Se
storicamente è impresa davvero difficile poter inquadrare gli eventi e i
soggetti che si resero protagonisti ed effettori della trama complottista,
ancora più ardua risulta l’impresa se assunta a partire dallo sguardo del
giurista. Difatti, non esiste alcun reato che possa inquadrare in maniera netta
eventuali responsabilità ambiguamente chiamate in causa dalla nozione stessa di
“trattativa”.
Giovanni
Fiandaca è netto nell’esprimere questa sua opinione di carattere generale, ma
anche nel criticare l’atteggiamento complessivo della Procura palermitana nell’affidamento
completo all’art. 338 c.p., capo d’accusa del medesimo procedimento.
Il
giurista risulta molto interessato all’argomento in questione, ma individua
subito un preciso limite all’interpretazione dei giuristi a tal proposito: «per
punire un reato non basta disapprovarlo, ma occorre individuare una legge che
lo configuri espressamente come reato» (p. 71).
Detto altrimenti, precisato che i giudici cercano di fare onestamente il
loro lavoro, è comunque impresa farraginosa cercare di inquadrare gli eventi in
questione all’interno di ben precisate ipotesi di reato, anche in
considerazione della distanza temporale naturalmente intercorsa nel frattempo. V’è poi insito, e concreto, il rischio che il
magistrato travalichi in certo qual modo il suo stesso ruolo, andando a «dare
voce all’indignazione collettiva e al diffuso bisogno di risarcimento morale
provocati dagli eventi sfragistici del biennio ’92 – ‘93» (p. 71). Così,
rendendosi interpreti di un diffuso sentimento popolare, non consolato per altra
via, i magistrati che perseguono i turpi protagonisti della (presunta)
trattativa tra mafia e Stato, essi finiscono con il fondere il procedimento
inquisitivo, per sua natura intransigente, e l’umore popolare, per sua natura
abbastanza schematico e sedotto dalla retorica massimalista, passando da
funzionari, di quello stesso Stato che chiamano a processo, a tribuni del
popolo.
Secondo
Fiandaca, essendo tutti i magistrati della procura palermitana interessati al
procedimento in questione di comune affiliazione antimafia, essi, cercando
visibilità ed interpretando la propria funzione anche in chiave pedagogica,
andando nelle scuole, nelle università, nelle piazze, ad incontrare la gente e
a insegnare loro cosa sia il diritto, anche al fine di non rimanere “isolati”
all’interno dei corpi statuali, anche come effetto dell’insegnamento di
Falcone, corrono davvero il rischio di tramutarsi in meri esecutori della
volontà popolare, sovrapponendo alla conoscenza giuridica dei fatti in
questione una preventiva, e presuntiva, valutazione morale, popolare quanto
preconcetta.
Che
il rischio sia forte lo dimostra l’atteggiamento di varie componenti dell’anima
popolare dell’antimafia la quale mette in campo «una accesa e fideistica
tifoseria a sostegno dei magistrati dell’accusa» (p. 72), dimenticando che la
normale cultura giuridica contempla anche l’istituto della difesa, per non
parlare dell’intero processo penale, e che una giustizia delle emozioni è cosa
ben distante dalla stessa giustizia che, a parole, viene invocata.
La
magistratura non è solo inquirente, è anche giudicante, e per giudicare
qualcuno colpevole di qualcosa lo si deve dimostrare, oltre ogni ragionevole
dubbio. Cosa che, invece, la pubblica accusa nel caso delle trame inerenti alla
trattativa non fa. Per Fiandaca è persino «fuorviante» (p. 73)denominare
l’attuale procedimento penale in corso come «processo sulla trattativa». Piuttosto, qualificare in termini giuridici
l’insieme delle condotte messe in atto durante la trattativa in questione
richiede uno sforzo cognitivo e metodologico superiore agli umori della piazza.
Se la parola ‘trattativa’ risulta già di suo estremamente ambigua e poco chiara,
lo è ancora di più in dottrina ove trattare rimanda ad una serie di operazioni
preliminari al raggiungimento di un vero e proprio accordo. È, infatti,
significativo che la vulgata mediatica parli di processo su una trattativa,
equiparando indegno a reo, senza, però, specificare né i termini
esatti dell’accorso né specificare se un accordo seguì davvero. In questo
senso, l’azione dei magistrati configura piuttosto l’espressione di una
congettura investigativa, la quale sarebbe precursore di eventuali e successive
ipotesi di reato, che non un rigoroso onere probatorio a carico di terzi. Come
a dire che non esiste nel nostro ordinamento il reato di ‘trattativa’. Anche
perché risulta davvero difficile inquadrare le responsabilità personali dei
singoli. Mentre risulta più facile, e schematico, addossare allo Stato la colpa
di aver trattato, più difficile è stabilire chi nello Stato s’è reso
responsabile personalmente della suddetta trattativa.
Ammesso
e non concesso che qualche accenno di trattativa in quegli anni terribili vi
fu, il livello di attività statuale messo in azione non sarebbe stato, giunge a
chiedersi Fiandaca, lecito se finalizzato a un «obiettivo anti – stragistico»
(p. 82)? Peraltro, le strane vicissitudini processuali del generale Mori
mostrano una non uniformità di opinioni in seno alla procura di Palermo la
quale, da ultimo, sembra orientata a considerare più verosimile l’ipotesi che
obiettivo dei contatti informali con Ciancimino jr «non fosse di intavolare un
vero e proprio negoziato con Cosa Nostra» (p. 83), ma «far apparire l’esistenza
di un negoziato al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a
Cosa Nostra» (p. 83), e questo anche «in vista della cattura dei boss ancora
latitanti» (p. 83). Sembrerebbe, dunque, che l’operato degli organi inquirenti
sia stato piuttosto quello di fare il doppio gioco che di cedere davvero ai desiderata
di Cosa Nostra. Ma questo comportamento non integra in sé alcuna ipotesi di
reato né tantomeno prefigura un illecito a carico di singoli. Allora, com’è
possibile che venga istruito un processo penale sulla trattativa?
Per accertare l’esistenza di una reale accordo tra
mafia e Stato, sarebbe bene che i magistrati dicessero anche quale sia stato,
in tal caso, «l’insieme dei vantaggi ricevuti da Cosa Nostra» (p. 95). Infatti,
grande assente in tutte le ricostruzioni, più o meno faziose, della tematica in
questione, è l’aspetto relativo ai risultati tangibili della trattativa, ovvero
l’oggetto ignobile del negoziato, il frutto proibito della commistione di mafia
e Stato. La retorica pubblica, al riguardo, sostiene che i mafiosi ottennero un
alleggerimento del trattamento penitenziale, circostanza vera solo in alcuni
casi, ma del tutto falsa se si pone mente al generale inasprimento della
legislazione criminale, mentre lo Stato ottenne una sospensione della strategia
sfragistica. Tuttavia, Fiandaca ritiene come non sembrano «esservi ragioni
oggettivamente forti per supporre che il ricorso a una strategia di tipo
stragista fosse una condizione storicamente necessaria del passaggio dal
vecchio sistema di potere incentrato sulla Dc al nuovo regime impersonato da Berlusconi»
(p. 88). Solo nelle chiacchiere “da bar” o da quattro soldi si può cogliere
tale nesso mentre in sedi istituzionali tale ragionamento non regge, nel senso
che non si sostiene su solide ragioni.
L’intera ricostruzione inquirente «desta riserve»
(p. 97). Non basta una generica, e preconcetta, cornice storica per inquadrare
i comportamenti e individuare responsabilità così come ipotesi di reato a
carico di terzi. Peraltro, data la situazione di estremo pericolo per l’incolumità
dei cittadini, Fiandaca prospetta una situazione di extra legem in forza
della quale, ammesso e non concesso, che quadri e settori dello Stato abbiamo
cercato di dialogare con la mafia offrendo concessioni «in cambio della
cessazione delle stragi» (p. 104), l’intera strategia come tutta l’iniziativa
sarebbe legittima perché «giustificata […] dalla presenza di una situazione
necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei
cittadini» (p. 104). In questo stato di cose, appare pertanto risibile la
medesima ipotesi processuale, tanto più se si pone mente all’assenza nel nostro
ordinamento giuridico del reato di trattativa.
Tuttavia, ne emerge abbastanza chiaramente una
versione “forte” di legalità nel procedimento in corso ad opera dei magistrati
palermitani e secondo la quale essa «non può che essere ritagliata sul modello
di una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente quella
giudiziaria» (p. 109). Pertanto, qualsiasi iniziativa da parte di altri organi,
ancorché statali, deve essere stigmatizzata come «interferenza illecita o
inopportuna» (p. 109).
Il procedimento si basa sullart. 388 c.p., minaccia
ad un corpo politico. Ma Fiandaca ravvisa tutte le difficoltà di una simile
fonte dal momento che taluni soggetti avrebbero un doppio ruolo, di persecutori
di sé stessi, e come risulti davvero difficile distinguere le responsabilità di
singoli ufficiali appartenenti ad organi diversi dello Stato. Piuttosto,
ravvisa ancora, sarebbe stato più saggio procedere ex art. 289, attentato contro organi
costituzionali e contro assemblee regionali. Non basta trattare perché si
verifichi la fattispecie prevista all’art. 388, «bisognerebbe provare che
politici e ufficiali dei carabinieri avessero l’ulteriore volontà di supportare
Cose Nostra anche nella realizzazione dei singoli attacchi criminali volti a
imporre la trattativa» (p. 123).
Secondo Fiandaca, peraltro, le recenti
vicissitudini politico – magistrali, hanno avuto come effetto l’«attivarsi di
uno specifico circuito politico-mediatico-giudiziario interessato a
strumentalizzare tutta la vicenda in vista di contingenti obiettivi politici
più generali» (p. 126). Così facendo, però, la ricerca «della verità fattuale
rischia di incamminarsi per scorciatoie che assumono impropriamente il sapere
storico-sociologico […] a fonte di verità inoppugnabili, così trascurandosi che
la stessa storia e la stessa sociologia […] sono ben lungi dal fornire
conoscenze sicure e univoche» (p. 130).
Se desideriamo davvero fare chiarezza e cercare la
verità di fatti comunque verificatisi molti anni fa e sui quali si è realizzato
un proliferare di vari processi, con una loro storia ed una loro evoluzione,
Fiandaca suggerisce la via della Commissione parlamentare. Tuttavia, al di là
delle non rosee precedenti esperienza di tale strumento, «difficilmente dai
suoi lavori potrebbero emergere novità tali da sconvolgere il senso complessivo
delle considerazioni sin qui svolte» (p. 135).
(per la parte storica, qui il link al post apposito)
(per la parte storica, qui il link al post apposito)
Nessun commento:
Posta un commento
Se desideri commentare un mio post, ti prego, sii rispettoso dell'altrui pensiero e non lasciarti andare alla verve polemica per il semplice fatto che il web 2.0 rimuove la limitazione del confronto vis-a-vi, disinibendo così la facile tentazione all'insulto verace! Posso fidarmi di te?