ora, tanto per mettere al bando per un po' le astrattezze filosofiche, facciamo un esempio. Si prenda in considerazione la seguente enunciazione:

(P) (P) è falsa

Così su due piedi, appare un'affermazione a dir poco bislacca, ma fondamentalmente innocua: l'enunciazione (P) dice di sé stessa che è falsa. E dov'è il problema? Contenta lei (e chi la enuncia)! In effetti, finché ci limitiamo a questo genere di considerazione, non sorge alcuna difficoltà né tantomeno siamo abilitati a denunciare la presenza di un paradosso.

Il problema, piuttosto, sorge non appena passiamo ad un'altra considerazione, e ci chiediamo, di conseguenza, se l'enunciazione (P) sia vera o falsa ...

Ora incomincian le dolenti note a farsi sentire!

Infatti, proviamo ad applicare all'enunciazione (P) il valore di verità 'vero'. Che accade? Proviamo: è vero che (P) è falsa ... allora, (P) è falsa! Questo è problematico: com'è possibile che dal valore 'vero' derivi il valore di verità opposto, ossia 'falso'? Tutto sta nell'auto-predicazione iniziale, direte voi, ma questo non risolve il problema, ne individua semmai l'origine, ma ci lascia con la patata bollente.


Proviamo, adesso, ad applicare all'enunciazione (P) il valore di verità 'falso'. Cosa accade? Proviamo: è falso che (P) è falsa ... allora, (P) è vera! Questo è a dir poco problematico: com'è possibile che dal valore 'falso' derivi il valore di verità opposto, ossia 'vero'? Ancora, la causa di ciò è nell'auto-riferimento dell'enunciazione (P) la quale, come abbiamo visto poco fa, dice di sé stessa di essere falsa. Ma questo non risolve la faccenda: ci troviamo di fronte ad una contraddizione: da falso deriva vero; esattamente come da vero deriva falso. O, se preferite, abbiamo che l'enunciazione (P) è, nello stesso tempo, e sotto il medesimo rispetto, e falsa e vera ... Eppure, il buon Aristotele ci aveva messo in guardia: mai mischiare tra loro i valori di vero e di falso. Ma l'enunciazione (P) fa esattamente questo: eleva a sistema la contraddizione, ossia la confusione aletica. Infatti, l'enunciazione (P) è falsa se vera, e vera se falsa ... 


Ora, noi arrestiamo a questo stadio quel regresso all'infinito che pure sarebbe possibile ( ... e se vera è falsa, ma essendo falsa, è vera; ma se è vera ...), e analizziamo un altro aspetto della questione: possiamo uscire dal loop aletico?

Certamente, basta non lasciarsi ingannare dall'aspetto esteriore della proposizione in questione: (P) è strana, ma devo distinguere tra valore di verità dell'enunciazione e significato della stessa. Detto altrimenti, se anche (P) dice X, il valore di verità di (P) non muta il significato X, che resta quello iniziale, ossia che (P) è falsa.

Solo che, risolta in questa maniera la difficile situazione, resta l'impressione di aver solamente evitato la faccenda, e non di aver trovato soluzione al paradosso. 


Ma, in genere, sono due, grosso modo, le differenti scuole di pensiero al riguardo: 1) la scuola scettica che opera un mancato riconoscimento al meccanismo di "cattura" operato dai paradossi ("(P) sarebbe falsa ... ma qual è tale proposizione falsa?"); e, (2) la scuola credente che s'immerge testa e piedi dentro il meccanismo di "cattura" operato dai paradossi ("(P) è falsa, per cui è vera! Ma se è vera, è anche falsa! Ora, essendo falsa, risulta alla fine vera ... ma se è vera, ancora, è falsa! ... come ne veniamo fuori, possibilmente ancora integri?"). In genere, aderisco alla seconda scuola, ma in questa sede preferisco evitare lungaggini formali e tecniche a chi legge! Come post di un blog, tanto, e lo dico sinceramente, mi basta.



(immagine tratta da: http://omiocapitano.altervista.org/wp-content/uploads/tumblr_ku5pxbBRSO1qzhxpqo1_500.jpg)

lunedì 26 agosto 2013

Amico, che grana che sei!

"A friend leaves me with a gun, saying that when he calls. He arrives in a distraught condition, demands his gun, and announces that he is going to shoot his wife because she has been unfaithful. I ought to return the gun, since I promised to do so – a case of obligation. And yet I ought not to do, since to do so would be to be indirectly responsible for a murder, and my moral principles are such that I regard this a wrong. I am in an extremely straightforward moral dilemma, evidently resolved by not returning the gun"

(E. J. Lemmon, Moral Dilemmas, “The Philosophical Review”, 2, 1962, p. 148)

Lemmon enuncia quello che la letteratura deontica chiama, e non a caso visto da chi, a sua volta, lo riprende anche il logico statunitense, "paradosso di Platone", benché, ovviamente, sarebbe più corretto chiamarlo "dilemma di Platone".

Ad ogni modo, esprime appieno la condizione propria di (quasi) tutti i dilemmi morali:


  1. due opposte possibilità fattuali;
  2. due opposte possibilità normative;
  3. due opposti corsi d'azione;
  4. impossibilità di mandarli ad effetto le due possibilità fattuali o le due possibilità normative o di realizzare i due opposti corsi d'azione;
  5. incapacità da parte del soggetto di optare per uno o per l'altro corso d'azione;
  6. inazione finale come risultato di (4) e (5);
  7. sensazione normativa comunque che spinge il decisore a compiere una scelta.

    Se fossimo nei panni di Platone, cosa faremmo? Restituiremmo la pistola oppure no?

    (per una più estesa ricognizione sul 'dilemma', vedi il mio recente post: http://alessandropizzo.blogspot.it/2013/08/intorno-al-dilemma.html)

domenica 25 agosto 2013

Intorno al dilemma ...

(Ver. 2.01 - registrerò altri pensieri al riguardo, se verranno ...)

É una topica intrigante della filosofia di ogni tempo, ma forse più di quella del XX secolo, quella concernente i risultati pratici dei dilemmi morali.
In questa sede desidero solamente offrire un repertorio di idee sull'argomento senza però offrire spunti originali o proposte di soluzione.
Amleto deve scegliere se essere Amleto o qualcun altro. Antigone, parimenti, deve scegliere se onorare il fratello Polinice o non onorarlo, per ordine di Creonte, suo zio, un proditor della città di Tebe … Iefete deve onorare quanto promesso o onorare la figlia, l'unica figlia? Ed ancora, Abramo deve uccidere il figlio Isacco o rispettare la legge mosaica? Abbiamo, insomma, tanti esempi, letterari e meno, di un medesimo argomento. Ora, isoliamo in tutti questi esempi solamente la componente normativa, l'antinomia normativa che li sostanzia, ossia il contrasto tra due obblighi di egual valore ma nettamente contrari, e postuliamo che i destinatari degli stessi siano agenti umani razionali, ossia una rappresentazione idealistica degli agenti umani così innervati da carni, adipe, nervi, sensazioni ed emozioni.


Cosa accade in tutti questi casi? Sempre la medesima: il soggetto si trova a dover scegliere tra due azioni l'una contraddittoria dell'altra. L'impressione generale è che si tratti di una condizione a dir poco spiacevole nel senso che chi ne fa esperienza si trova impossibilitato a compiere una scelta tra le alternative che gli si presentano davanti. Infatti, come sostiene Castañeda, il destinatario di un dilemma morale esperisce «a conflict of duties»[1], la presa stritolante tra due opposti doveri reciprocamente escludentisi.

Ma per quale motivo un conflitto tra doveri opposti, o, per dirla altrimenti, un'antinomia normativa, dovrebbe costituire un problema, per giunta pratico, per il malcapitato agente? Possiamo, al riguardo, seguire Holbo secondo il quale «Let a genuine moral dilemma be any situation answering to this description: (1) an agent, M, is categorically (absolutely, all things considered) obliged to do A, and can do A; (2) M is categorically (etc.) obliged to do B, and can do B; (3) M cannot do both A and B»[2].


Dunque, ricapitoliamo:

  1. un dilemma morale è una situazione problematica all'interno della quale il signolo agente è incapace di optare per un corso d'azione piuttosto che l'altro (vale a dire che l'agente non può razionalmente, in assenza di altre informazioni o di altri valori morali, scegliere sensatamente l'uno piuttosto che l'altro);
  2. un dilemma morale è un conflitto tra due obblighi di eguale importanza ma del tutto eterogenei e reciprocamente esclusivi (vale a dire che solo uno dei due può concretamente essere mandato ad effetto);
  3. un dilemma morale è quella condizione per l'azione umana in forza della quale un agente è chiamato a scegliere tra due alternative pur non potendo mandare ad effetto entrambe (vale a dire che pur non potendo realizzarle entrambe è vincolato comunque a sceglierne una).

La storia della filosofia è piuttosto copiosa di esempi.


Abbiamo così Platone con la la seguente descrizione di un dilemma: «Ti faccio un caso: se uno ha ricevuto armi da un amico sano di mente e se le sente richiedere da quell’amico impazzito, chiunque dovrebbe dire, a mio avviso, che non bisogna ridargliele e che non sarebbe giusto chi gliele ridesse»[3].


Oppure, abbiamo, in tempi più vicini, Sartre il quale narra la seguente situazione problematica: «citerò il caso di un mio allievo, venuto a chiedermi consiglio nelle circostanze seguenti. Nella sua famiglia i rapporti tra il padre e la madre si erano guastati e d’altra parte il padre tendeva a collaborare con i tedeschi; il figlio maggiore era caduto durante l’offensiva germanica del ’40, mentre il figlio minore, i mio allievo, giovane dotato di sentimenti un po’ primitivi ma generosi, lo voleva vendicare. La madre viveva sola con l’unico figlio rimastole, affranta per il mezzo tradimento del marito e per la fine dell’altro figlio, e vedeva in lui la sola consolazione. Quel giovane in quel momento poteva scegliere tra partire per l’Inghilterra e arruolarsi nelle Forze Francesi di Liberazione – e quindi abbandonare la madre – o restare presso la madre e consolarne l’esistenza. Si rendeva ben conto che la donna viveva solo per lui e che il suo andarsene via – e forse la sua morte – l’avrebbero gettata nella disperazione»[4].


Esaminiamo adesso la faccenda nei due casi riportarti, Platone e Sartre. Abbiamo:

  1. due opposte possibilità fattuali;
  2. due opposte possibilità normative;
  3. due opposti corsi d'azione;
  4. impossibilità di mandarli ad effetto entrambi;
  5. incapacità da parte del soggetto di optare per uno o per l'altro corso d'azione;
  6. inazione finale come risultato di (4) e (5);
  7. sensazione normativa comunque che spinge il decisore a compiere una scelta.

Preciso anche come le due possibilità fattuali siano nello stesso tempo anche possibilità normative e due possibili corsi d'azione. Siccome, però, si tratta di due alternative di pari importanza, nell'alternativa secca il decisore razionale non può scegliere. Infine, l'agente finisce con il non poter scegliere anche se continua a percepire distintamente la sensazione di dover comunque compiere una scelta, di fatto non disponibile.


Come mai l'agente non può scegliere tra le due possibilità? Penso che il problema risieda nell'elemento (2), ossia nel significato normativo che la situazione cerca di riflettere: le due possibili azioni vengono recepite come moralmente obbligatorie. Il problema, però, è che in entrambi I casi abbiamo due obblighi morali di eguale importanza, ossia equipotenti e siccome sono l'uno opposto all'altro, è impossibile che l'agente possa mandarli ad effetto entrambi.


Ma per lo stesso motivo, egli non può nemmeno preferirne uno piuttosto che l'altro.


Si può, allora, considerare il dilemma morale in maniera del tutto analoga al dilemma normativo, almeno per come lo concepisce Kelsen il quale scrive «tra due norme esiste un conflitto quando ciò che una stabilisce come dovuto è inconciliabile con ciò che l’altra pure stabilisce come dovuto e l’osservanza o l’applicazione di una norma comporta necessariamente o possibilmente la violazione dell’altra»[5].


Dunque, ha sicuramente ragione McCord quando afferma che «we can never face conflicting obligations»[6]. Infatti, nella situazione cristallina delineata, più ideale che reale, ossia in una situazione depurata, l'agente non può compiere alcuna scelta, pur volendo: due obblighi paritetici ma contrari non possono venir soddisfatti contemporaneamente. Forse, nemmeno in un mondo deonticamente perfetto.



Per quale ragione accade ciò?

D'altra parte, per Weber «a moral dilemma is a conflict between all-things-considered obligations»[7] mentre secondo De Haan «a moral dilemma is a situation in which the agent morally ought to do A and morally ought to do B, while he cannot do A as well as B» oppure «a moral dilemma is a situation in which the agent morally ought to do either A and B, while he cannot do both A and B. In other words, there is a disjunctive moral ought to do A and B»[8].


Ma è Ohlsson a spiegarci chiaramente la natura del problema: «In a moral dilemma, the agent acts wrongly whatever she does. Either all avaible alternatives are forbidden, or two or more actions that cannot conjointly be performed are morally required in the same situation, or one and the same action is both forbidden and absolutely obligatory»[9].


Questo dice il discorso teorico, ma possiamo davvero pensare che nella pratica, quotidiana e dei casi eccezionali, l'agente finisca con l'inazione, ossia con la non scelta, perché indisponibile? Aristotele non sarebbe d'accordo: la pratica viene comunque sempre prima della teoria. Peraltro, la non – scelta è davvero qualcosa di eterogeneo rispetto alla scelta? Francamente, ho I miei umanissimi dubbi. Ma questo è un altro discorso che consegno alle nebbie del mare.

Note
[1] Cfr. H. N. CastañedaThinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975, p. 27.
[2] Cfr. J. HolboMoral Dilemmas and the Logic of Obligation, “American Philosophical Quarterly”, 3, 2002, p. 259.
[3] Cfr. PlatoneLa Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610, p. 33 (I, 331 c).
[4] Cfr. J. P. SartreL’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996, pp. 43 – 4.
[5] Cfr. H. KelsenTeoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, p. 193.
[6] Cfr. G. S. McCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, p. 180.
[7] Cfr. T. B. WeberThe Moral Dilemmas Debate, Deontic Logic, and the Impotence of Argument, “Argumentation”, 16, 2002, p. 461.
[8] Cfr. J. De HaanThe Definition of Moral Dilemmas: a Logical Problem, “Ethical Theory and Moral Practice”, 4, 2001, p. 269.
[9] Cfr. R. OhlssonWho Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, p. 405.

Bibliografia

H. N. CastañedaThinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975.
J. De HaanThe Definition of Moral Dilemmas: a Logical Problem, “Ethical Theory and Moral Practice”, 4, 2001, pp. .
J. Holbo, Moral Dilemmas and the Logic of Obligation, “American Philosophical Quarterly”, 3, 2002, pp. 259 – 274.
H. KelsenTeoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985.
G. S. McCord, Deontic Logic and the Priority of Moral Theory, “Mind”, 20, 1986, pp. 179 – 197.
PlatoneLa Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610.
R. Ohlsson, Who Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, pp. 405 – 415.
J. P. SartreL’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996.
T. B. Weber, The Moral Dilemmas Debate, Deontic Logic, and the Impotence of Argument, “Argumentation”, 16, 2002, pp. 459 – 472.




(immagine tratta da: http://www.psychomedia.it/pm/human/epistem/panza1.gif)

sabato 24 agosto 2013

Dilemmi, dilemmi, dilemmi ...

"Ti faccio un caso: se uno ha ricevuto armi da un amico sano di mente e se le sente richiedere da quell’amico impazzito, chiunque dovrebbe dire, a mio avviso, che non bisogna ridargliele e che non sarebbe giusto chi gliele ridesse"

(Platone, La Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610, p. 33 (I, 331 c))

Dilemmi di tutto il mondo, unitevi!

Platone descrive un classico esempio di dilemma morale, ossia quella spiacevole condizione sotto la quale un agente umano razionale è sottoposto a due obblighi confliggenti ma di senso contrario, rimanendo del tutto incapace e di optare per uno dei due possibili corsi d'azione e mandare ad effetto entrambi.

Come in Platone, in quale modo risolveremo il problema? Come scapperemo via dalle strette ed inderogabili maglie del dilemma morale? O, in termini più generali, è possibile sottrarsi ai dilemmi?



(immagine tratta da: http://us.cdn1.123rf.com/168nwm/pixelsaway/pixelsaway1204/pixelsaway120400022/13085563-dilemma-morale--concetto-di-etica--testo-isolato-in-legno-di-tipo-vintage-tipografica.jpg)

venerdì 23 agosto 2013

Singoli senza comunità?

"La morte della patria è certamente l’avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell’individuo. Come naufrago che la tempesta ha gettato in un’isola deserta, nella notte profonda che cala lentamente sulla sua solitudine egli sente infrangersi ad uno ad uno i legami che lo avvincono alla vita, e un problema pauroso, che la presenza viva e operante (anche se male operante) della patria gli impediva di sentire, sorge e giganteggia tra le rovine: il problema dell’esistenza"

(S. Satta, De profundis,Milano, Adelphi, 1980, pp. 16 – 7)


Buon viatico al completamento del lavoro in progress al quale mi sto dedicando in questi ultimi giorni di un'estate tanto calda quanto interlocutoria ...

... al di là del lirismo della prosa di Satta, comunque, a mio modesto modo di vedere, va colta la consonanza tra il problema del dissolvimento dello Stato con il problema dell'esistenza del singolo ...

... forse che sia possibile un singolo senza comunità?

... forse che sia possibile una comunità senza singoli?

... o forse che la prospettiva reale è equidistante dai due punti della (presunta) polarità singolarità - comunità?



(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/41DZysX7qBL._.jpg)

venerdì 16 agosto 2013

Nichilismo morale ...

Molto spesso la L. n. 194/1978, che, per intenderci, consente l'interruzione volontaria di gravidanza, sia pure a determinate condizioni, viene considerata, e difesa, per non dire anche "propagandata" come un successo civile, come il successo della cultura liberale, come l'esito ultimo e progressivo del cammino italiano verso il "meglio".

Commentando, però, l'esito del referendum del 1981, vertente appunto sull'abrogazione di suddetta legge, ma anche sull'abrogazione dell'ergastolo, scrive Scoppola:

"in realtà, la possibilità di abortire in strutture sanitarie statali e la funzione deterrente dell'ergastolo […] si legano non già nella logica di un'affermazione di diritti civili ma in quella molto meno ideale di una domanda di sicurezza, nella maggioranza degli italiani, di non essere inquietati da problemi morali e di principio, di non rinunciare a nessuna possibilità offerta dalla legge a tutela della propria sicurezza anche se questa sicurezza viene pagata con la vita dei nascituri o con la esclusione […] di ogni possibilità di riscatto per gli ergastolani. L'esito congiunto dei due referendum del 1981 molto più di quello del '74 è rivelatore di quel «vuoto etico» verso il quale i processi di secolarizzazione hanno spinto il paese" (P. Scoppola, La repubblica dei partiti, p. 420).


La novità dell'interpretazione offerta dallo storico romano è rilevante: da un lato, consente di comprendere meglio come mai l'istanza civile avrebbe trionfato in un'occasione e non nell'altra, anche se si trattava della medesima tornata referendaria; e, dall'altro lato, invita a scrutare nelle vere ragioni di una determinata volontà popolare.

Certo, l'interpretazione che possiamo offrire deve legare tra loro i risultati delle due consultazioni e far emergere quel che, sovente, si preferisce tacere: in nessun caso, si trattò di cammino verso i diritti civili.

Per dirla altrimenti, l'una e l'altra occasione appaiono piuttosto come l'esito del sostanziale disinteresse degli italiani nei confronti del "pubblico", del bene comune, del sociale, e contestuale strenua difesa dei confini del proprio orizzonte personalistico e meschino.

Non a caso, infatti, Scoppola li interpreta come mancanza di valori morali e come materiale difesa del proprio tenore di vita, ossia come la difesa estrema da qualsiasi pericolo di venir turbati nel proprio (apparente) benessere: nessuna questione morale che implichi una messa in discussione della tranquillità del singolo!

Il lato negativo di questa scelta, più o meno conscia, è presto detto: non importa che si debbano sacrificare altri valori o altri soggetti!

Resta il problema di fondo: constato il danno, cosa fare per ripararvi?


(immagine tratta da: http://www.welded-steelpipes.com/photo/pl1212568-rectangular_hollow_section_structure_pipe_square_hollow_sections_black_square_welded_tubes.jpg)

mercoledì 14 agosto 2013

Indice FAQ logica deontica



Ultimamente mi sono divertito ad immaginare un insieme di domande frequenti che è possibile porre quando si parla di logica deontica. 


Siccome altrove non sono riuscito a trovare delle risposte a tali domande, ho pensato bene di costruire io delle FAQ. 


Hanno così preso il via le tre serie di domande frequenti e relative risposte, beninteso sulla base della mia personale conoscenza della materia, forse non eccelsa, forse manco aggiornata, ma sulla cui bontà proprio non riesco a dubitare.

Per quanti si siano perse le tre puntate, fornisco di seguito un indice con relativi link.


FAQ1: definizione della logica deontica e suoi rapporti con il dilemma di Jørgensen;
FAQ2: definizione di 'paradosso deontico' ed esame delle principali contraddizioni in logica deontica;
FAQ3: prosecuzione disamina dei paradossi deontici e messa a fuoco delle debolezze della logica deontica.

Spero solo di aver aiutato quanti, come me tanti anni fa, si sono trovati in difficoltà nel reperire e collegare tra loro le molteplici informazioni sulla materia presente. 

Certo il presente lavoro si potrebbe migliorare e magari anche trovare una diversa forma editoriale ma lo si farà con calma.


(immagine tratta da: http://www.helsinki.fi/kaytannollinenfilosofia/henkilosto/hilpinen.jpg)

martedì 13 agosto 2013

Non si può sfuggire al proprio destino ...

http://www.lafeltrinelli.it/products/9788891033390/Voci_di_un_antico_presente/Pizzo_Alessandro.html

(ebook)



Capita di scrivere un romanzo ...

... e capita anche di produrne il relativo file per ebook ...

Così, la piccola e provinciale Marsala, grande decaduta, antica Don su capo Boeo, si trova improvvisamente catapultata al centro della scena ...

... già, la scena ... ma quale?

Oscure trame, inquietanti e sinistri figuri, ombre che dal passato popolano il nostro presente ...

... e la certezza che, anche volendo, non si sfugge al proprio destino ...

Riuscirà la nostra eroina ad essere all'altezza del compito alto richiestole?

O, umanamente, fallirà?

Qui, dove anche le pietre parlano, ha luogo un thriller sospeso tra passato e presente, tra storia e mito, tra miserie umane e alti ideali ...

... ma solo chi lo legge, può capire ...

... e solo chi visita, anche solo una volta nella vita, la città di Marsala, può tentare di comprendere ...


domenica 11 agosto 2013

Via italiana alla modernità ...

"la secolarizzazione della società consumistica, quella appunto in cui l’Italia si è tuffata negli anni Sessanta e Settanta, è fuori di quel mondo di valori; non è una fase ulteriore di quella evoluzione, ma una rottura; essa può apparire perfino estranea, in certe sue espressioni, ad ogni mondo di valori, quasi un salto in un vuoto etico che non ha riscontro in altri momenti o aree geografiche della storia europea"

(P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Edizioni Studium, Roma, 19862, p. 142)

Si tratta della più lucida denuncia nei confronti degli esiti deplorevoli della "modernizzazione" in Italia la quale, beninteso, non è stata affatto adeguamento ai livelli di socializzazione dei paesi occidentali, ma l'assimilazione superficiale, ossia agli aspetti più deteriori ed esteriori, a questi ultimi.

La via italiana alla modernità, dunque, è stato il consumismo.

Una spasmodica maniera di costruzione della propria identità individuale consumando quanto più possibile, e non solo fuori di sé.

Il consumismo ha cioè consumato dal di dentro gli italiani, svuotandoli progressivamente di valori e procedendo in fretta a spostare la lancetta dei rapporti tra pubblico e privato in direzione di quest'ultimo, espropriando di conseguenza la dimensione comune, del collettivo, sempre più di ambito, di ruoli, di pertinenze.

Ma vediamo solo oggi quel che siamo diventati a seguito del vuoto etico prodotto dal consumismo. Resta da vedere, invece, se esistano via di fuga o possibili strategie di correzione, sia pure parziale, degli immani errori prodotti.


(immagine tratta da: http://books.google.com/books?id=3T0vAAAAYAAJ&printsec=frontcover&img=1&zoom=1&imgtk=AFLRE72JTKIXAxAgJSFgCRVHLX89fiLsmcCMKgHalaXWpbbbWi5-TjY5rgFcw5Hum1Ka32g4CwlcZxRRBV57m_TEbFAif2K8mpCKyxoJalKvXfhs4rhOSuE)

giovedì 8 agosto 2013

Logica deontica. FAQ3

E com'è il paradosso della vittima?

Anche in questo caso la contraddizione coinvolge direttamente, e senza mezzi termini, il principio [P], ossia il principio secondo il quale se qualcosa implica uno stato di cose vietato è di per sé vietato. Assumiamo allora il caso di una vittima di qualche offesa personale, mettiamo un furto. Abbiamo, di conseguenza, la seguente situazione malformata:

  1. se la vittima di un ladro lamenta il suo destino di essere stata derubata, allora ha avuto luogo una rapina;
  2. è vietato che abbiano luogo rapine;
  3. ergo, (a causa dell'applicazione del princio [P]) è vietato che la vittima di una rapina lamenti il proprio destino di esser rapinata.

Senza alcun dubbio in merito, la conclusione (3) è del tutto paradossale, è cioé una contraddizione con la prima premessa, ovvero una falsità senza possibilità alcuna di redenzione. Come a dire, oltre al danno, il furto, anche la beffa, vietato lamentarsi. Aggiungiamo che la conclusione in questione, sebbene falsa perché contraddittoria (con la premessa (1)), è legittimamente derivata dall'insieme delle premesse e in coordinazione appunto con il principio [P]. Cosa dobbiamo dedurne? Che il suddetto principio è falso oppure, cosa più probabile, che l'eccessiva rigidità della logica deontica sia l'unica responsabile di questo stato di cose? Ovvero, della generazione senza posa di efferati paradossi? A mio avviso, è un problema notazionale della stessa, del tutto incapace di evitare derivazioni incoerenti[1].

Si tratta di contraddizioni notevoli. Cosa accade invece nel caso del paradosso del ladro?

Il colpevole è sempre il principio [P]. Assumiamo l'ipotetico caso seguente:

  1. il ladro pentito della sua rapina implica che una rapina ha avuto luogo;
  2. è vietato che abbiano luogo rapine.

Similmente al caso del Buon Samaritano, si ottiene la seguente conclusione dell’inferenza deontica:

(3) è vietato che il ladro si penta della sua rapina

Ovviamente, la conclusione deontica (3) è paradossale perché si tratta di una formula incoerente dato che vengono affermate due enunciazioni contrarie tra loro, la (1) e la (3). Per di più, appare problematico che dalla verità delle premesse possa derivarsi, e per di più correttamente, una conclusione falsa!

E il paradosso di Platone?

A rigore si deve precisare subito come non sia propriamente “farina” del sacco della logica deontica, ma è pur sempre un'utile occasione per mettere a fuoco un problema formale grave. Nello stesso tempo va detto pure come esso possa venir accostato ai dilemmi morali, ossia a tutti quei casi per I quali la declinazione in concreto di principi generali fallisce e nel corso dei quali il singolo agente è del tutto impossibilitato a scegliere, razionalmente quanto sensatamente, tra una delle due alternative confliggenti[2]. Seguiamo adesso la presentazione che viene offerta da Lemmon[3]: si ponga caso che un amico lasci in custodia la sua pistola con la promessa da parte di rendergliela quando la chiederà indietro. Si conceda che dopo qualche tempo questo amico si presenti chiedendo indietro la sua pistola perché deve lavare il suo onore in quanto ha scoperto che la moglie gli è infedele. Pertanto, il risultato è di trovarsi nell’indesiderabile situazione di esser presi tra due obblighi confliggenti restituire e non restituire la pistola. Infatti, in base a quanto promesso si deve rendergliela ma siccome è prevedibile quale uso ne seguirà si è anche obbligati a non restituirla. Ringraziando Platone per aver formulato per primo questa situazione dilemmatica[4], vediamo di attenzionarla alla luce della logica deontica. Il paradosso è costruito sull’opposizione tra due obbligazioni prima facie di eguale importanza. Ma uno dei principi della logica deontica è che due obbligazioni opposte non possono mai darsi. E tuttavia questo caso concreto sembra costituire un contro-esempio al principio stesso. Allora chiediamoci: è falso l'esempio oppure il principio? Forse, e più ragionevolmente, nessuna delle due. Secondo Hansson[5], la logica deontica è semplicemente, oltre che gravemente, incapace di impedire derivazioni contraddittorie, come le presenti.

Si tratta di un'incapacità grave, anche perché rende possibili situazioni complesse di contraddizioni. É anche il caso del paradosso di Sartre?

Sì, senza dubbio. Anche se il presente è un caso più affine a quello di Platone che ai precedenti, vale a dire ci troviamo di fronte ad un tipico caso di 'dilemma morale' più che di un paradosso deontico in senso proprio. Ma lasciamo che sia Sartre[6] stesso ad illuminarci:

citerò il caso di un mio allievo, venuto a chiedermi consiglio nelle circostanze seguenti. Nella sua famiglia i rapporti tra il padre e la madre si erano guastati e d’altra parte il padre tendeva a collaborare con i tedeschi; il figlio maggiore era caduto durante l’offensiva germanica del ’40, mentre il figlio minore, i mio allievo, giovane dotato di sentimenti un po’ primitivi ma generosi, lo voleva vendicare. La madre viveva sola con l’unico figlio rimastole, affranta per il mezzo tradimento del marito e per la fine dell’altro figlio, e vedeva in lui la sola consolazione. Quel giovane in quel momento poteva scegliere tra partire per l’Inghilterra e arruolarsi nelle Forze Francesi di Liberazione – e quindi abbandonare la madre – o restare presso la madre e consolarne l’esistenza. Si rendeva ben conto che la donna viveva solo per lui e che il suo andarsene via – e forse la sua morte – l’avrebbero gettata nella disperazione

Il problema, in fin dei conti, è che il soggetto non può scegliere in quanto non ha argomenti conclusivi a favore dell’una come dell’altra scelta, benché entrambe si configurino quali doveri. Come si vede, non è esattamente un paradosso deontico ma se si volesse formalizzare con il linguaggio della logica deontica giungeremmo ad una chiara quanto inequivocabile situazione contraddittoria.

Allora potremmo aggiungere, in un'ottica più generale, come la logica deontica non sia in grado di gestire i dilemmi morali?

Esattamente, in un dilemma morale entrambe le alternative sono obbligatorie, e, quindi, richieste, oppure sono entrambe vietate, e, quindi, da evitare, eppure il soggetto non è in grado di scegliere adeguatamentre l'una piuttosto che la l'altra[7]. Il che, comunque, è da un punto di vista squisitamente logico strano oltre che inquietante: non era esclusa la possibilità di conflitti tra doveri?

Cosa accade, invece, nel caso del paradosso dell'Imperativo contrario al dovere?

Semplificando, si può tener conto dello strano meccanismo logico operante nel caso del paradosso del Buon Samaritano, e considerare adesso la situazione seguente:

  1. Nicola deruba Giorgio;
  2. Nicola deve non derubare Giorgio;
  3. Deve darsi il caso che se Nicola non derubi Giorgio, egli non sia punito;
  4. Se Nicola deruba Giorgio, allora egli deve essere punito.

Chishoml[8] chiama la conclusione (d) un imperativo contrario al dovere, vale a dire un obbligo contrario ad dovere precedentemente espresso in (b).
Siccome temo che l'esempio presente renda poco perspicuo lo specifico del paradosso in questione, seguiamo Poli[9]:

(a) Deve essere che Smith si astenga dal derubare Jones.
(b) Smith deruba Jones.
(c) Se Smith deruba Jones, egli deve essere punito per il furto.
  1. Deve essere che, se Smith si astiene dal derubare Jones, egli non venga punito per il furto.

L'iter del ragionamento appare quantomeno strano. Infatti, la conclusione paradossale non ha un carattere generale, ma discende esclusivamente dall'espressione di un nesso di causalità. IL fatto che la logica deontica stenti a darne un'adeguata epsressione è, a mio avviso, un'ulteriore conferma dei limiti della disciplina. Per Føllesdal e Hilpinen[10], infatti, l'Imperativo contrario al dovere ci dice solo cosa andrebbe fatto una volta che sia già stato violato un dovere. Si tratterebbe, dunque, di un dovere “riparatorio” dell'infrazione precedente. Ma la logica deontica fallisce nel tentativo di render conto anche di siffatte situazioni condizionali o di distinzione tra doveri prima facie e doveri attuali.

Ancora una volta, dunque, le difficoltà della disciplina appiono sconcertanti ed inquietanti. Ma rimane ancora un caso da considerare, vero?

Certamente, abbiamo da prendere in considerazione ancora il paradosso del dovere epistemico. Poniamo che un addetto alla sicurezza interna di un supermercato debba vigilare sui taccheggi. Se qualche cliente taccheggia, l'addetto deve sapere chi sta taccheggiando. Ora, però, se lo stesso sa che Maria sta taccheggiando, allora Maria sta taccheggiando. Per lo schematismo della logica deontica, otteniamo infine come sia obbligatorio che Maria taccheggi[11]. Ancora una volta, il formalismo della logica deontica consente di ottenere conclusioni paradossali, ovvero contraddizioni le quali, pur essendo delle asserzioni false, vanno accettate come vere.

Sconcertante, anche se, in certo qual modo, ugualmente stimolante. In conclusione, cosa può dirsi in generale sui paradossi della logica deontica?

La scoperta di limiti interni alla teoria se sulle prime sconvolge perché comunica l'impressione che la teoria stessa sia incosistente a causa delle varie contraddizioni in cui la stessa cade, tuttavia è sorgente di progressi futuri, anche nel tentativo di risolvere, se non tutte, almeno buona parte, delle difficoltà in cui si dibatte la disciplina. Per Poli[12], ad esempio, proprio lo studio dei paradossi ha consentito l'evoluzione della logica deontica. In questo senso, infatti, sembra di poter individuare due sole alternative allo stato di cose attuale: I) o ridurre il corpus degli assiomi, teoremi e linguaggio formale agli aspetti minimali, con applicazione delgi operatori a descrizioni di azione; II) oppure bisogna costruire una logica “più forte” in grando di render conto anche di situazioni nuove, come i nessi di condizionalità oppure le relazioni tra gerarchie diverse di obblighi oppure gestire più variabili contemporaneamente. Anche se, a volerla dire tutta, la storia della logica deontica è sempre stata una storia di risoluzione dei paradossi e riproposizione di nuovi paradossi[13]. Per Makinson[14], d'altra parte, ed anche, pur con le dovute differenze, per von Wright[15], tutti I problemi della materia derivano dalla tensione tra le nostre intuizioni normative, che intenzionano le azioni in un senso “morale”, e il formalismo logico, il quale è del tutto eterogeneo al meccanismo della valutazione morale. Per Rescher[16], infatti, quel che davvero fa, e potrebbe fare solamente, la logica deontica è dare espressione inadeguata al contenuto razionale delle nostre intuizioni morali. In ogni caso, quelli che seguono sono, a mio sommesso parere, I casi di difficoltà la cui trattazione genera paradossi in logica deontica:

(1) relazioni di causalità tra modali deontici;
(2) relazioni di condizionalità (primaria e secondaria) tra proposizioni deontiche;
(3) iterazione di modali deontici;
(4) iterazione modale (modalità miste);
(5) difettibilità, e relativa apertura a tempi, agenti e contenuti differenti, delle proposizioni deontiche;
  1. vincoli di coerenza basati sul principio di contraddizione.

Non c'è proprio speranza, allora?

Possiamo parlare solo del passato e, in certa stretta misura, anche del presente. Ma del futuro chi è abilitato a parlare? Magari un giorno potremo parlare di una logica deontica “perfetta”. Intanto, però, possiamo solo prendere atto delle difficoltà entro le quali deve barcamenarsi la materia.

Note
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[1] Cfr. C. H. Huisjes, Norms and Logic, Copiëerinrichting v. d. Berg, Kampen, 1981, p. 45.
[2] Cfr. H. N. Castañeda, Thinking and Doing, Reidel, Dordrecht, 1975, pp. 26 – 31.
[3] Cfr. E. J. Lemmon, Moral Dilemmas, “The Philosophical Review”, 2, 1962, p. 148: «Here is a simple example, borrowed from Plato. A friend leaves me with a gun, saying that when he calls. He arrives in a distraught condition, demands his gun, and announces that he is going to shoot his wife because she has been unfaithful. I ought to return the gun, since I promised to do so – a case of obligation. And yet I ought not to do, since to do so would be to be indirectly responsible for a murder, and my moral principles are such that I regard this a wrong. I am in an extremely straightforward moral dilemma, evidently resolved by not returning the gun».
[4] Cfr. Platone, La Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 200610, p. 33 (I, 331 c): «Ti faccio un caso: se uno ha ricevuto armi da un amico sano di mente e se le sente richiedere da quell’amico impazzito, chiunque dovrebbe dire, a mio avviso, che non bisogna ridargliele e che non sarebbe giusto chi gliele ridesse».
[5] Cfr. S. O. Hansson, op.cit., p. 170: «in standard deontic logic (SDL), it is possible conclude form Op and Op that Oq for any argument q of the operator. Hence, in the presence of a moral dilemma, everything is obligatory».
[6] Cfr. J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1996, pp. 43 – 4.
[7] Cfr. R. Ohlsson, Who Can Accept Moral Dilemmas?, “The Journal of Philosophy”, 8, 1993, p. 405: «In a moral dilemma, the agent acts wrongly whatever she does. Either all avaible alternatives are forbidden, or two or more actions that cannot conjointly be performed are morally required in the same situation, or one and the same action is both forbidden and absolutely obligatory».
[8] Cfr. R. M. Chisholm, Contrary – to – Duty Imperatives, “Analysis”, 24, 1963, pp. 33 – 36.
[9] Cfr. R. Poli, op. cit.(I), p. 338 e sgg.
[10] Cfr. F. Føllesdal – R. Hilpinen, Deontic Logic: An Introduction, in R. Hilpinen (ed.), Deontic Logic: Introductory and Systematic Readings, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht – Holland, 1971, pp. 25 – 6: «A contrary-to-duty imperatives says what a person ought to do if he has violated his duties».
[11] Cfr. G. Sartor, Legal Reasoning. A Cognitive Approach to the Law, Springer, Dordrecht, 2005, p. 477: «the premise that John ought to know that Mary is stealing surprisingly entails, in standard deontic logic, that Mary ought to steal».
[12] Cfr. R. Poli, op. cit., p. 338: «la scoperta dei paradossi presenti nel sistema di von Wright fu però uno dei motivi, anche se non il solo e forse nemmeno il principale che stimolarono la ricerca di nuovi sistemi».
[13] Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 139.
[14] Cfr. D. Makinson, On a Fundamental Problem of Deontic Logic, in P. McNamarra - H. Prakken, Norms, Logics and Information Systems. New Studies in Deontic Logic and Computer Science, IOS, Amsterdam, 1999, p. 29.
[15] Cfr. G. H. von Wright, On the Logic of Norms and Action, in R. Hilpinen (ed.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7: «There is a singular tension between the philosophy of norms and the formal work of deontic logicians».

[16] Cfr. N. Rescher, Topics in Philosophical Logic, Reidel, Dordrecht, 1969, p. 321.


(G. H. von Wright 1916 - 2003)
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