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L’agile
pamphlet di Salvatore Lupo ha un grande merito congiunto ad un pari
grande difetto, smonta l’oppressiva retorica attuale della trattativa
ma, contemporaneamente, non fornisce alcuna informazione su quest’ultima, su
cosa sia davvero e quali ne siano le fonti.
Detto
altrimenti, Lupo si concentra esclusivamente su una considerazione storica dell’argomento
in questione, leggendolo non alla luce delle vicissitudini politiche della (mai
nata) Seconda Repubblica, come al contrario fan (quasi) tutti, ma alla luce dei
rapporti tradizionali tra mafia e Stato, così pure tra Stato
e Istituzioni (dello Stesso).
Si
comprende allora come mai poca simpatia incontri la tesi forte del presente
scritto (di quale trattativa stiamo parlando se nessuna delle richieste mafiose
è stata soddisfatta?) e come, al contrario, l’opinione pubblica senta il
bisogno, quasi inconscio, ma di certo paranoico, di perpetuare il classico adagio
secondo il quale la mafia ha vinto?
L’analisi
compiuta da Lupo, con il suo procedere schietto e affabulatorio (ricordo ancora
le sue lezioni alla SISS e i sonori mal di testa che mi provocavano) e con un
gusto indescrivibile nello sciogliere il gioco linguistico delle retoriche
pubbliche, mostra come, in netto contrasto con l’ingiustificata ed umorale
sensazione da parte dell’opinione pubblica, la mafia sia stata in genere
(almeno finora) incapace di «calcolare gli effetti» (p. 22) delle sue
iniziative, ivi comprese naturalmente anche quelle stragiste, forse perché «in
preda ad una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica:
colpire e poi colpire ancora» (p. 22). Questo già basta a sminuire l’impressione
collettiva, ed angosciosa, di una mafia che agisce (e colpisce) con saggezza
tattica, con consumata genialità militare. Così non è, così non è stato, e può
esserlo solo se all’oggettività della conoscenza fattuale sostituiamo la
soggettività, ed arbitrarietà, delle valutazioni morali. Chi fa ciò, non opera
da storico, ma rende anche un cattivo lavoro alla conoscenza generale, dal
momento che fa derivare la conoscenza storica da (pre)-valutazioni soggettive
(del corso storico). Solo dopo aver conosciuto i fatti, è possibile condurre
una loro valutazione etica. Nel caso, della lotta alla mafia, a cavallo degli
anni ’90, le cose sono andate alla rovescia, prima la valutazione etica e solo
dopo la conoscenza storica.
Lupo
se la prende molto con questo arbitrario modo di procedere, che finisce con
mistificare le cose, volutamente o colpevolmente.
Peraltro,
è indicativo, ai suoi occhi, come la paternità di gran parte della retorica
presente, inerente alla trattativa, sia da collocare non dalla parte della
mafia, come pure sarebbe lecito attendersi, ma dalla parte della stessa
antimafia, tra i vari attori delle medesima opera collettiva. Ciò suggerisce
come, al contrario di quel che comunemente si crede, l’apparente farraginosità
di suddetta lotta non vada ascritta all’esistenza di “patti scellerati” tra la
mafia e lo Stato, ma alla competizione tra organi paralleli, ed indipendenti,
del medesimo Stato. Ciò vale sia nel caso della mancata perquisizione dell’abitazione
di Riina sia nel caso di clamorosi indagini a metà. È poi emblematico come la
memoria di figure di primo piano nella lotta alla mafia si siano colorati a
seconda di questa (ideologica) lettura della storia patria. Lo stesso Mori è
assurto a simbolo negativo dei trattativisti. In realtà, a chi si presta a
leggere in bona fide le carte dei suoi interrogatori, così come delle
sue (auto-)difese, emerge un interesse ben diverso da quello a suo modo
denunciato dai sostenitori del “grande complotto” (della trattativa tra mafia e
Stato). Un corpo inquirente pensò piuttosto di lasciare «integri alcuni fili
per ricollegarvi indagini future» (p. 35). Una strategia certo atipica, per non
dire anche eterodossa, di modalità investigativa, ma molto utile, per non dire
anche saggia.
Ma
rientrava anche nella natura propria dei ROS, un corpo investigativo, inserito
all’interno dell’Arma, e, dunque, Stato come tante altre sue parti, ma con una
logica (di corpo) autonoma. Mori agiva da solo, come la sua stessa passata esperienza gli consigliava:
acquisire informazioni che potessero risultare utili. Probabilmente, con questo
obiettivo, e senza che nulla faccia pensare a comandi “dall’alto” decise di
intavolare colloqui con Ciancimino figlio. Né più né meno di quel che fanno gli
agenti segreti, cercare di dialogare con il nemico, magari bluffando su
quel che quest’ultimo potrebbe ottenere in cambio …
Ma
qui veniamo, ora, alla parte più complessa, ed interessante, della questione,
se non anche una delle principali fonti della tematica in questione. È Ciancimino
jr a rivelare l’esistenza di una (passata) trattativa tra mafia e Stato
la quale avrebbe portato all’estromissione della parte estremista di Cosa
nostra (arresto di Riina) e al successo della parte moderata (Provenzano). La
stessa sentenza del ’98, che giudicava la stagione fiorentina delle bombe del ’93,
faceva accenno a questa (presunta) trattativa. La cosa strana è che il famoso papello
non fa altro che ripresentare le rivendicazioni storiche della mafia, nulla di
nuovo, eccezion fatta per l’ultimo comma (abolizione in Sicilia delle tasse
sui carburanti) che appare più «un goffo tentativo dell’estensore di
confondere le acque sfruttando la popolarità di uno slogan» (pp. 53 – 4).
Peraltro, appare strano che Ciancimino jr. presentasse la sua parte come
moderata visto che Ciancimino sr. «non era moderato» (p. 38). Allora, queste
evidenti contraddizioni come si superano? A me pare semplice, Ciancimino non ha
alcuna attendibilità, nemmeno in qualità di fonte inconsapevole. Quel che porta
a prova della fu trattativa è solo fumo negli occhi, mera e
classicissima opera mafiosa di mistificazione della realtà, oltre che della
nostra storia recente.
Inoltre,
appare strano come la medesima retorica della trattativa non colga un aspetto
importante: se in suddetta trattativa lo Stato ha ceduto, e la mafia ha vinto,
cosa o come si sarebbe realizzata siffatta resa? Detto altrimenti, cui
prodest? Se due attori intavolano una trattativa, qualcosa si dovrebbe
reciprocamente ottenere. Ecco il problema, relativo alla verifica empirica del
teorema del “grande complotto” qui presente: cosa ha guadagnato la mafia? E,
per conversa, cosa avrebbe guadagnato lo Stato? I sostenitori, o anche solo
semplici simpatizzanti, del MoVimento della trattativa non lo dicono. Mi
chiedo: potrebbero forse dirlo? La risposta è chiara quanto netta: no. Perché
una teoria di questo genere non ha molta attinenza con la realtà. Dico: è fatta
e si sostanzia di nozioni etiche, come potrebbe riscontrarne le movenze nel
tessuto materiale degli eventi? Non può! È come nel caso dei teoremi della
geometria: si tratta di tautologie, ovvero di proposizioni sempre vere, ma che
poco o nulla hanno a che fare con la geometria fisica della natura. Ovviamente,
non intendo mica mischiare troppo le carte, ma solo precisare che ad un
articolo di fede non viene richiesta prova o dimostrazione. Ebbene, la retorica
della trattativa appare appunto un dogma che non mostra il divenire concreto
delle cose e che non necessita nemmeno di dimostrazione.
Dunque,
la trattativa vi fu, a prescindere dall’oggetto reale del contendere e degli
effetti della stessa.
Ma
torniamo adesso allo Stato, attualmente tanto in crisi di legittimazione
popolare quanto in crisi di governante. Lo Stato moderno è, sotto ogni
punto di vista, un sistema complesso, con tanti corpi interni, autonomi e
sovente in competizione tra loro. La polemica giudiziaria ne è un elemento
caratteristico e che «rischia di far risultare fuorviante l’idea della
trattativa tra lo Stato e la mafia» (p. 45). Infatti, cosa dovremmo
pensare di un organo dello Stato, la magistratura inquirente, che ne accusa un
altro, il Governo? La fortuna di Ingroia poggia su questo triste ed angosciante
conflitto tra organi in concorrenza del medesimo Stato. Conflitti già noti nel
passato storico e che «non possono essere sciolti dal plauso o dal dissenso
popolare» (p. 45). Una condizione che amaramente Lupo stesso estende all’organizzazione
antimafia Agende rosse.
E
qui s’appunta il procedimento prima ravvisato di costruzione ideologica del
passato storico per previo investimento assiologico. Infatti, «gli inquirenti
pensano i governi del ’92 – ’93 come un campo aperto per pressioni illecite,
indicando le loro decisioni come legittime se (con Scotti e Martelli)
mostrarono inflessibilità, illegittime quando (con Mancino e Conso) mostrarono
flessibilità» (p. 48), prestando il fianco alla coscienza popolare che “legge”
tali decisioni come il frutto dell’illecita trattativa di cui sopra. Ma ciò
contraddice con le evidenze storiche del caso. In realtà, ad esempio, Martelli
lasciò il Ministero solo perché travolto dal medesimo scandalo che travolse il
PSI (e con esso Craxi e il suo stesso sistema di potere). Mentre Conso agì
«nell’ambito delle sue competenze, scegliendo tra due alternative per cui
militavano buoni argomenti, facendo valere un criterio di opportunità politica»
(p. 49). E Scalfaro, in vario modo, tirato in ballo, difficilmente, per la sua
stessa storia personale, oltre che per il contegno massimo assunto durante e
dopo il settenato, è difficile «immaginarlo nella veste del
favoreggiatore (consapevole e astuto? Inconsapevole e stupido?) di Cosa Nostra.
Resta
il dubbio di fondo: cosa ci guadagnò la mafia? E, ancor più importante, cosa si
guadagnò lo Stato?
Secondo
Lupo, piuttosto, va colto il nesso ineludibile tra la retorica presente e la
storia recente, come l’azione costante del filtro della trattativa nell’interpretazione
dei fatti inerenti alla Seconda Repubblica. La scomparsa della DC, assieme al
tramonto di una sostanziale impunità per i mafiosi, avrebbe portato al riflusso
di voti verso la neonata FI, ma non come esito, o effetto, della presunta
trattativa. Al contrario, a creare lo stesso «non furono le lobby mafiose sotto
attacco» (p. 57), ma «la convinzione diffusa all’interno di Cosa Nostra» (p.
58) secondo la quale il nuovo attore politico fosse nelle loro mani, fosse cioè cosa loro, e che, di
conseguenza, avrebbe realizzato i loro desideri, gli stessi presenti nel famoso
papello. Le cose, però, non sono andate come si auguravano, come
speravano. Allora, che ne sarebbe stata della trattativa medesima?
Lupo
è netto quanto asciutto nelle sue lucide conclusioni: i due Ciancimino sono
«due ottimi rappresentanti di una lobby mafiosa che tenta di salvarsi
rinnegando la propria appartenenza, sebbene con incerto successo» (p. 59).
Quindi, manco è detto che Ciancimino trattò con lo Stato in favore della mafia
(quale? Moderata? Intransigente? Rurale? Moderna? Radicale?) e nulla garantisce
che avesse il mandato per farlo. Lo stesso problema si presenta nello
schieramento opposto: chi inviò Mori et alii? E con quale mandato?
In
realtà, la genesi del fenomeno della trattativa va vista nel tam-tam
mediatico che mal comprende la storica natura dei rapporti, e favori reciproci,
tra politica locale, siciliana, e gruppi territoriali di potere, e di voto, a
vario titolo e in vario modo affiliati a quella o questa cosca. Non si
comprende all’esterno la natura di questo rapporto, eminentemente di gestione
del potere, qualunque esso sia. Per cui, i boss devono rendere conto
alla base e davanti ai mancati successi a fronte dei successi dello Stato, non
possono che mercanteggiare il loro stesso potere, asserendo «ai gregari che la
trattativa c’è stata, solo che purtroppo qualcuno si è rimangiato la parola,
perché non tutti sono corretti come loro» (p. 60). La lotta alla mafia è così
diventata, e tristemente, merce di scambio, e paradossalmente per la
mafia stessa.
Però,
da comunicazione interna alla logica delle cosche, la malnata idea della
trattativa è passata alla vulgata mediatica, travisata e mal compresa ed
atta a far credere, erroneamente, che l’intera storia recente, degli ultimi
vent’anni sia stata frutto di un patto scellerato tra i boss e parti
proditorie dello Stato. È, però, anche uno strumento potente per operare un
(altrimenti improbabile) recupero di verginità tanto per i boss, traditi dallo
Stato, quanto per la società civile, che non riesce ad aver fiducia o a
riconoscersi nello Stato.
Così,
nello stesso periodo non ci sono più state uccisioni eccellenti né stragi
dinamitarde e ciò è stato interpretato, oltre che spacciato pubblicamente, come un raggiunto nuovo equilibrio, o
compromesso, tra mafia e Stato. Ma per far ciò, si dimentica però che la mafia
non è oggi affatto nel massimo dello splendore. Anzi! E questo a differenza di
ulteriori realtà criminali.
Tuttavia, una mafia disarticolata e in sofferenza,
lascia un territorio «pesantemente inquinato» (p. 64). Certo l’attesa
messianica del ’92 è stata sostanzialmente tradita, il ventennio della Seconda
Repubblica «non ha comportato alcuna palingenesi» (p. 65), ma è avvertibile un
distinto «spirito negazionista» (p. 65), interno alla stessa antimafia, e che
si lega a due opposti versanti, quello istituzionale e quello di opinione. Il
primo è ligio alle medesima logiche di potere e di contesa interna all’organo
istituzionale, il secondo è mosso dal vento.
Per
dirla altrimenti, «una parte di Italia ha quasi bisogno di convincersi che nel
passaggio cruciale del ’92 – ’93 ci siano state non solo trattative tra
apparati di sicurezza, gruppi politici, fazioni o esponenti mafiosi, ma ci sia
stata la Trattativa tra Stato e mafia, in forza della quale il primo ha
salvato la seconda» (p. 66).
Per
concludere, se non può davvero dirsi che vi fu, qual è il fine realistico della
medesima retorica? Forse, inverare il classico adagio siculo secondo il quale
la mafia è invincibile?
(per la parte giuridica, qui il link apposito)
(per la parte giuridica, qui il link apposito)
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