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sabato 31 maggio 2014

Collaborazione ...

Può capitare di dover riconoscere i meriti altrui e/o di dover riconoscere la natura "doppia" di alcuni lavori. Bene, questo è esattamente il caso della "prima ricerca" contenuta in Parva Logicalia, la mia ultima farneticazione editoriale. Sono debitore nei confronti di Stefania Manassero per aver lavorato "a quattro mani" con me sulla ricerca in questione e mi scuso pubblicamente con lei per ogni conseguenza spiacevole prodotta dalla leggerezza/ingenuità con cui ho omesso il suo nome.




giovedì 29 maggio 2014

Scoppola per scoppole ...




Ultima pagina a: Pagine iniziale a: Il tramonto della repubblica. Pietro Scoppola e la politica "dei partiti". In: (a cura di): POZZONI I, Schegge di filosofia moderna VII, Gaeta (LT):Decomporre Edizioni, ISBN: 9788898671243, pp. p. 253-277




martedì 27 maggio 2014

Essere oltre ... cosa?



"abbiamo perso ma siamo lì, noi siamo oltre la sconfitta"

Parole a freddo dopo lo shock elettorale ...

Curiosità mia: ma i sondaggi chi li fa? Il Casaleggio, forse? O a suon di taleggio?

Comunque, si presti la dovuta attenzione al fluire indistinto delle parole del comico-politico ...

Da un lato, dice "abbiamo perso", e questo è ragionevole; dall'altro aggiunge "ma siamo lì", ed anche questo è ragionevole, e nonostante gli inutili proclami dei giorni precedenti al voto ("il Parlamento non ha più legittimità" ... "l'attuale Capo dello Stato deve andare a casa" ... "nominiamo un altro Presidente della Repubblica" ... "Napolitano deve sciogliere le camere ed affidare a noi il Governo" ....); ma la chiusa finale è un capolavoro di retorica iperbolica indifferente alla semantica palese dei termini adoperati.

Infatti, il comico proclama, quasi con enfasi, "siamo oltre la sconfitta" ...

Il che contraddice quanto detto in precedenza, "abbiamo perso", se sono oltre la sconfitta, allora hanno vinto? Ma non avevano perso? E dire di essere oltre la sconfitta, che vuol significare?

In un post recente, mettevo in luce il carattere trasognante di questa retorica "oltrica", di questo oltrismo declinato in tutte le salse, soprattutto quelle estranee alla realtà effettuale delle cose. In questa sede, ne ravviso un ulteriore aspetto: non conta votarci o meno, non importa vincere o perdere, tanto noi siamo lì, oltre ogni possibile esito elettorale ...

Penso che non ci fosse alcun bisogno, allora, dell'ennesimo manipolatore delle parole ... che finché restano tali, ancora ancora può andar bene, ma se porgiamo lo sguardo sull'abisso viscerale sul quale questa retorica immette, non c'è da stare tanto tranquilli!


(url immagine: http://www.fusionserv.com/wp-content/uploads/2014/05/risultati-elezioni-europee.jpg)

Il labirinto della trattativa ... index!



Recentemente ho pubblicato due distinti post a due differenti parti di uno stesso volume ad opera di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca. Nel presente, invece, fornisco un indice dei due interventi con rispettivi link:

1) parte storica, qui il link;
2) parte giuridica, qui il link.

Per sintetizzare, in ambedue i casi ci troviamo di fronte a due diverse declinazioni, l'una storica l'altra giuridica, della medesima tesi tanto scomoda quanto non scontata tesi. Assolutamente da conoscere e da meditare ...

domenica 25 maggio 2014

Cantami, oh mio troll!



In tempi di stelle cadenti e oltrismi, riflettiamo bene sui confini liquidi e fuzzy del grillismo, talvolta perle preziose talaltra solamente "merda digitale" (cit.), talvolta capopopolo talaltra solamente oltre-hitlerismo, talvolta nume tutelare della democrazia talaltra solo un troll digitale ... bene, chiariamoci le idee su cosa sono i troll e come gestirli!

"Gestire i trolls. Corso di sopravvivenza
Oggi i troll non sono più quindicenni coinvolti nei videogiochi, ma sono persone che cercano di demolire il lavoro degli altri intervenendo nelle discussioni online su blog, forum e social network. Spesso ripetendo ossessivamente all'infinito alcuni schemi argomentativi semplici. Qualunque cosa voi scriviate, arriva il troll, riprende l'argomento ossessivo, solitamente non nel merito di ciò che avete scritto, e dà il via. 
Cosa fare? Come arginare? Come comportarsi?

Comprendere il troll
Riconoscere e capire un troll è importante per potersi difendere o riuscire ad evitare di cadere nella sua provocazione. Ciò che spinge un troll a commettere simili comportamenti sono sostanzialmente riconducibili a due motivi: noia e richiesta di attenzione. Chi ha un hobby o un lavoro non ha il tempo per essere un troll: la noia nel mondo reale si trasporta in quello virtuale spingendolo a trovare sollievo nel danneggiare gli altri. I troll sono carenti di stimoli IRL (in real life), vuoi per scarse propensioni alle relazioni sociali, per pigrizia o semplice mancanza di interesse. Il risultato è quello di ricercare ed ottenere facilmente online ciò che invece potrebbe incentivare una vita reale. Dietro a questo genere di atteggiamento si nasconde una profonda insicurezza, quindi, indipendentemente dal mezzo con cui la risposta è ottenuta, il trolling acquisisce un senso quando qualcuno cede alla provocazione e reagisce.
Altro segnale di insicurezza è la richiesta di attenzione: un troll vuole essere al centro delle attenzioni, essere il beniamino della marachella, avere i riflettori puntati su di sé. E per ottenere tutte queste attenzioni userà qualsiasi metodo: critiche, commenti polemici, flame o stupide offese. La reazione immediata che si ha nel ricevere questi attacchi personali è quella di rispondere sentendosi costretti a “sistemare le cose”: questo è ciò che alimenta un troll.

Non alimentare il troll
La ragione per cui ci sentiamo in dovere di rispondere a un commento negativo è lo stesso motivo per cui un troll fa quello che fa: ego. Se uno sconosciuto entra in contatto con la nostra vita, fa parte della nostra natura umana tentare di difenderci e non restare in silenzio, perché il silenzio potrebbe essere interpretato come segnale di arresa e il cessare di opporre resistenza significa sconfitta. Questo è modo di pensare è sbagliato. Chi ha esperienza nello studio dei troll e nelle interazioni con simili personaggi confessa che è impossibile battere un troll, sia nella realtà virtuale che nelle discussioni online. Un troll non ammetterà mai di aver sbagliato, ricredersi sul suo comportamento e rimediare all’accaduto. Dunque, dopo aver ricevuto un affronto da un troll invece di fumare dalla rabbia e reagire di istinto sarebbe bene ignorarlo completamente. È ovvio che questo è molto difficile perché siamo naturalmente inclini a reagire agli impulsi e siamo portati al contrattacco. Non fatevi ingannare da accuse del genere "non accetti le critiche" oppure "non sei democratico". Offese e calunnie non sono critiche e nemmeno segno di democrazia, nella "vita reale" sono reati. Il troll non lo sa o non vuole ammetterlo, voi sì. Ignoratelo. Rischiate di essere complici, in modo subdolo e inconsapevole, di un reato di cui ancora oggi devono definirsi i confini: la diffamazione e la calunnia digitale come anche lo stalking digitale. Cioè prendere di mira qualcuno è ossessionarlo di critiche, di offese mascherate e di calunnie. Ignorare completamente è l'unico modo di difendersi.

Gestire i troll
Qualche consiglio per prevenire e gestire i segnali di sfida di un troll:

- Prevedere con lungimiranza: durante un attacco di un troll provare a chiedersi quale potrà essere il risultato di un’eventuale risposta. Per dare una risposta è necessario mettere in pausa il gioco, respirare e capire il significato di quell’ attacco al nostro ego. Perché ci stiamo sentendo colpiti e arrabbiati? Abbiamo già visto un simile comportamento in altri scenari? Il commento ricevuto contiene degli elementi validi? Questi piccoli particolari devono influenzarci nel renderci conto che ogni nostra risposta non cambierà la mente del troll, ma anzi potrà nutrirlo.

- Parlare con un amico: il semplice gesto di sfogare la frustrazione di essere stati provocati raccontandolo a qualcuno, potrà farvi realizzare che la reazione all’attacco non porterà i benefici pensati, ma inviterà il troll ad andare oltre. Cancellare un post o un commento al quale abbiamo ricevuto un flame o una provocazione sarà soltanto un segnale di vittoria per il troll e una sconfitta per tutti gli amici o i lettori cui invece il contenuto interessa veramente.

- Allenamento: se non sai come trattare con i troll è il momento di fare pratica con dei principi che ci indicano cosa fare e come non agire in determinate situazioni. Così come è bene chiedersi quale importanza ha per noi la persona che ci sta accusando: è il valore di questa risposta a fornire la sensazione e il sentimento di rabbia.

Regola del 30%: James Altucher sostiene che non ha importanza chi siamo, quello che facciamo e qual è il nostro pubblico, indipendentemente da questo, il 30% ci amerà, il 30% ci odierà e il 30% ci ignorerà. Pertanto ci dobbiamo concentrare sulla prima percentuale e non spendere neanche un solo secondo sul resto. I troll non fanno parte di quel primo 30%.

da:

(tratto da: https://www.facebook.com/notes/mila-spicola/gestire-i-trolls-corso-di-sopravvivenza/10152476863958217)

venerdì 23 maggio 2014

Anniversario strage di Capaci



"è finito tutto" ...



Ricordo ancora le parole di sconforto, amarezza, rabbia, stupore di questo servitore dello Stato alla notizia del tritolo di via D'amelio...



Ero piccolo e non capivo, ma le ricordo ancora bene quando le sentii in prima persona in quelle ore convulse e caotiche ...


Son passati 22 lunghissimi anni da allora, prima il 23 maggio e poi il 19 luglio, ed ancora le tengo impresse nella memoria ...


Ed ora dico solo che è impossibile aggiungere altro, queste poche parole dicono tutto.


giovedì 22 maggio 2014

Scoppola e scoppole ...

Pagine iniziale a: Il tramonto della repubblica. Pietro Scoppola e la politica "dei partiti". In: (a cura di): POZZONI I, Schegge di filosofia moderna VII, Gaeta (LT):Decomporre Edizioni, ISBN: 9788898671243, pp. p. 253-277




martedì 20 maggio 2014

Idea soggiacente all'approccio delle capacità ...




"l’idea intuitiva che sta dietro alla mia versione dell’approccio delle capacità è duplice: anzitutto, che alcune funzioni umane sono particolarmente essenziali per la vita umana, nel senso che la loro presenza o assenza è contrassegno caratteristico della presenza o assenza della vita umana. In secondo luogo […] che una vita la quale sia stata così impoverita da non essere degna di un essere umano, sia una vita che si continua a vivere più o meno come farebbe un animale, dal momento che non si è capaci di sviluppare e di esercitare le proprie facoltà umane"



(M. C. Nussbaum, «Mi trovai bella come una mente libera»: libertà delle donne e giustiza, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 73)

domenica 18 maggio 2014

Oltrismi ...




"io sono oltre Hitler" ...



Quello lì le spara grosse, ma io mi sento un po' confuso e un tantino preoccupato.


(url immagine: http://www.quitthedoner.com/wp-content/uploads/2013/03/grillo-maschera11.jpg)

giovedì 15 maggio 2014

Il disagio della postmodernità



"Per la prima volta i giovani si confrontano oggi con i limiti dei loro sogni. Ancora fino a dieci anni fa venivano pubblicati libri, nel mondo occidentale, su come i giovani volessero tutto e lo inseguissero: questa era l'idea predominante. È vero, forse oggi i giovani sono ancora abituati a volere tutto, ma il problema è che non sanno dove andarlo a cercare. Iniziano a sospettare che questa rincorsa non sia poi così conveniente, poiché pensano che desideri e sogni siano fuori dalla loro portata"



(Z. Bauman, Il buio del postmoderno, Aliberti Editore, Roma, 2011, p. 54)

Il disagio della postmodernità.

Il disagio generazionale.

martedì 13 maggio 2014

Dieci capacità ...

Elenco delle dieci capacità nussbaumiane.

1)      Vita, ossia la «capacità di condurre una vita di durata normale»[1];
2)      Salute fisica, vale a dire «la capacità di essere in buona salute e ben nutriti»[2];
3)      Integrità fisica, ossia «la capacità di disporre del proprio corpo»[3];
4)      Sensi, immaginazione e pensiero, vale a dire «la capacità di far uso dei sensi, dell’immaginazione e del pensiero, usufruendo di una istruzione adeguata»[4];
5)      Emozioni, vale a dire «la capacità di provare emozioni, affetto, amore»[5];
6)      Ragion pratica, ossia «la capacità di compiere scelte etiche consapevoli»[6];
7)      Appartenenza, vale a dire «la capacità di vivere in comune con altri e di godere delle basi sociali del rispetto di sé»[7];
8)      Altre specie, ossia «la capacità di vivere in relazione con le altre specie»[8];
9)      Gioco, vale a dire «la capacità di ridere e giocare»[9];
Controllo del proprio ambiente politico e materiale, ossia «la capacità di partecipare alle scelte politiche, di avere proprietà e lavoro»[10].

Ulteriore variante dell'approccio alle capacità personali.


[1] Cfr. S. F. Magni, Etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 97.
[2] Ibidem.
[3] Supra.
[4] Ibidem.
[5] Supra.
[6] Ibidem.
[7] Supra.
[8] Ibidem.
[9] Supra.
[10] Ibidem.

venerdì 9 maggio 2014

Il labirinto della trattativa … parte giuridica



Se storicamente è impresa davvero difficile poter inquadrare gli eventi e i soggetti che si resero protagonisti ed effettori della trama complottista, ancora più ardua risulta l’impresa se assunta a partire dallo sguardo del giurista. Difatti, non esiste alcun reato che possa inquadrare in maniera netta eventuali responsabilità ambiguamente chiamate in causa dalla nozione stessa di “trattativa”.


Giovanni Fiandaca è netto nell’esprimere questa sua opinione di carattere generale, ma anche nel criticare l’atteggiamento complessivo della Procura palermitana nell’affidamento completo all’art. 338 c.p., capo d’accusa del medesimo procedimento.


Il giurista risulta molto interessato all’argomento in questione, ma individua subito un preciso limite all’interpretazione dei giuristi a tal proposito: «per punire un reato non basta disapprovarlo, ma occorre individuare una legge che lo configuri espressamente come reato» (p. 71).  Detto altrimenti, precisato che i giudici cercano di fare onestamente il loro lavoro, è comunque impresa farraginosa cercare di inquadrare gli eventi in questione all’interno di ben precisate ipotesi di reato, anche in considerazione della distanza temporale naturalmente intercorsa nel frattempo.  V’è poi insito, e concreto, il rischio che il magistrato travalichi in certo qual modo il suo stesso ruolo, andando a «dare voce all’indignazione collettiva e al diffuso bisogno di risarcimento morale provocati dagli eventi sfragistici del biennio ’92 – ‘93» (p. 71). Così, rendendosi interpreti di un diffuso sentimento popolare, non consolato per altra via, i magistrati che perseguono i turpi protagonisti della (presunta) trattativa tra mafia e Stato, essi finiscono con il fondere il procedimento inquisitivo, per sua natura intransigente, e l’umore popolare, per sua natura abbastanza schematico e sedotto dalla retorica massimalista, passando da funzionari, di quello stesso Stato che chiamano a processo, a tribuni del popolo.


Secondo Fiandaca, essendo tutti i magistrati della procura palermitana interessati al procedimento in questione di comune affiliazione antimafia, essi, cercando visibilità ed interpretando la propria funzione anche in chiave pedagogica, andando nelle scuole, nelle università, nelle piazze, ad incontrare la gente e a insegnare loro cosa sia il diritto, anche al fine di non rimanere “isolati” all’interno dei corpi statuali, anche come effetto dell’insegnamento di Falcone, corrono davvero il rischio di tramutarsi in meri esecutori della volontà popolare, sovrapponendo alla conoscenza giuridica dei fatti in questione una preventiva, e presuntiva, valutazione morale, popolare quanto preconcetta.


Che il rischio sia forte lo dimostra l’atteggiamento di varie componenti dell’anima popolare dell’antimafia la quale mette in campo «una accesa e fideistica tifoseria a sostegno dei magistrati dell’accusa» (p. 72), dimenticando che la normale cultura giuridica contempla anche l’istituto della difesa, per non parlare dell’intero processo penale, e che una giustizia delle emozioni è cosa ben distante dalla stessa giustizia che, a parole, viene invocata.


La magistratura non è solo inquirente, è anche giudicante, e per giudicare qualcuno colpevole di qualcosa lo si deve dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio. Cosa che, invece, la pubblica accusa nel caso delle trame inerenti alla trattativa non fa. Per Fiandaca è persino «fuorviante» (p. 73)denominare l’attuale procedimento penale in corso come «processo sulla trattativa».  Piuttosto, qualificare in termini giuridici l’insieme delle condotte messe in atto durante la trattativa in questione richiede uno sforzo cognitivo e metodologico superiore agli umori della piazza. Se la parola ‘trattativa’ risulta già di suo estremamente ambigua e poco chiara, lo è ancora di più in dottrina ove trattare rimanda ad una serie di operazioni preliminari al raggiungimento di un vero e proprio accordo. È, infatti, significativo che la vulgata mediatica parli di processo su una trattativa, equiparando indegno a reo, senza, però, specificare né i termini esatti dell’accorso né specificare se un accordo seguì davvero. In questo senso, l’azione dei magistrati configura piuttosto l’espressione di una congettura investigativa, la quale sarebbe precursore di eventuali e successive ipotesi di reato, che non un rigoroso onere probatorio a carico di terzi. Come a dire che non esiste nel nostro ordinamento il reato di ‘trattativa’. Anche perché risulta davvero difficile inquadrare le responsabilità personali dei singoli. Mentre risulta più facile, e schematico, addossare allo Stato la colpa di aver trattato, più difficile è stabilire chi nello Stato s’è reso responsabile personalmente della suddetta trattativa.


Ammesso e non concesso che qualche accenno di trattativa in quegli anni terribili vi fu, il livello di attività statuale messo in azione non sarebbe stato, giunge a chiedersi Fiandaca, lecito se finalizzato a un «obiettivo anti – stragistico» (p. 82)? Peraltro, le strane vicissitudini processuali del generale Mori mostrano una non uniformità di opinioni in seno alla procura di Palermo la quale, da ultimo, sembra orientata a considerare più verosimile l’ipotesi che obiettivo dei contatti informali con Ciancimino jr «non fosse di intavolare un vero e proprio negoziato con Cosa Nostra» (p. 83), ma «far apparire l’esistenza di un negoziato al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a Cosa Nostra» (p. 83), e questo anche «in vista della cattura dei boss ancora latitanti» (p. 83). Sembrerebbe, dunque, che l’operato degli organi inquirenti sia stato piuttosto quello di fare il doppio gioco che di cedere davvero ai desiderata di Cosa Nostra. Ma questo comportamento non integra in sé alcuna ipotesi di reato né tantomeno prefigura un illecito a carico di singoli. Allora, com’è possibile che venga istruito un processo penale sulla trattativa?



Per accertare l’esistenza di una reale accordo tra mafia e Stato, sarebbe bene che i magistrati dicessero anche quale sia stato, in tal caso, «l’insieme dei vantaggi ricevuti da Cosa Nostra» (p. 95). Infatti, grande assente in tutte le ricostruzioni, più o meno faziose, della tematica in questione, è l’aspetto relativo ai risultati tangibili della trattativa, ovvero l’oggetto ignobile del negoziato, il frutto proibito della commistione di mafia e Stato. La retorica pubblica, al riguardo, sostiene che i mafiosi ottennero un alleggerimento del trattamento penitenziale, circostanza vera solo in alcuni casi, ma del tutto falsa se si pone mente al generale inasprimento della legislazione criminale, mentre lo Stato ottenne una sospensione della strategia sfragistica. Tuttavia, Fiandaca ritiene come non sembrano «esservi ragioni oggettivamente forti per supporre che il ricorso a una strategia di tipo stragista fosse una condizione storicamente necessaria del passaggio dal vecchio sistema di potere incentrato sulla Dc al nuovo regime impersonato da Berlusconi» (p. 88). Solo nelle chiacchiere “da bar” o da quattro soldi si può cogliere tale nesso mentre in sedi istituzionali tale ragionamento non regge, nel senso che non si sostiene su solide ragioni.



L’intera ricostruzione inquirente «desta riserve» (p. 97). Non basta una generica, e preconcetta, cornice storica per inquadrare i comportamenti e individuare responsabilità così come ipotesi di reato a carico di terzi. Peraltro, data la situazione di estremo pericolo per l’incolumità dei cittadini, Fiandaca prospetta una situazione di extra legem in forza della quale, ammesso e non concesso, che quadri e settori dello Stato abbiamo cercato di dialogare con la mafia offrendo concessioni «in cambio della cessazione delle stragi» (p. 104), l’intera strategia come tutta l’iniziativa sarebbe legittima perché «giustificata […] dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini» (p. 104). In questo stato di cose, appare pertanto risibile la medesima ipotesi processuale, tanto più se si pone mente all’assenza nel nostro ordinamento giuridico del reato di trattativa.



Tuttavia, ne emerge abbastanza chiaramente una versione “forte” di legalità nel procedimento in corso ad opera dei magistrati palermitani e secondo la quale essa «non può che essere ritagliata sul modello di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente quella giudiziaria» (p. 109). Pertanto, qualsiasi iniziativa da parte di altri organi, ancorché statali, deve essere stigmatizzata come «interferenza illecita o inopportuna» (p. 109).



Il procedimento si basa sullart. 388 c.p., minaccia ad un corpo politico. Ma Fiandaca ravvisa tutte le difficoltà di una simile fonte dal momento che taluni soggetti avrebbero un doppio ruolo, di persecutori di sé stessi, e come risulti davvero difficile distinguere le responsabilità di singoli ufficiali appartenenti ad organi diversi dello Stato. Piuttosto, ravvisa ancora, sarebbe stato più saggio procedere ex art. 289, attentato contro organi costituzionali e contro assemblee regionali. Non basta trattare perché si verifichi la fattispecie prevista all’art. 388, «bisognerebbe provare che politici e ufficiali dei carabinieri avessero l’ulteriore volontà di supportare Cose Nostra anche nella realizzazione dei singoli attacchi criminali volti a imporre la trattativa» (p. 123).



Secondo Fiandaca, peraltro, le recenti vicissitudini politico – magistrali, hanno avuto come effetto l’«attivarsi di uno specifico circuito politico-mediatico-giudiziario interessato a strumentalizzare tutta la vicenda in vista di contingenti obiettivi politici più generali» (p. 126). Così facendo, però, la ricerca «della verità fattuale rischia di incamminarsi per scorciatoie che assumono impropriamente il sapere storico-sociologico […] a fonte di verità inoppugnabili, così trascurandosi che la stessa storia e la stessa sociologia […] sono ben lungi dal fornire conoscenze sicure e univoche» (p. 130).



Se desideriamo davvero fare chiarezza e cercare la verità di fatti comunque verificatisi molti anni fa e sui quali si è realizzato un proliferare di vari processi, con una loro storia ed una loro evoluzione, Fiandaca suggerisce la via della Commissione parlamentare. Tuttavia, al di là delle non rosee precedenti esperienza di tale strumento, «difficilmente dai suoi lavori potrebbero emergere novità tali da sconvolgere il senso complessivo delle considerazioni sin qui svolte» (p. 135).

(per la parte storica, qui il link al post apposito)



martedì 6 maggio 2014

Ingiustizia



"l’idea intuitiva che sta dietro alla mia versione dell’approccio delle capacità è duplice: anzitutto, che alcune funzioni umane sono particolarmente essenziali per la vita umana, nel senso che la loro presenza o assenza è contrassegno caratteristico della presenza o assenza della vita umana. In secondo luogo […] che una vita la quale sia stata così impoverita da non essere degna di un essere umano, sia una vita che si continua a vivere più o meno come farebbe un animale, dal momento che non si è capaci di sviluppare e di esercitare le proprie facoltà umane"



(M. C. Nussbaum, «Mi trovai bella come una mente libera»: libertà delle donne e giustiza, in M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 73)


Ingiustizia di dice in molti modi, impoverire la vita umana sino al punto di farla regredire ad una una mera sussistenza animale è uno di questi.

domenica 4 maggio 2014

Resta qui con noi ...



"[13] Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, [14] e conversavano di tutto quello che era accaduto. [15] Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. [16] Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. [17] Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; [18] uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». [19] Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; [20] come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. [21] Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. [22] Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro [23] e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. [24] Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto». [25] Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! [26] Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». [27] E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. [28] Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. [29] Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno gia volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. [30] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. [31] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. [32] Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». [33] E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, [34] i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». [35] Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane" 



(Lc XXIV, 13 - 35)

Solo due annotazioni: 1) le donne riconosco il Signore risorto, gli altri no; e, 2) manco i discepoli di Emmaus lo riconosco, pur camminando con Lui. Questi ultimi lo riconoscono solo nel momento dello spezzare il pane. Solo allora si aprirono i loro occhi ed essi videro. E quando anche noi, come loro, Lo vedremo, non potremo che fare nostra la preghiera dei discepoli di Emmaus, "resta qui con noi, è sera ormai".


venerdì 2 maggio 2014

Il labirinto della trattativa … parte storica



(url immagine: http://www.laterza.it/immagini/copertine/9788858110461.jpg)

L’agile pamphlet di Salvatore Lupo ha un grande merito congiunto ad un pari grande difetto, smonta l’oppressiva retorica attuale della trattativa ma, contemporaneamente, non fornisce alcuna informazione su quest’ultima, su cosa sia davvero e quali ne siano le fonti.

Detto altrimenti, Lupo si concentra esclusivamente su una considerazione storica dell’argomento in questione, leggendolo non alla luce delle vicissitudini politiche della (mai nata) Seconda Repubblica, come al contrario fan (quasi) tutti, ma alla luce dei rapporti tradizionali tra mafia e Stato, così pure tra Stato e Istituzioni (dello Stesso).

Si comprende allora come mai poca simpatia incontri la tesi forte del presente scritto (di quale trattativa stiamo parlando se nessuna delle richieste mafiose è stata soddisfatta?) e come, al contrario, l’opinione pubblica senta il bisogno, quasi inconscio, ma di certo paranoico, di perpetuare il classico adagio secondo il quale la mafia ha vinto?

L’analisi compiuta da Lupo, con il suo procedere schietto e affabulatorio (ricordo ancora le sue lezioni alla SISS e i sonori mal di testa che mi provocavano) e con un gusto indescrivibile nello sciogliere il gioco linguistico delle retoriche pubbliche, mostra come, in netto contrasto con l’ingiustificata ed umorale sensazione da parte dell’opinione pubblica, la mafia sia stata in genere (almeno finora) incapace di «calcolare gli effetti» (p. 22) delle sue iniziative, ivi comprese naturalmente anche quelle stragiste, forse perché «in preda ad una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica: colpire e poi colpire ancora» (p. 22). Questo già basta a sminuire l’impressione collettiva, ed angosciosa, di una mafia che agisce (e colpisce) con saggezza tattica, con consumata genialità militare. Così non è, così non è stato, e può esserlo solo se all’oggettività della conoscenza fattuale sostituiamo la soggettività, ed arbitrarietà, delle valutazioni morali. Chi fa ciò, non opera da storico, ma rende anche un cattivo lavoro alla conoscenza generale, dal momento che fa derivare la conoscenza storica da (pre)-valutazioni soggettive (del corso storico). Solo dopo aver conosciuto i fatti, è possibile condurre una loro valutazione etica. Nel caso, della lotta alla mafia, a cavallo degli anni ’90, le cose sono andate alla rovescia, prima la valutazione etica e solo dopo la conoscenza storica.

Lupo se la prende molto con questo arbitrario modo di procedere, che finisce con mistificare le cose, volutamente o colpevolmente.

Peraltro, è indicativo, ai suoi occhi, come la paternità di gran parte della retorica presente, inerente alla trattativa, sia da collocare non dalla parte della mafia, come pure sarebbe lecito attendersi, ma dalla parte della stessa antimafia, tra i vari attori delle medesima opera collettiva. Ciò suggerisce come, al contrario di quel che comunemente si crede, l’apparente farraginosità di suddetta lotta non vada ascritta all’esistenza di “patti scellerati” tra la mafia e lo Stato, ma alla competizione tra organi paralleli, ed indipendenti, del medesimo Stato. Ciò vale sia nel caso della mancata perquisizione dell’abitazione di Riina sia nel caso di clamorosi indagini a metà. È poi emblematico come la memoria di figure di primo piano nella lotta alla mafia si siano colorati a seconda di questa (ideologica) lettura della storia patria. Lo stesso Mori è assurto a simbolo negativo dei trattativisti. In realtà, a chi si presta a leggere in bona fide le carte dei suoi interrogatori, così come delle sue (auto-)difese, emerge un interesse ben diverso da quello a suo modo denunciato dai sostenitori del “grande complotto” (della trattativa tra mafia e Stato). Un corpo inquirente pensò piuttosto di lasciare «integri alcuni fili per ricollegarvi indagini future» (p. 35). Una strategia certo atipica, per non dire anche eterodossa, di modalità investigativa, ma molto utile, per non dire anche saggia.

Ma rientrava anche nella natura propria dei ROS, un corpo investigativo, inserito all’interno dell’Arma, e, dunque, Stato come tante altre sue parti, ma con una logica (di corpo) autonoma. Mori agiva da solo, come la sua  stessa passata esperienza gli consigliava: acquisire informazioni che potessero risultare utili. Probabilmente, con questo obiettivo, e senza che nulla faccia pensare a comandi “dall’alto” decise di intavolare colloqui con Ciancimino figlio. Né più né meno di quel che fanno gli agenti segreti, cercare di dialogare con il nemico, magari bluffando su quel che quest’ultimo potrebbe ottenere in cambio …

Ma qui veniamo, ora, alla parte più complessa, ed interessante, della questione, se non anche una delle principali fonti della tematica in questione. È Ciancimino jr a rivelare l’esistenza di una (passata) trattativa tra mafia e Stato la quale avrebbe portato all’estromissione della parte estremista di Cosa nostra (arresto di Riina) e al successo della parte moderata (Provenzano). La stessa sentenza del ’98, che giudicava la stagione fiorentina delle bombe del ’93, faceva accenno a questa (presunta) trattativa. La cosa strana è che il famoso papello non fa altro che ripresentare le rivendicazioni storiche della mafia, nulla di nuovo, eccezion fatta per l’ultimo comma (abolizione in Sicilia delle tasse sui carburanti) che appare più «un goffo tentativo dell’estensore di confondere le acque sfruttando la popolarità di uno slogan» (pp. 53 – 4). Peraltro, appare strano che Ciancimino jr. presentasse la sua parte come moderata visto che Ciancimino sr. «non era moderato» (p. 38). Allora, queste evidenti contraddizioni come si superano? A me pare semplice, Ciancimino non ha alcuna attendibilità, nemmeno in qualità di fonte inconsapevole. Quel che porta a prova della fu trattativa è solo fumo negli occhi, mera e classicissima opera mafiosa di mistificazione della realtà, oltre che della nostra storia recente.

Inoltre, appare strano come la medesima retorica della trattativa non colga un aspetto importante: se in suddetta trattativa lo Stato ha ceduto, e la mafia ha vinto, cosa o come si sarebbe realizzata siffatta resa? Detto altrimenti, cui prodest? Se due attori intavolano una trattativa, qualcosa si dovrebbe reciprocamente ottenere. Ecco il problema, relativo alla verifica empirica del teorema del “grande complotto” qui presente: cosa ha guadagnato la mafia? E, per conversa, cosa avrebbe guadagnato lo Stato? I sostenitori, o anche solo semplici simpatizzanti, del MoVimento della trattativa non lo dicono. Mi chiedo: potrebbero forse dirlo? La risposta è chiara quanto netta: no. Perché una teoria di questo genere non ha molta attinenza con la realtà. Dico: è fatta e si sostanzia di nozioni etiche, come potrebbe riscontrarne le movenze nel tessuto materiale degli eventi? Non può! È come nel caso dei teoremi della geometria: si tratta di tautologie, ovvero di proposizioni sempre vere, ma che poco o nulla hanno a che fare con la geometria fisica della natura. Ovviamente, non intendo mica mischiare troppo le carte, ma solo precisare che ad un articolo di fede non viene richiesta prova o dimostrazione. Ebbene, la retorica della trattativa appare appunto un dogma che non mostra il divenire concreto delle cose e che non necessita nemmeno di dimostrazione.

Dunque, la trattativa vi fu, a prescindere dall’oggetto reale del contendere e degli effetti della stessa.

Ma torniamo adesso allo Stato, attualmente tanto in crisi di legittimazione popolare quanto in crisi di governante. Lo Stato moderno è, sotto ogni punto di vista, un sistema complesso, con tanti corpi interni, autonomi e sovente in competizione tra loro. La polemica giudiziaria ne è un elemento caratteristico e che «rischia di far risultare fuorviante l’idea della trattativa tra lo Stato e la mafia» (p. 45). Infatti, cosa dovremmo pensare di un organo dello Stato, la magistratura inquirente, che ne accusa un altro, il Governo? La fortuna di Ingroia poggia su questo triste ed angosciante conflitto tra organi in concorrenza del medesimo Stato. Conflitti già noti nel passato storico e che «non possono essere sciolti dal plauso o dal dissenso popolare» (p. 45). Una condizione che amaramente Lupo stesso estende all’organizzazione antimafia Agende rosse.

E qui s’appunta il procedimento prima ravvisato di costruzione ideologica del passato storico per previo investimento assiologico. Infatti, «gli inquirenti pensano i governi del ’92 – ’93 come un campo aperto per pressioni illecite, indicando le loro decisioni come legittime se (con Scotti e Martelli) mostrarono inflessibilità, illegittime quando (con Mancino e Conso) mostrarono flessibilità» (p. 48), prestando il fianco alla coscienza popolare che “legge” tali decisioni come il frutto dell’illecita trattativa di cui sopra. Ma ciò contraddice con le evidenze storiche del caso. In realtà, ad esempio, Martelli lasciò il Ministero solo perché travolto dal medesimo scandalo che travolse il PSI (e con esso Craxi e il suo stesso sistema di potere). Mentre Conso agì «nell’ambito delle sue competenze, scegliendo tra due alternative per cui militavano buoni argomenti, facendo valere un criterio di opportunità politica» (p. 49). E Scalfaro, in vario modo, tirato in ballo, difficilmente, per la sua stessa storia personale, oltre che per il contegno massimo assunto durante e dopo il settenato, è difficile «immaginarlo nella veste del favoreggiatore (consapevole e astuto? Inconsapevole e stupido?) di Cosa Nostra.

Resta il dubbio di fondo: cosa ci guadagnò la mafia? E, ancor più importante, cosa si guadagnò lo Stato?

Secondo Lupo, piuttosto, va colto il nesso ineludibile tra la retorica presente e la storia recente, come l’azione costante del filtro della trattativa nell’interpretazione dei fatti inerenti alla Seconda Repubblica. La scomparsa della DC, assieme al tramonto di una sostanziale impunità per i mafiosi, avrebbe portato al riflusso di voti verso la neonata FI, ma non come esito, o effetto, della presunta trattativa. Al contrario, a creare lo stesso «non furono le lobby mafiose sotto attacco» (p. 57), ma «la convinzione diffusa all’interno di Cosa Nostra» (p. 58) secondo la quale il nuovo attore politico fosse nelle loro mani, fosse cioè cosa loro, e che, di conseguenza, avrebbe realizzato i loro desideri, gli stessi presenti nel famoso papello. Le cose, però, non sono andate come si auguravano, come speravano. Allora, che ne sarebbe stata della trattativa medesima?

Lupo è netto quanto asciutto nelle sue lucide conclusioni: i due Ciancimino sono «due ottimi rappresentanti di una lobby mafiosa che tenta di salvarsi rinnegando la propria appartenenza, sebbene con incerto successo» (p. 59). Quindi, manco è detto che Ciancimino trattò con lo Stato in favore della mafia (quale? Moderata? Intransigente? Rurale? Moderna? Radicale?) e nulla garantisce che avesse il mandato per farlo. Lo stesso problema si presenta nello schieramento opposto: chi inviò Mori et alii? E con quale mandato?

In realtà, la genesi del fenomeno della trattativa va vista nel tam-tam mediatico che mal comprende la storica natura dei rapporti, e favori reciproci, tra politica locale, siciliana, e gruppi territoriali di potere, e di voto, a vario titolo e in vario modo affiliati a quella o questa cosca. Non si comprende all’esterno la natura di questo rapporto, eminentemente di gestione del potere, qualunque esso sia. Per cui, i boss devono rendere conto alla base e davanti ai mancati successi a fronte dei successi dello Stato, non possono che mercanteggiare il loro stesso potere, asserendo «ai gregari che la trattativa c’è stata, solo che purtroppo qualcuno si è rimangiato la parola, perché non tutti sono corretti come loro» (p. 60). La lotta alla mafia è così diventata, e tristemente, merce di scambio, e paradossalmente per la mafia stessa.

Però, da comunicazione interna alla logica delle cosche, la malnata idea della trattativa è passata alla vulgata mediatica, travisata e mal compresa ed atta a far credere, erroneamente, che l’intera storia recente, degli ultimi vent’anni sia stata frutto di un patto scellerato tra i boss e parti proditorie dello Stato. È, però, anche uno strumento potente per operare un (altrimenti improbabile) recupero di verginità tanto per i boss, traditi dallo Stato, quanto per la società civile, che non riesce ad aver fiducia o a riconoscersi nello Stato.

Così, nello stesso periodo non ci sono più state uccisioni eccellenti né stragi dinamitarde e ciò è stato interpretato, oltre che spacciato pubblicamente, come un raggiunto nuovo equilibrio, o compromesso, tra mafia e Stato. Ma per far ciò, si dimentica però che la mafia non è oggi affatto nel massimo dello splendore. Anzi! E questo a differenza di ulteriori realtà criminali. 


Tuttavia, una mafia disarticolata e in sofferenza, lascia un territorio «pesantemente inquinato» (p. 64). Certo l’attesa messianica del ’92 è stata sostanzialmente tradita, il ventennio della Seconda Repubblica «non ha comportato alcuna palingenesi» (p. 65), ma è avvertibile un distinto «spirito negazionista» (p. 65), interno alla stessa antimafia, e che si lega a due opposti versanti, quello istituzionale e quello di opinione. Il primo è ligio alle medesima logiche di potere e di contesa interna all’organo istituzionale, il secondo è mosso dal vento.

Per dirla altrimenti, «una parte di Italia ha quasi bisogno di convincersi che nel passaggio cruciale del ’92 – ’93 ci siano state non solo trattative tra apparati di sicurezza, gruppi politici, fazioni o esponenti mafiosi, ma ci sia stata la Trattativa tra Stato e mafia, in forza della quale il primo ha salvato la seconda» (p. 66).


Per concludere, se non può davvero dirsi che vi fu, qual è il fine realistico della medesima retorica? Forse, inverare il classico adagio siculo secondo il quale la mafia è invincibile?

(per la parte giuridica, qui il link apposito)