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giovedì 29 marzo 2012

Contraddizione e incoerenze

Quanto segue è l'abbozzo di un lavoro che sto sviluppando in questi giorni. E' ancora molto immaturo, ma presenta già tutte le idee che desidero articolare e discutere.


Considerazioni inattuali sulla contraddizione


(immagine tratta da: http://us.123rf.com/400wm/400/400/fleyeing/fleyeing0607/fleyeing060700001/452118-ambigua-strada-segno-su-un-bivio-in-belgio-concetto-di-confusione-e-di-contraddizione-la-scelta-e-di.jpg)

L’idea alla base del presente scritto è offrire una discussione non formale né troppo specialistica di una nozione oggi tanto criticata, quanto non rigettata, almeno in parole: la contraddizione. Dato il clima generale di discredito nei suoi confronti, le considerazioni che vi saranno offerte saranno inattuali, ma non solo per questa semplice ragione, anche perché non verranno accompagnate da riflessioni innovative al riguardo. Preferiamo che siano autori ben più quotati a parlare al nostro posto (e che solo per “gioco” non verranno in questa sede introdotti puntualmente, anche se resteranno perfettamente riconoscibili dietro le quinte) mentre, dal nostro piccolo ruolo, ci limiteremo a ripetere, e, forse, anche a balbettare, le loro parole.
Al massimo, questo sì, si potrebbe dire che le nostre umili considerazioni, benché inattuali, saranno una breve, e si spera anche fruttuosa, introduzione al tema in oggetto, alla tematica scelta. Sullo sfondo, quindi, emerge nebulosa la figura ancestrale e pericolosa, quanto temibile, della contraddizione … un limite de quo del linguaggio, del pensiero, della rappresentazione che possiamo farci della realtà. E seppur infido come nemico, è bene affrontarlo piuttosto che fuggire.
Fuor di metafora, proprio perché un limite interno alla consistenza di pensiero e linguaggio, è bene prestare la massima cura nel discuterne. Al massimo per evitare proprio contraddizioni.
Come cominciare? È molto semplice: forse dall’inizio?
Si prendano in esame le due seguenti proposizioni:

(1) Oggi piove;
(2) Oggi non piove.

Procediamo, dunque, con ordine, anche senza seguire un progetto prefissato.
Sicuramente, potremo dire che (1) e (2) sono due proposizioni (asserzioni) contraddittorie poiché l’una è il contrario dell’altra (l’una nega l’altra), e viceversa.
Allo stesso tempo, (1) e (2) sono in contraddizione se pensiamo che abbiamo il medesimo oggetto (il tempo ‘oggi’ nel medesimo luogo dell’enunciante) e vengono espresse nello stesso tempo (‘oggi’).
Ancora, (1) e (2) sono contraddittorie se ad enunciarle è il medesimo enunciante (in tal caso, se quest’ultimo crede effettivamente che siano vere entrambe, egli è anche in contraddizione epistemica).
È possibile aggiungere ancora qualche considerazione? Eccome! Se (1) e (2) sono proposizioni contraddittorie, non possono essere entrambe vere: o è vera (1), e falsa (2), oppure è falsa (1), e vera (2) (diretta applicazione del principio del terzo uomo: o è vera l’una, e falsa l’altra, o è falsa l’una, e vera l’altra; tutto secondo il brocardo: tertium non datur).
Ma le riflessioni non possono certo concludersi qui. Infatti, da un punto di vista morfologico, possiamo notare come (1) e (2) siano delle proposizioni contrarie: (1) è il contrario di (2), e viceversa; (1) è, infatti, la negazione esatta di (2), e viceversa.
Tuttavia, le limitazioni, magari in questa sede non espresse in maniera esplicita, di (a) ‘luogo’ (che (1) e (2) vengano enunciate nello stesso luogo, e non in due luoghi differenti); (b) ‘tempo’ (che (1) e (2) vengano enunciate in un lasso temporale tanto ravvicinato da rendere risibile ogni apprezzamento di differenze tra i due momenti eterogenei); e, (c) ‘locutore’ (che (1) e (2) vengano enunciate dal medesimo soggetto); per accurate e precise che siano, fanno i loro (dovuti) conti con la caratteristica ambiguità del linguaggio umano, mai uguale alla realtà che pure desidera descrivere (e rappresentare). Quest’ultimo limite può venir sciolto nella maniera seguente:

- Se due locutori diversi enunciano rispettivamente (1) e (2) pur nello stesso tempo e nello stesso luogo, non si dà più contraddizione tra le due proposizioni. Al massimo, se proprio lo si desidera, se i due locutori condividono il medesimo spazio e lo stesso tempo, allora è legittimo dire che sono in disaccordo (contraddizione) tra loro. Ma questa è una forma di contraddizione che esula dall’argomento prescelto. Invece, un locutore può davvero credere che siano entrambe vere (1) e (2).
- se un locutore enuncia (1) o (2) e dopo un periodo considerevole di tempo, purché, però, il giorno resti lo stesso, enuncia la sua negazione (2) o (1), le enunciazioni risultanti (1) e (2) sono ancora in contraddizione? A rigor, temo di dover rispondere negativamente.
- Se un locutore enuncia (1) in Italia e un altro locutore enuncia (2), poniamo caso, in Cina, anche se morfologicamente (1) e (2) sono l’una contraria dell’altra, e viceversa, non si dà contraddizione, almeno nella forma tratteggiata in questa sede.

D’altra parte, l’esame in oggetto, a partire dal quale si offrono le presenti considerazioni inattuali, sono gli unici casi cui riferirsi. Questa è la limitazione iniziale alla quale è bene attenersi. E tuttavia appare legittimo chiedersi, giunti a questo punto, se sia possibile procedere alle relative definizioni. Infatti, non avrebbe senso fermarsi a questo punto, senza procedere in un ulteriore, ma conseguente, sforzo definitorio. Per questa ragione,

(def.) NEGAZIONE: una proposizione (X) è la negazione di un’altra proposizione (Y), simile ma differente, se, e solo se, esprime, tramite negazione del contenuto in (Y), l’esatto contrario della proposizione (Y). Vale l’inversa (es. sono due proposizioni contrarie le seguenti negazioni: (i) gli asini volano; e, (ii) gli asini non volano; oppure, (i) è giorno; e, (ii) è notte; etc.).

(def.) contraddizione: una proposizione (X) è la contraddizione di un’altra proposizione (Y), simile ma differente, se, e solo se, esprime, per via di essere la relativa negazione di (Y), l’esatto opposto della proposizione (Y), a condizione che vengano enunciate nello stesso luogo e nello stesso tempo. Vale l’inverso (es. sono due proposizioni contraddittorie le seguenti proposizioni una volta che vengano enunciate entrambe: (X) il cane abbaia; e, (Y) il cane non abbaia; oppure, (X) il mare è salato; e, (Y) il mare è dolce; etc.).

Una volta definita la contraddizione, va posta un’altra questione: cosa accade quando troviamo una contraddizione in un ragionamento o nel dialogo tra due interlocutori? Si badi bene, non è una questione oziosa, ne va della razionalità stessa di noi esseri umani in quanto esseri razionali.
In genere, la fondazione, in senso razionale, di un discorso esige la presenza, o il rispetto, di una proprietà (speciale): la consistenza. Quest’ultima è l’esito dell’assenza di contraddizioni: due, o più, proposizioni teoriche possono costituire l’intero dominio di discorso (o, teoria; o, corpus; o, sistema; etc.) se, e solo se, sono compatibili tra loro (vale a dire che sono tutte consistenti, non contraddittorie tra loro). La presenza anche solo di una minima, e misera, proposizione contraddittoria rende inconsistente l’intero dominio, e non solo le due, o più proposizioni concretamente contrarie. Infatti, enunciare una proposizione contraddittoria ha il difetto di rendere inconsistente un ragionamento, una teoria, un dato tipo di discorso, e, quindi, anche di svalutare altre buone ragioni che uno stesso locutore magari possiede.
Al riguardo, tuttavia, il discorso si allarga a considerazioni epistemiche (la consistenza nelle credenze) e a considerazioni metateoriche (circa le proprietà che un sistema formale deve possedere per essere valido: consistenza; completezza; indipendenza). In fondo, infatti, a ben guardare, una teoria (o un ragionamento o un discorso complesso ed articolato) è un po’ come un sistema: (i) deve essere organico: ciascuna parte svolge una funzione specifica utile al tutto; (ii) deve essere completo: ciascuna parte è utile al tutto nella misura in cui vi sia quella veramente richiesta senza essere ridondante; (iii) deve essere consistente: ciascuna parte non è ridondante nella misura in cui svolge la sua singola funzione senza entrare in conflitto (o in contraddizione) con altre parti (o, funzioni). Alla stregua di un sistema, una teoria (o ragionamento o discorso articolato in ragioni) necessita, ai fini della sua stessa validità, di essere privo di incoerenze, privo di insufficienze o carenze e, infine, sufficiente a sé stesso (nel senso che non deve dipendere da altre per poter “funzionare”).
Quello della contraddizione (consistenza) potrebbe, a ben guardare, essere benissimo un test cui sottoporre qualsiasi teoria (o ragionamento o discorso articolato in ragioni) se si desidera valutarne la fondatezza. Ovviamente, in quest’ultimo caso, fondare qualcosa significa, in senso minimo, garantirne la razionalità in modo tale che possa venir apprezzata in maniera intersoggettiva. Purtroppo, ahinoi, troppo spesso il postmoderno ha sottratto alla filosofia questo compito, relegando la teoria (così come il ragionamento o un qualsiasi altro discorso articolato in ragioni) a mero gioco di suggestioni e “vie di fuga”, quasi che compito dell’uomo fosse più sognare, e giocare, che pensare. Ma questa è una polemica che, volutamente, lascio sottotraccia in quanto un po’ – lo riconosco – fuori tema.
A questo punto, però, è opportuno bloccare del tutto le presenti considerazioni inattuali al fine di evitare pericolose incursioni in altri ambiti, e nozioni, che, per quanto interessanti, sono estranei al perimetro prefissato inizialmente: la contraddizione quale limite interno alla consistenza di pensieri e enunciazioni.

domenica 25 marzo 2012

Recensione a Mancuso

Quella che segue è una mia recensione pubblicata originariamente su "Dialegesthai" nel 2009.


(immagine tratta da: http://ledha.it/%5Callegati%5CLED_t_libri%5C28%5CFILE_Immagine_31Zc8mJgTJL._SL500_AA240_.jpg)



Recensione a Vito Mancuso, Il dolore innocente. L'handicap, la natura e Dio

Vito Mancuso, Il dolore innocente. L'handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano 2008, € 9, 40.
Il presente testo, riedizione della versione precedentemente uscita nel 2002, prende le mosse da una triste esperienza personale ed esamina, da un punto di vista teologico, la questione dell'handicap.
Il problema che l'autore si prefigge di affrontare si delinea, sin dalle prime pagine, come ostico ed importante, soprattutto alla luce della teologia cristiana per la quale, infatti, Dio si configura come amore. Ed è in questa direzione che assume senso, e che si struttura la trama teologica del problema costituito dall'handicap: se Dio è amore, e la creazione avviene ancora sotto tale egida, com'è possibile che nascano soggetti disabili? Perché nascono così? Come può Dio tollerare questo dolore innocente? In effetti, la persona handicappata «è afflitta da un'anomalia che è un indubitabile male» (p. 9). Infatti, verso la fine dell'indagine compiuta, l'autore scriverà che «l'oggetto ultimo di questo saggio non è l'handicap ma Dio» (p. 162). Sembra, quindi, possibile affermare come l'intentio auctoris consista nell'esplorare i misteriosi sentieri della volontà divina, sia pure nell'ambito circoscritto dell'handicap.
Non si tratta, pertanto, di semplici errori di percorso, né tantomeno appare possibile liquidare in tali termini la questione. In realtà, suggerisce Mancuso, c'è qualcosa di più profondo che magari sfugge nella considerazione dei più, un qualcosa che deve, però, trovare uno spazio coerente all'interno della scienza teologica. Certo si potrebbero considerare gli sfortunati afflitti dal male non appartenenti al genere umano, ma, come prima, sembra si tratti di una banalizzazione, se non anche un evitare il problema. Invece, considerandoli delle persone, ne consegue che «la loro nascita non può non essere ricondotta direttamente a Dio creatore, esattamente nella stessa misura in cui lo sono (o non lo sono) le nascite di persone normali» (p. 13). Dio permette forse errori nella creazione? Oppure Dio vuole tali persone esattamente alla stessa maniera degli altri suo figli? Oppure Dio non può nulla per impedire che nascano? Certo la scienza, e la biologia nel caso più diretto, possono suggerire che la generazione di persone handicappate è riconducibile ad una processualità materiale ben precisa (delezioni genetiche; danni cerebrali; etc.), ma si tratta anche in questo caso di una risposta superficiale rispetto alla profondità messa in campo dalla domanda "perché nascono persone disabili?". Di contro all'importanza da essa rivestita in ambito teologico, l'autore annota un certo silenzio da parte del Magistero Cattolico, quello che, in misura maggiore rispetto ad altre confessioni, ha insistito negli ultimi anni sulla sacralità della vita umana. In realtà, l'autore sostiene essere questa una tendenza del Pontificato di Giovanni Paolo II, mentre tradizionalmente la Chiesa non ha mai visto «nella vita in quanto tale un assoluto» (p. 28). In altri termini, le recenti condanne della guerra e della pena di morte non riposerebbe su una solida base dottrinaria, ma su motivazioni contingenti che fanno venir meno «la legittima difesa che giustificherebbe la guerra e la pena di morte» (p. 28). In realtà, la vita sarebbe sacra non in sé, ma perché prodotta da Dio. Così Dio, visto come principio personale al di sopra della vita, che fonda e dà origine alla vita, ma che, proprio per questo, con la vita non coincide» (p. 29). Solo quando le azioni umane vanno contro la volontà (creatrice) di Dio si configurano come errate. Dunque, una cosa è la natura, che segue immancabilmente le sue leggi, altra cosa è lo spirito. Nelle parole di Mancuso: «lo spirituale nasce come presa di coscienza del naturale, come meditazione sul flusso naturale della vita» (p. 29). Ma la natura non è sacra, esattamente come non lo è la vita umana. Il principio di ciascuna delle religioni monoteiste consiste nel concordare sulla nozione principale di Dio: porsi «al di là della natura» (p. 29). Così, la «vita è sacra e inviolabile perché viene da Dio, perché alla sua origine c'è l'azione di Dio che la pone e ne chiede rispetto. Questa è la vera motivazione per il cristianesimo, come per le altre due religioni che conoscono un Dio personale, della sacralità della vita» (p. 31). Ma se la vita umana promana da Dio, come pensare l'handicap? Dio lo vuole? Oppure ne tollera la presenza nel mondo? Si tratta di una posizione affine al classico problema del malum mundi. Secondo la teologia, sono due le possibilità: (1) o Dio vuole direttamente la nascita di soggetti disabili; oppure, (2) ne tollera la possibilità per garantire la libertà della natura. Anche in questo caso, ci si scontra con una difficoltà teoretica: come penetrare il mistero della volontà divina? Per questo motivo, secondo Mancuso la Chiesa difficilmente parla dell'handicap in sé, preferendo concentrarsi sulle persone «che con l'handicap ci devono vivere» (p. 36), assistenti, infermieri, genitori, parenti, etc. In realtà, l'imbarazzo del magistero è spiegabile in altra maniera: «le risposte date lungo i secoli [...] sono ormai decisamente insostenibili a causa del progresso della scienza» (p. 36). Dunque, la questione va impostata in maniera radicalmente differente, correlando la questione dell'handicap «all'interno della creazione di Dio» (p. 36). Così, Mancuso individua quattro possibili risposte al riguardo: «1. Dio vuole che nascano bambini handicappati perché, mediante la loro nascita, vuole punire (o i loro genitori o gli stessi bambini a causa di colpe commesse in una vita precedente); 2. Dio vuole che nascano bambini handicappati, ma non per punire, bensì per qualcosa d'altro (insegnare, mettere alla prova, salvare); 3. Dio non vuole che nascano bambini handicappati, ma c'è una libertà della creazione che egli rispetta [...] 4. Dio non vuole che nascano bambini handicappati, ma, a livello naturale, non può assolutamente nulla» (pp. 41-2). Nel primo caso, l'autore si concentra sulla differenza tra Dio e la natura. In merito, tre appaiono essere le possibili conseguenze: (a) «la divinità non esiste» (p. 43); (b) «la divinità non si occupa della vita degli uomini» (p. 43); (c) «la divinità si occupa solo dell'anima, non del corpo» (p. 43). La conseguenza (a) è quella più radicale, secondo la quale «non esiste un Dio personale [...] Tutto è materia» (p. 43). Secondo tale prospettiva, tutto accade casualmente, secondo i due ben noti poli materiali del potenziale biologico, il caso e la necessità. La conseguenza (b) impone di considerare più in profondità la ragione nascosta del perché Dio consenta la nascita di persone handicappate. Dio lo vuole. Perché? Se, come sembra, la condizione dell'handicap non è auspicabile, è infatti un male oggettivo, per quale motivo Dio dà tale fardello solo ad alcuni, percentualmente un numero basso della popolazione umana? Le seguenti appaiono essere le finalità più probabili: (i) per punire; (ii) per insegnare; (iii) per salvare. Nell'Antico Testamento, Dio distribuisce pene fisiche al fine di punire le infedeltà del popolo israelitico e dei singoli ebrei, malattie per punire peccati. Il discorso cambia nel Nuovo Testamento, che conosce il principio della distribuzione, ma lo integra con la legge cristiana dell'amore. La finalità (ii) è quella più difficile da accettare: Dio concede che accadano dei mali alle sue creature per insegnare qualcosa a tutti gli uomini. Il portare addosso nel fisico il male, e sin dalla nascita nella maggior parte dei casi, è «un grande insegnamento sulla condizione umana in quanto tale, sul dramma che l'uomo deve affrontare, o forse meglio, che egli stesso è» (p. 71). La finalità (iii) presenta alcuni aspetti ancor più difficili da accettare, per la mentalità moderna, inerenti al significato che la condizione umana di limitazione e di malessere ha nell'indirizzare le condotte umane verso la salvezza. Da questo punto di vista, dunque, l'handicap consente all'uomo di orientarsi verso Dio. In questa accezione, infatti, esiste un «valore salvifico del dolore, soprattutto del dolore innocente» (p. 76). Dio manda così l'handicap per redimere l'umanità. L'handicap genera scandalo perché gratuito e perché arbitrario, e lo è perché si lega a doppio filo con il mistero della vita, con il misterioso progetto divino che prende le mosse dalla creazione dell'uomo; esso inerisce direttamente al rapporto teandrico. Si deve pensare «il valore in sé della sofferenza innocente per conseguire la salvezza» (p. 80), non perché chi è stato gravato dal male avrà un trattamento di favore in sede di Giudizio, ma perché, come insegna il messaggio evangelico, «Chi soffre, soprattutto se non merita di soffrire, è unito a Dio come nessun altro» (p. 80). In altre parole, «Dio sceglie queste anime per farle soffrire con il peso dell'handicap non perché siano meritevoli di punizioni, non perché siano le peggiori, ma, esattamente al contrario, perché sono le migliori, le più pure, le più vicine all'innocenza assoluta che fu del Figlio di Dio apparso sulla terra come vittima predestinata» (p. 82).
Cosa succede, invece, nell'eventualità che Dio non voglia affliggere le sue creature con il peso dell'handicap? In effetti, «Dio non può volere il male, in nessun modo» (p. 84). In questo caso, però, bisogna addentrarsi all'interno della misteriosa volontà divina. Pretesa forte nel Cristianesimo, «l'unica religione che afferma di conoscere l'intima natura di Dio» (p. 88). Ma se l'uomo non può da sé ascendere a tale conoscenza di Dio, allora l'unica strada percorribile è quella della Rivelazione. Il Testo Sacro, da questo punto di vista, è comunicazione della Parola divina agli uomini. E in cosa consiste tale parola? In qualcosa di, se si vuole, molto semplice. Infatti, «nel dichiarare che Dio in sé è amore» (p. 88). È, però, un amore del tutto particolare, che trova la sua massima espressione nella figura di Gesù di Nazaret, «incarnazione di Dio» (p. 88). Così si esprime Mancuso: «Dio è amore, anzi meglio, Dio è amore umano, un amore che è vita per l'uomo» (p. 88). In questo modo, l'«essenza di Dio, alla luce del Nuovo Testamento, è svelata» (p. 88). A questo punto, però sorge l'imbarazzo teologico: se Dio è amore ed è onnipotente, come mai pur non volendo l'handicap, quest'ultimo trova spazio nella creazione? Per l'autore, ci si deve chiedere «come è possibile continuare a pensare Dio come assoluto e onnipotente, e insieme affermare che qualcosa di tanto importante quale la costruzione di un essere umano avvenga contro il suo volere?» (p. 89). Rispetto a tale esito, le seguenti sembrano essere le possibili vie d'uscita: (y) Dio non lo vuole ma lo permette (la dottrina delle cause seconde); (yy) Dio non lo vuole, ma non può nulla sulla natura (lo gnosticismo). Nel primo caso si prendono in considerazione le cause seconde che non derivano direttamente dalla creazione divina, ma sono il risultato della libertà intrinseca ad essa derivante dal grado di perfezione dell'operato divino. In altri termini, Dio pone in essere il mondo e lo governa, ma quanto viene creato ha «una consistenza ontologica propria» (p. 92), un suo «specifico grado di libertà» (p. 92) che si concreta in un divenire autonomo. Pertanto, «l'handicap, non viene da Dio, non è voluto positivamente da lui, da lui è solo, per così dire, tollerato» (p. 98) perché «Dio sa trarre il bene anche dal male che non vuole, e tale è appunto il senso della providentia concessionis» (p. 98). È tuttavia una strada non molto feconda perché «significa in realtà non tenere conto della relazione privilegiata tra l'uomo e Dio, relazione che è probabilmente il messaggio fondamentale della Bibbia» (p. 100). Nel secondo caso si pone in essere un'incommensurabile distanza tra l'uomo e Dio, sino al punto di ritenere quest'ultimo estraneo al mondo materiale. Anche questa, però, è una strada infeconda.
A questo punto, è possibile costruire il dramma teologico. L'Incarnazione divina fa sì che si ponga in maniera lecita la questione inerente alla ragione delle nascite di persone disabili. Come scrive Mancuso: «chiedergli perché in alcuni esseri umani la struttura di fondo che permette il dialogo con lui, cioè il corpo e l'anima, sono fin dall'origine in condizioni inferiori rispetto alla normalità, è legittimo, forse persino necessario» (p. 114). Per poter pensare adeguatamente l'handicap in termini di dramma teologico è necessario porre quattro punti fermi: (1) il male esiste; (2) Dio è creatore; (3) Dio è amore; (4) la vita umana è unica ed irripetibile. In genere, il «Cristianesimo afferma che se qualcosa avviene contro l'uomo, contro il bene del singolo uomo, questo è contro la volontà di Dio, questo è male» (p. 120). Ecco, dunque, il problema: l'handicap va contro il bene del singolo uomo; è, dunque, un male. Ciò si lega al secondo punto fermo: «dietro all'idea di creazione è il sentire che la realtà contiene una dimensione che va oltre se stessa» (p. 122), Dio è artefice della realtà. Allora, il precedente problema si acuisce: «nel caso dell'handicap ci si trova di fronte a un male che tocca direttamente l'attività creatrice di Dio in quanto padre dell'uomo, e che quindi pone in crisi la relazione naturale Dio-uomo» (p. 129). La rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento, diversamente dall'enfasi che l'Antico pone sull'onnipotenza, afferma l'«essenza divina come amore» (p. 129). L'handicap è frutto dell'amore divino? Come si concilia con il male costituito dall'handicap? Il problema si fa ancora più grave se si pone mente al quarto, ed ultimo, presupposto del dramma teologico: si deve riconoscere «l'unicità di questa vita» (p. 134), a nessuno è concesso di vivere una seconda volta, potendo magari riscattare una prima vita non del tutto soddisfacente. Il risultato grave, ed interessante, è il seguente: «se la creazione è stata posta perché possa nascere la libertà, l'esistenza dell'handicap che l'impedisce non può non apparire come una lacerazione, una rottura, un fallimento, per quanto parziale, della stessa creazione» (p. 137).
A questo punto, è possibile affrontare la questione dell'handicap da un punto di vista teologico. La qual cosa, a dire il vero, non è esente da difficoltà teoretiche. Infatti, parlare della nascita di persone malformate significa affrontare uno dei più ardui problemi che l'esistenza del male pone alla ragione umana, «in particolare alla ragione teologica» (p. 137). Infatti, mentre la ragione teologica riesce a pensare al male morale riconducendolo al peccato dell'uomo e questo alla libertà, il «discorso sul male fisico, invece, prescinde dalla libertà umana» (p. 138). Di fronte all'handicap, non è in gioco la libertà umana, «rimane il problema di comprendere chi sia «il colpevole» dell'handicap, a chi attribuire questo parziale fallimento della creazione» (p. 138). Sembra così che la ragione teologica oscilli tra due alternative: o l'handicap è un fallimento, seppur parziale, della creazione, oppure ha «una sua perfezione, per quanto misteriosa» (p. 138). Sicché, l'«handicap è un male, non vi possono essere dubbi, un male non riconducibile all'uomo» (p. 139).
Esplorare il significato teologico della nascita di persone affette da handicap vuol dire mettere a fuoco l'intenzionalità divina nell'atto creativo, vuol dire illuminare l'amore che Dio mette dentro alla propria creazione. In questo modo, assume contorni definiti la vicenda handicap all'interno del più vasto progetto creativo. Ma per fare ciò bisogna interrogare le uniche fonti direttamente disponibili al riguardo, ossia i luoghi ove Dio ha rivelato la propria essenza, s'è rivelato alle proprie creature. Per il cristianesimo esso è l'Evangelo, la sede della Parola incarnata. Al riguardo scrive Mancuso: «il Figlio di Dio nella sua vita terrena ebbe direttamente a che fare con molti malati. I Vangeli sono ricolmi delle sue numerose guarigioni. Ciononostante sono pochi, e tra loro non del tutto concordanti, i brani che possono chiarire almeno un po'ciò che Gesù pensava in ordine al rapporto tra male fisico e volontà di Dio» (p. 140). In alcuni casi sembra che Gesù colleghi, sulla scia della tradizione, male fisico a condizione di peccato, mentre in altri sembra negare «esplicitamente ogni connessione tra malattia e peccato personale» (p. 141). In particolar modo, in un passo dell'evangelo di Giovanni, sotto sollecitazione dei discepoli, espressione della comune mentalità ebraica, Gesù nega il nesso malattia-peccato, così da potersi dire che la «presenza di una malattia congenita, la presenza dell'handicap, non segnala in alcun modo la presenza del peccato» (p. 142). Così, «Gesù sconfessa la tradizionale regola ebraica secondo cui non c'è castigo senza colpa» (p. 142). A ben guardare, si esclude «solo il nesso malformazione-peccato, non il fatto che Dio possa essere, in un modo non punitivo, all'origine dell'handicap» (p. 143). Bisogna, allora, illuminare in che termini Dio sia responsabile dell'handicap. Infatti, «se Dio non usa le sciagure, tra cui l'handicap, come strumento di punizione, non per questo esse avvengono senza il suo volere, tanto meno contro il suo volere» (p. 144). In che senso? Sembra chiaro che colui che nasce gravato dall'handicap «appare quindi come direttamente connesso con l'azione di Dio nella natura e nella storia» (p. 144). Secondo l'autore, infatti, l'aver a che fare con il male fisico non vuol dire che Dio manifesti il suo carattere tradizionale di dominatore assoluto, concezione ancora presente presso l'ebraismo e l'islam, ma che, al contrario, manifesti un Dio partecipe delle sofferenze umane, «il Dio che manifesta supremamente se stesso nella donazione del Figlio» (p. 145), assumendo così «su di sé il dolore e la sofferenza degli uomini» (p. 145). Dunque, almeno per il cristianesimo, Dio non appare una controparte cui chiedere conto della sofferenza innocente, ma una divinità che «quando c'è di mezzo un uomo che soffre, è dalla sua parte, perché quella sofferenza manifesta la stessa sofferenza del Padre che donò, e continuamente dona, il Figlio al mondo degli uomini» (p. 145). In questo modo, «gli handicappati emergono come l'immagine della sofferenza di Dio, della sua passione di fronte alla creazione e ai mali che la sovrastano, della sofferenza cui è sottoposto in questo mondo l'amore» (p. 145). A questo punto, però, Mancuso si chiede: «Occorre pensare che Dio volontariamente pone al mondo alcuni esseri umani in stato di particolare sofferenza fisica o psichica perché siano segni della sua opera, che è la croce?» (p. 146). Ma se così fosse, «come poter giustificare le continue guarigioni di Gesù?» (p. 146). Infatti, «la malattia non è mai vista positivamente dai Vangeli» (p. 146). Emerge, dunque, l'idea di un rapporto diretto tra Dio e l'handicap nella misura in cui lo si pensi nei termini «di un Dio che lo combatte» (p. 146). Il che, però, mette capo all'esigenza di pensare al ruolo di Dio nella creazione, quale effettivo potere abbia il Primo sulla seconda. Poiché nel quarto evangelo si pone in diretto rapporto Gesù e la creazione, si deve mettere «in luce il fondamento del nesso che lega organicamente la redenzione degli uomini alla morte di Cristo» (p. 149). La sofferenza, cioè, avrebbe un'importanza cruciale rispetto alla meta salvifica degli uomini. Comprendere le ragioni del mistero della redenzione via crucis, consente di avere chiara la «logica del mondo e della storia» (p. 149), «il Padre lega la salvezza degli uomini alla morte del Figlio» (p. 150). Perché lo fece? Probabilmente perché ab origine s'era originata la scissione tra Dio e la natura, quella inerente al peccato del primo uomo, riflesso, forse, del precedente peccato angelico, che comporta l'intromissione della «ribellione dello spirito» (p. 153), l'intromessa della «libertà» (p. 153). Quest'ultima, in qualche modo, sottrae la natura al controllo diretto di Dio. Così, «la necessità del sangue di Cristo per la redenzione degli uomini, al contrario, deve essere pensata in connessione con la caducità di cui è vittima la natura, e di cui l'handicap è uno dei segni più eloquenti» (p. 153). In altre parole, «Dio padre, così come subisce la necessità della morte del Figlio [...], allo stesso modo subisce la necessità di una natura libera, che può anche sbagliare. E che di fatto talora sbaglia nel generare i suoi figli» (p. 153). Il cristianesimo, dunque, consente di sciogliere l'enigma della generazione di persone disabili alla luce della sapienza teologica? Secondo Mancuso, la «risposta al perché Dio permette la nascita di bambini handicappati la si deve trovare in Cristo, non solo e non tanto nella sua vicenda storica, ma nel suo significato metafisico; per dire meglio, nella sua vicenda storica letta non storicamente, ma in prospettiva metafisica» (p. 155). In altri termini, l'autore sembra intuire che «l'handicappato si leghi a Cristo, non genericamente a Cristo sofferente, ma a Cristo che soffre e che muore in quanto Agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo» (p. 156). Fin dall'inizio dei tempi, «la sigla di Dio non è l'onnipotenza ma la sigla del Figlio, cioè l'amore, la forza negativa (in quanto sa rinunciare) dell'amore» (p. 158). La natura, cioè, è libera, ma necessita del sostegno divino per potersi redimere. Come scrive Mancuso: «la creazione, quindi, è la posizione della libertà, ma la libertà, a sua volta, dato che è veramente tale, è la posizione della contraddizione, di una natura cioè che genera, casualmente, sia il bene che il male» (p. 161). In più, essendo l'handicap legato alla creazione mondana, che richiede il sacrificio dell'Agnello, allora l'handicap in sé diventa «un messaggio che ogni uomo è chiamato a decifrare per tentare di comprendere qualcosa sul senso profondo di questo suo viaggio dentro la vita del mondo» (p. 161). Infatti, «la nascita di bambini handicappati ci insegna che la creazione è anche male, è ambigua. Che la contraddizione governa ogni cosa» (p. 162). Questo perché «a chi sa fissare in tutti i suoi particolari lo spettacolo, ora nobile ora osceno, del theatrum mundi, ciò che appare regnare è la libertà, mostro a due teste che può generare oppressione e delitto, e insieme commuovere per purezza e amore» (p. 167). Questa è l'intrinseca legge del mondo, la dialettica della contraddizione, declinazione della libertà ontologica. Come sostiene l'autore: «la dialettica è il sale della vita, e il sale brucia le nostre ferite aperte, i nostri desideri, le nostre speranze» (p. 169). Secondo lui, infatti, «Il cristianesimo vive del principio di contraddizione» (p. 175). Infatti, esso «ha al suo centro l'incarnazione di Dio in un uomo: Gesù Cristo è vero Dio e, insieme, vero uomo» (p. 176). Così appare chiaro come la natura sia «sottoposta alla contraddizione fin dal suo nascere» (p. 180). In altre parole, alla creazione del mondo comporta la posizione di una legge [...] la quale è contraria all'essenza di Dio che è amore. In questo senso va letta l'immagine della creazione che comporta l'uccisione dell'Agnello: la creazione comporta l'instaurazione di un mondo contrario alla logica di Dio [...] il mondo è il campo col grano e la zizzania [...] è governato dalla legge della lotta, dalla contraddizione» (p. 185). Così, «il nesso creazione-libertà-peccato rimanda, speculativamente, al nesso vita-morte-sofferenza» (p. 186). Ma a questo punto, che senso assume la dolorosa vicenda delle persone afflitte dall'handicap? Scrive Mancuso: «Cristo accetta la sofferenza non per piegarla all'incremento della propria vita, ma gratuitamente. È la sofferenza innocente, slegata cioè dal nesso vita-morte. Tutti gli innocenti che soffrono entrano in questa stessa dimensione, gli appartengono. Chi soffre di un dolore innocente entra in quella dimensione dove Cristo è entrato, va a toccare il nucleo del mistero che ci sovrasta e che ci contiene (e che ci definisce), quel legame tra vita e morte che necessariamente crea sofferenza, perché solo la sofferenza fa sì che dalla vita che diviene morte nasca altra vita» (p. 187). In altri termini, Dio ha a che fare con la nascita di persone disabili, non per placare con il loro dolore la sua ira per il peccato dell'uomo, ma «perché è lui per primo a pagare il prezzo di sangue che la nascita della libertà richiede. I bambini che nascono handicappati sono la suprema immagine dell'Agnello immolato dalla creazione del mondo» (p. 208). Ecco, dunque, che il dramma teologico dell'handicap trova qui la sua spiegazione secondo la sapienza teologica: «agli uomini, alcuni dei loro figli nascono così perché essi sono liberi; ma liberi vuol dire fragili, esposti al nulla. L'handicap è il prezzo che si paga a una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l'immolazione del Figlio ab origine mundi» (p. 209).
Qual è il ruolo di chi è scevro dal male dell'handicap? Ovviamente, il prendersi cura dei fratelli disabili. Anche perché «la cura dei portatori di handicap è una delle supreme attività, forse la suprema in assoluto, che l'amore umano conosca. Qui si manifesta la completa gratuità, a volte non c'è neppure un sorriso in cambio, perché l'interessato neppure è in grado di sorridere» (p. 209). In questo modo, mediante tale servizio, il cristianesimo si mostra celeste, come estraneo al mondo. Infatti, nella cura alle persone handicappate si fa contemplazione del mistero della creazione redenta dalla donazione gratuita di vita. In altre parole, «Qui si serve la vita, senza per questo produrre morte o sofferenza altrui. E lo si può fare perché, personalmente, "ci si perde". Proprio come Dio nel suo rapporto col mondo. Con ciò si esce dal meccanismo governato dal "principe di questo mondo", perché, semplicemente, si esce da questo mondo» (p. 209).
Vedi anche a questo libro la recensione di Massimo Bolognino.
Copyright © 2009 Alessandro Pizzo
Alessandro Pizzo. «Recensione a Vito Mancuso, Il dolore innocente. L'handicap, la natura e Dio». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 11 (2009) [inserito il 5 luglio 2009], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [27 KB], ISSN 1128-5478.

sabato 24 marzo 2012

Logica deontica come metafisica (del dover essere)

Quanto segue è un mio articolo pubblicato originariamente su "Dialegesthai" nel 2008 e tirava le file di una provocazione teoretica che seguivo in quegli anni.


(immagine tratta da: http://www.scielo.cl/fbpe/img/jtaer/v3n3/fig07-03.jpg)


Metafisica come logica deontica. Dallo studio della logica dell'essere alla logica del dover essere

La storia della filosofia trova certamente nell'opera aristotelica uno dei suoi luoghi fondamentali, in special modo nella modalità filosofica attraverso la quale l'uomo può andare alla ricerca della ratio del cosmo, ossia del principiodella realtà che lo circonda. Infatti, lo Stagirita codifica, per la prima volta in maniera esplicita e sistematica, dopo gli innumerevoli precorrimenti che affondano le proprie radici nella genesi stessa della disciplina, una modalità di ricerca dalle ricadute importanti sull'intera filosofia, che inaugura nel contempo uno dei suoi principali settori e chiamata nel corso del tempo con il nome di «metafisica».
Ciò impone la necessità di fornire, perlomeno in sede preliminare, alcune precisazioni metodologiche rispetto alle finalità del presente lavoro. Innanzitutto, non si ritiene possibile discutere, se non altro in maniera completa e soddisfacente, in questa sede cosa sia la metafisica né tantomeno fornire una sua definizione suffragata da fonti autorevoli, sebbene sia indubitabile che si parta comunque da una «certa» concezione (o, presupposizione) intorno alla metafisica. A tal proposito, infatti, basterà adottare la definizione minima di cui è possibile disporre. Grosso modo, e così la si intenderà per tutta la presente ricerca, la metafisica è «una vera e propria scienza dell'essere in quanto essere, o del possibile in quanto possibile»,1 oppure anche come «quella scienza descrittiva che mira a ricostruire questo sistema di concetti e altri affini [i concetti con i quali diamo un senso al molteplice che ci circonda]».2
Ovviamente, cercare il senso della realtà vuol dire anche poter conoscere la medesima realtà. In altri termini, la considerazione delle proprietà prime della realtà costituisce una delle principali forme conoscitive mediante le quali l'uomo investiga l'essere (to ón), ossia le modalità attraverso le quali: (1) le cose sono; e, (2) non sono; oppure, attraverso le quali, le cose sono secondo: (a) la necessità; (b) la possibilità; e, (c) la contingenza.
D'altro canto, l'analisi metafisica classica è caratterizzata dalla considerazione delle condizioni di possibilità delle cose (gli enti) attraverso l'individuazione dei principi che li fanno essere (così come non essere), ossia i principi che descrivono il poter essere delle cose. Tali principi, però, hanno una doppia funzione: (1) da un lato, consentono agli enti di sussistere, ossia individuano il campo di discorso della ratio essendi degli enti; e, (2) dall'altro lato, sono suscettibili di conoscenza, nel senso che, insieme, consentono di far conoscere le condizioni d'esistenza degli enti e si prestano alla conoscenza umana, una conoscenza disinteressata e razionale (theorein), ossia individuano il campo di discorso della ratio cognoscendi degli enti. In linea di massima, si può sostenere che la metafisica abbia proprio questa doppia natura: (a) elevare a dignità di parola la ratio essendi degli enti; e, (b) far entrare all'interno dell'universo di discorso la ratio cognoscendi della realtà. E, comunque, tanto la natura (a) quanto la natura (b) si trovano nella doppia tensione di essere volte sia nei confronti dei singoli enti sia nei confronti della realtà più generale.
Va da sé, ad ogni modo, che una conoscenza la quale ha la pretesa di attingere ai fondamenti della realtà, di per sé stessi anche i fondamenti del conoscere, si caratterizzi quale una conoscenza del fondamento, oppure anche una conoscenza della fondazione.3 Nella riflessione metafisica contemporanea, soprattutto a partire da Heidegger, questa caratteristica è stata efficacemente espressa nella misura in cui si è sostenuto che la conoscenza del fondamento è di per sé una conoscenza fondata. D'altra parte, però, non avrebbe potuto essere diversamente dato che è il fondamento stesso a fungere da doppio protagonista: tanto oggetto del processo conoscitivo quantosoggetto dello stesso. E in ciò esso corrisponde perfettamente alla delineazione della (meta-) fisica da parte di Aristotele, secondo la quale il principio del reale è contemporaneamente obiettivo cui tendere e ciò in virtù del quale è possibile il tendervi stesso. Per questo motivo la metafisica medievale ben s'acconcia con le questioni teologiche. Un esempio su tutti: l'elenchos anselmiano, grazie al quale trova dimostrazione l'esistenza di Dio proprio quale principio della corrispondenza tra exsistentia in intellectu ed exsistentia in re, poggia su questo fondamento, è in virtù della garanzia accordata dal principio, obiettivo della ricerca e condizione di possibilità della stessa. La prossimità dello stesso alla fallacia è grande. Infatti, un tale principio, specie ad una cultura secolarizzata, non può che apparire fallace in quanto presuppone in partenza quanto, al contrario, dovrebbe essere conosciuto soltanto al termine del processo di ricerca e conoscitivo. Con l'evo moderno proprio questo rischio viene istituzionalizzato nella separazione tra il principio ricercato (l'obiettivo della ricerca; un qualcosa da trovare) e il principio della ricerca(ossia, il suo metodo). Benché uno Spinoza cerchi di resistere al problema metodologico della scienza moderna, giocando tutto sulla differente prospettiva in forza della quale considerare l'unica sostanza, è la mentalità di Cartesio che, in sede filosofica, vince il confronto. Il problema ai nostri giorni, però, è diventato quello più spiccatamente epistemologico della questione relativa alle possibilità disponibili di giungere ad una conoscenza del principio stesso. Così mentre un Heidegger sostiene essere il fondamento dell'umana conoscenza indisponibile alla conoscenza medesima, seguito in ciò da Sartre, la via francofortese alla filosofia, seguendo la mediazione ermeneutica, ritiene, al contrario, possibile per la scienza giungere alla conoscenza del principio, ossia della verità. Tuttavia, questa verità è solo un pallido riflesso di quella che molti secoli prima, e in Aristotele stesso, si ricercava. Infatti, tanto Habermas quanto Apel, ma più il secondo che il primo, identificano tale verità con le condizioni di possibilità del dibattito tra attori razionali, ossia con le regole che consentono un accordo intersoggettivo tra esseri razionali all'interno di una dinamica comunicativa.4 Ma questa verità, come si vede, ha poco a che fare con la Verità, ontologicamente superiore della metafisica classica.
Scopo del presente scritto è cogliere l'analogia sussistente tra la considerazione dell'essere generale, o metafisica, e la considerazione del dover essere, o deontica. Vale a dire, analizzare il possibile rapporto sussistente tra lo studio delle condizioni di possibilità dell'essere e lo studio delle condizioni di possibilità del dover essere.
È certamente vero che al riguardo non si può prescindere dai luoghi aristotelici. Allora, seguendo in ciò una nota provocazione teoretica, appare possibile desumere da Aristotele due distinti, ma non irrelati, significati dellascienza metafisica: (1) studio dell'essere in quanto essere, del to ón hé ón;5 e, (2) ricerca del principio di tutto quel che esiste. Il primo significato identifica la metafisica come una ricerca volta a considerare la realtà, quel che esiste, nella sua assoluta generalità, ossia nella sua primarietà rispetto ad altre determinazioni secondarie, e, forse, anche specialistiche, che possono essere assunte. In questo senso, infatti, Aristotele si prefigge di considerare leproprietà prime dell'essere, e non, ad esempio, l'essere come mutamento (che è compito della fisica studiare), o l'essere come numero (che è compito della matematica studiare),6 e così via. La metafisica, dunque, studia l'essere com'è in sé, le sue proprietà prime.7 In questo senso, infatti, la metafisica è stata intesa quale «filosofia prima», ossia come quella ricerca filosofica la quale prende in considerazione l'essere nei suoi aspetti primi, secondo un ordine, di natura concettuale, in termini di principio. In questo modo, la metafisica, che parafrasando Aristotele, può essere resa con «filosofia», non solo si differenzia, ma anzi si distanzia, dalle scienze empiriche in quanto non arresta la sua indagine alla superficie fisica degli oggetti costituenti la realtà, ma, al contrario, pretende di andare oltre la dimensione fisica delle cose stesse (metá ta physiká, oltre una considerazione meramente fisica delle cose stesse), per attingere alle loro cause prime.8
Nel suo tendere, pertanto, al fondamento della realtà, la metafisica si qualifica anche quale una ricerca del principiodell'essere, ossia di quel fondamento che, stando sotto la realtà, fa sì che l'essere sia e non possa non essere, sia quello che è e non altro. In questo senso, infatti, la metafisica s'è qualificata nel tempo quale (a) regina scientiarum(dato che le altre scienze vengono considerate «seconde»); e, (b) «filosofia prima». In entrambi i casi, infatti, ciò è dipeso dal venir considerata quale la scienza della totalità dell'essere,9 come l'interrogare inizialmente e in fondo l'esperienza umana.10
In altri termini, appare, allora, possibile considerare la metafisica una ricerca del lógos, della «ragione» in forza della quale la realtà assume un ordine ben preciso, attraverso il quale diventa manifesto il senso stesso dell'essere.11
Secondo un altro orizzonte si potrebbe anche dire che la metafisica descriva un ordine del reale che pretende di aver individuato dopo aver proceduto ad un'analisi in generale, secondo la considerazione in termini di principio, della realtà. È ovvio come questa concezione nulla tolga alla versione classica di metafisica, e come enfatizzi soltanto l'aspetto comunicativo rispetto all'aspetto dell'attenzione posta sulla ricerca dei principi dell'essere.
Ad ogni modo, questa ricerca consiste, a livello metodologico, nell'elevazione a dignità di parola del principio della realtà, ossia nel trattare all'interno di un orizzonte di discorso veritativo proprio le cause prime dell'essere. Parlandone, la metafisica consente, in primo luogo, di conoscerle e, in secondo luogo, di farne teoriaconoscenza disinteressata, priva di ricadute «strumentali».12
Com'è possibile osservare, i due significati su indicati non sono tra loro in competizione, sono sì differenti ma tra loro collegati: entrambi infatti rinviano al piano ontologico, seppur nella forma della considerazione dei suoi fondamenti, o principi.13
Considerare l'essere comporta prendere in considerazione non soltanto i suoi fondamenti, ma anche le sfumature ch'esso assume, i suoi diversi livelli. Un'attenzione che, magari a differenza di quanto accaduto per lo più in passato, consente di analizzare anche enti non naturali, come le «leggi», le «istituzioni», i «contratti», che «non sono né costruzioni puramente individuali [...] né oggetti fisici come alberi e sedie, né oggetti ideali come numeri e teoremi».14 La concezione qui adottata considera la metafisica sostanzialmente quale un'ontologia, sebbene ciò non sia una considerazione pienamente accettata. Ad ogni modo, così compito della metafisica «è anzitutto fornire i principi dell'ente».15
Certamente la metafisica assume l'esperienza quale un livello elementare ed iniziale a partire dal quale giungere al principio dell'essere.
L'esperienza stessa, però, ci attesta l'esistenza di forme ontologiche differenti da quelle principalmente considerate da Aristotele e dai metafisici posteriori. Infatti, il dominio dell'essere appare comprendere anche l'insieme dellemodalità, tanto rispetto al modo in cui le proprietà appartengono agli enti quanto rispetto al modo in cui gli enti stessi si caratterizzano. Nel primo caso, vengono studiate le determinazioni necessariepossibili e contingenti (delle proprietà) delle cose; nel secondo caso, invece, vengono studiate le determinazioni necessariepossibili econtingenti delle cose stesse. Ciò vuol dire che oltre ad un piano di ricerca conoscitiva, attinente alla dimensione ontologica e al rapporto conoscitivo tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto,16 esiste un altro piano che necessita di adeguata definizione e caratterizzazione. Non v'è, per intendersi, soltanto l'essere, ma anche ildover essere. Già a livello intuitivo, si vede come quest'ultimo indirizzi la considerazione direttamente verso la sfera dell'azione, verso la pratica, per almeno due ragioni: (a) se qualcosa deve essere deve venir fatta (ossia, prodotta), poiché prima non era; (b) se qualcosa deve essere deve venir fatta da qualcuno, poiché il passaggio dallapotenza all'atto richiede l'azione di una causa efficiente che, forse, non può essere soltanto naturale, ma deve avere caratteristiche umane. A ciò è possibile aggiungere la considerazione ulteriore secondo la quale «per agire in modo veramente efficace sulla natura e sugli uomini è necessario conoscere la verità sul mondo».17
Emerge, allora, come sia certamente corretto dire con Aristotele che l'essere si dice in molti modi a patto però d'includervi anche la determinazione del dover essere, anche il cd. piano pratico il quale, rispetto a quello teorico, non si caratterizza per la relazione tra una causa ed un effetto in qualche modo naturali, ma per un nesso causale che presuppone una volontà agente la quale sia capace di produrre stati di cose. In particolar modo, è necessario osservare come tali stati di cose siano in qualche modo richiesti, siano quasi ordinati, come sia necessario produrli. In questo senso soltanto, è corretto affermare che la sfera pratica è il regno del dover essere, e non della fatticità naturale. D'altra parte, rientra nel campo pratico tutto quello che attiene alla regolazione del comportamento, in genere quello umano, per restare fedeli all'etimologia di etica da ethos.18
Tuttavia, si nota in proposito come la filosofia abbia mostrato una certa difficoltà a trattare nell'orizzonte di parola tutto quel che, attinente all'azione, esula da un tipo d'indagine non più soltanto conoscitiva. Quel che però risulta avere un'importanza maggiore in proposito è però che unica appare essere la realtà, (a) tanto che venga espressa nei termini metafisici delle condizioni di possibilità degli enti; (b) quanto che venga espressa nei termini deonticidelle condizioni di possibilità degli stati di cose.
Se unica è la realtà, allora i principi in forza dei quali è possibile spiegare l'essere valgono anche per il dover essere, sono in entrambi i casi i medesimi. Nel primo caso, infatti, si ha la metafisica, nel secondo caso la deontica.19 Negli stessi termini, infatti, se la metafisica è lo studio dell'essere in quanto essere, allora la deontica è lo studio deldover essere in quanto dover essere.
Si tratta certamente di un'affermazione forte e, sotto molti aspetti, suggestiva ma rispetto alla quale è bene condurre alcune riflessioni ulteriori.
Il presupposto dell'unità del reale conduce alla necessità di riconoscere validità ai principi della metafisica, che la logica formalizza nei termini di (1) principio d'identità; (2) principio di non contraddizione; e, (3) principio del terzo escluso20. Ciò vuol dire che la medesima realtà presenta diversi livelli i quali possono essere analizzati nei medesimi termini logici. Il che equivale a dire che fallace appare qualsiasi reductio ad unum della realtà sotto il solo spettro metafisico così come errato appare ritenere lo spettro pratico del tutto estraneo ai principi della logica.21Infatti, la realtà è una ma possiede livelli, spesso intersecantesi tra loro, di natura, apparentemente, differente. Allo stesso modo, se una è la realtà, il livello pratico gode dei medesimi principi razionali di cui gode il livello ontologico. Può apparire strano, forse sospetto, ma è innegabile che questo sia un risultato scontato se si tengono in debito conto, e si assumono in maniera seria, i presupposti della scienza metafisica. In questo modo, è comprensibile la forte provocazione di Incampo il quale qualifica la deontica in termini analoghi alla metafisica, considerando suo oggetto di tematizzazione to déon hé déon,22 il dover essere in quanto dover essere, l'essere del dover essere in quanto dover essere. In questi termini, infatti, si vede come i principi dell'essere equivalgano in linea teorica aiprincipi del dover essere.
Si potrebbe in proposito osservare come la presente sia soltanto una provocazione, e non, invece, una tesi storiograficamente supportata. Non ritenendola un'obiezione infondata, è bene condurre al riguardo qualche ulteriore riflessione. Non appare, infatti, un'analogia completamente scevra da perplessità, pur essendo quella certamente più vicina al senso che è possibile esprimere del dover essere.
In questa direzione, allora, si deve dire che mentre la metafisica studia il lógos ontologico, la deontica studia illógos normativo. Pertanto, se la metafisica è una logica dell'essere, la deontica è una logica del dover essere.23Un medesimo lógos, infatti, può essere considerato sotto lenti differenti fermo restando che i principi del pensiero, ossia i principi del pensiero razionale, sono in ogni caso i medesimi. In questo modo, tramite i principi razionali il medesimo lógos può essere considerato in termini metafisici oppure in termini deontici.
Giocando con le parole, si può anche affermare che il lógos sia bifronte, di cui, rispettivamente, la metafisica e ladeontica siano i due volti: rispettivamente (i) uno studio dell'essere in quanto essere; e, (ii) uno studio del dover essere in quanto dover essere. Lo studio del lógos così è tanto logica dell'essere, nella sua costitutiva onticità,quanto logica del dover essere, nella sua costitutiva deonticità.
Ovviamente, il senso della locuzione 'logica'adoperata attiene ad un'opzione culturale ben precisa secondo la qualevalutare i fondamenti ontologici, così come, secondo la presente prospettiva, quelli deontici, vuol dire prendere in considerazione la forma assunta dalla realtà. Tale forma non necessita di alcuna trattazione secondo linguaggi formalizzati ad hoc, che costituiscono, invece, l'insieme della logica propriamente detta. Per intenderci, la logica di Hegel non è la logica di Boole.24
D'altra parte, appare evidente anche come il medesimo linguaggio metafisico sia il frutto di un lavoro diformalizzazione della realtà e di sua codificazione adeguata.25 Dunque, è insussistente una motivazione tendente ad escludere la considerazione formale del lógos e secondo la quale soltanto una ricerca trascendentale sarebbe adatta allo scopo. Per Aristotele, infatti, logica era tanto la considerazione delle determinazioni prime dell'essere quanto la considerazione formale delle enunciazioni discorsive (a loro volta costituite da termini) .26 Pertanto, non è estranea alla metafisica la logica, non è estranea alla metafisica la formalizzazione, e non si può asserirne l'estraneità per il semplice fatto di valersi di strumenti simbolici.
Se la metafisica studia discorsivamente il lógos, la logica studia sinteticamente il lógos. A cambiare è la forma del discorso, non la sostanza.
La logica è uno studio del lógos,27 del pensiero, del linguaggio.28 La logica, in altri termini, indica le condizioni in virtù delle quali si abbiano forme corrette di ragionamento e di pensiero.29 Non estranea ad essa appare anche una caratterizzazione normativa tendente a prescrivere, non soltanto a descrivere perché conosciute, le regole per il retto pensare.30 La logica moderna, in effetti, forse per effetto del cambiamento d'orizzonte antropologico, si è caratterizzata quale uno studio delle «leggi» del pensiero,31 e il suo metodo è stato spesso matematico.32 Da questo punto di vista, a costituire l'oggetto di ricerca è la forma che il lógos assume all'interno del linguaggio umano, all'interno di forme espressive significative o dichiarative (e, conoscitive di cose) .33
Eppure, l'esperienza mostra ancora una volta come accanto alla conoscenza della realtà, attinente alla sfera teorica, vi sia un'altra dimensione inerente alla produzione di realtà, che attiene alla sfera pratica, a come si agisce secondo precisi caratteri normativi (obbligopermessodivietofacoltà)34 . Se la realtà è razionale, in quanto se ne può mostrare (discorsivamente) il fondamento (onto-logico),35 non si vede perché altrettanto non si possa fare con quella parte di realtà che è il dover essere. Infatti, come è possibile esprimere in un linguaggio formale i modi (dell'essere) della realtà (necessariopossibileimpossibilecontingente), è possibile esprimere in un linguaggio altrettanto formale i modi del dover essere (obbligatoriopermessovietatofacoltativo) .36 Così, si possono avere tre distinte, ma non irrelate, logiche: (1) la logica dell'essere (sia pure dell'essere del pensiero); (2) la logica dei modi dell'essere (la cd. logica modale) ;37 e, (3) la logica dei modi del dover essere.38 Quest'ultima prende il nome di logica deontica,39 intendendo con tale locuzione, in perfetta analogia con la nozione comune di 'logica', la disciplina che studia le condizioni di correttezza (le regole) del ragionamento normativo40 così come degli statusdeontici.41
Vasta e sovente fonte di ulteriori difficoltà è stata la sua evoluzione,42 tant'è che il suo fondatore moderno ha dichiarato nel 1983 di essersi mosso per trent'anni nel «labirinto» costituito per l'appunto dalla logica deontica.43Molte sono anche state le spiegazioni di tali difficoltà, tra le tante quelle più apprezzate sembrano essere le seguenti: (1) a far problema è la derivazione della logica deontica dalla logica modale;44 e, (2) a far problema è l'irrisolto scarto tra il formalismo del linguaggio deontico e la concretezza delle nostre intuizioni normative.45
Concludendo, appare possibile dire che esiste un rapporto preciso tra la logica e la metafisica e che può venir studiato nelle vesti della logica deontica.
Il risultato conclusivo è il seguente: la metafisica (con la logica) studia certe angolature del medesimo lógos(discorsivo) dell'essere, mentre la deontica (insieme alla sua controparte logica) di quest'ultimo considera le sfumature normative. Deve comunque esser chiaro che i principi primi nell'uno e nell'altro caso sono i medesimi.46
In altri termini, come la logica formalizza la razionalità delle espressioni metafisiche sulla realtà, così la logica deontica formalizza la razionalità delle espressioni deontiche sulla realtà. Infatti, la logica deontica può essere definita quale una logica della deontica.47
Problematico resta, ma questa è una direzione di ricerca che non compete alla presente indagine, stabilire come possa l'uomo a partire da una stessa realtà derivare livelli differenti, relati ma oggettivamente indipendenti gli uni dagli altri, i quali descrivono l'intero orizzonte antropologico dell'umanità, che si esprime nei termini di: (1)episteme; (2) azione; (3) deontica. Schematicamente:
Tre differenti, ma tra loro collegati, poli che derivano esattamente dai famosi poli del cd. triangolo semiotico: (1)pensiero; (2) sintassi; (3) semantica.48 Anche in questo caso, schematicamente:

Bibliografia ^

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Si ringraziano quanti hanno condiviso il senso e la stesura del presente scritto, in particolar modo il prof. Roccaro, stimolo potente e silente nume tutelare della presente ricerca su logica e metafisica. Ovviamente, la responsabilità di quanto affermato nel presente lavoro è soltanto dello scrivente.
Copyright © 2008 Alessandro Pizzo
Alessandro Pizzo. «Metafisica come logica deontica. Dallo studio della logica dell'essere alla logica del dover essere».Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 10 (2008) [inserito il 5 dicembre 2008], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [64 KB], ISSN 1128-5478.

Note

  1.  Cfr. A. C. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma, 2006, p. 18. <
  2.  Ibidem<
  3.  H. Albert, Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 17: «quando perseguiamo il fine della conoscenza, intendiamo evidentemente conseguire la verità circa la natura di certi nessi reali, vogliamo, cioè, procurarci delle convinzioni vere su certi ambiti, frammenti o settori della realtà. Sembra pertanto naturale che miriamo a conseguire la sicurezza che quanto è stato trovato è anche vero, e una tale sicurezza appare ottenibile solo disponendo di un fondamento per il nostro sapere, vale a dire fondando questo sapere in modo da eliminare ogni dubbio. Pare dunque che certezza e verità siano strettamente connesse per la conoscenza umana. La ricerca della verità, di concezioni, convinzioni, enunciati -- e quindi anche teorie -- veri, sembra indissolubilmente connessa con la ricerca di fondamenti certi, di una fondazione assoluta che giustifichi le nostre convinzioni, di un punto d'appoggio archimedeo cui ancorare la conoscenza». <
  4.  Cfr. A. Diemer, Metafisica, in G. Preti (ed.), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 19702, p. 342: «la tendenza a considerare l'uomo stesso l'unico possibile principio metafisico della realtà si inizia già con l'età moderna. Ma in essa tale tendenza resta ancora imprigionata in larga misura nelle dottrine tradizionali; solo il crollo completo della filosofia occidentale tradizionale nel secolo XIX ha fatto cadere il motivo della trascendenza e ha spostato sull'uomo il centro della speculazione metafisica». <
  5.  Aristotele, Metafisica, G 1, 1003 a 20-21. <
  6.  Cfr. R. Poli, Idee di scienza e livelli di realtà, Uniservice, Trento, 2007, p. 10: «matematica (studio dell'essere in quanto figura e numero) e metafisica (studio dell'essere in quanto essere)». <
  7.  Cfr. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, BUR, Milano, 2004, p. 154: «non si considera l'ente in quanto esso è determinato in questo o quel modo, ma si considera l'ente in quanto ente». <
  8.  Ivi, «mentre le discipline particolari (e tutte le forme della conoscenza umana) considerano, degli enti, il loro esser numero, corpo celeste, uomo socievole, ecc., invece la «filosofia prima» considera, del numero, del corpo celeste, dell'uomo socievole e di ogni cosa, il loro esser ente: considera cosa significhi «ente», rileva che ogni cosa è un ente e porta alla luce le proprietà che alle cose convengono non in quanto esse sono determinate in un certo modo, ma in quanto esse sono ente». Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 15: «la metafisica è la scienza che contiene i primi fondamenti dello scibile umano». Questo spiega, ad esempio, perché la metafisica non regga il confronto con le scienze empiriche. Scrive, infatti, A. C. Varzi, op. cit., p. 201: «le teorie metafisiche non si reggono sulla sperimentazione ma sull'argomentazione e sull'immaginazione, e per questo motivo gli aspetti metodologici acquistano un'importanza maggiore in metafisica che in altri settori». Questo fatto ha anche spinto i teorici del riferimento esclusivo al «dato positivo» ad escludere la metafisica dal discorso filosofico. Cfr. A. J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano, 1961, p. 9: «molte espressioni metafisiche sono dovute più a errori di logica che non al desiderio cosciente da parte di chi le produce, di oltrepassare i limiti dell'esperienza». Ciò ha condotto alla chiusura, della cultura filosofica anglosassone, all'interno del linguaggio, prima che più recentemente si operasse una riabilitazione della «filosofia prima». È caratteristico che lo strumento principale adoperato dai neopositivisti sia stata la logica, utilizzata per smascherare gli errori di ragionamento delle proposizioni metafisiche. Non si dimentichi, al riguardo, che la logica non è soltanto uno strumento analitico degli errori di ragionamento, ma anche, secondo P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. Le avventure della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano, 2004, p. 11, la logica è lo studio del logos, «del pensiero e del linguaggio». Dal presente punto di vista, la metafisica é assunta in chiave minimalista: è una modalità di ricerca filosofica sui fondamenti della realtà. <
  9.  Cfr. E. Severino, op. cit., p. 155. <
  10.  Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722, p. 13: «Perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla? Ecco la domanda. Non si tratta, presumibilmente, di una domanda qualsiasi. È chiaro che la domanda: « Perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla?» è la prima di tutte le domande. Non certo la prima per quanto riguarda l'ordine temporale». Ivi¸ p. 15 continua: «in quanto è la domanda più ampia e profonda, si presenta come la più originaria» [...] che problematizza l'essente come tale nella sua totalità». <
  11.  Cfr. M. Heidegger, op. cit., p. 21: «la filosofia mira ad enucleare i fondamenti primi ed ultimi dell'essente, di modo che l'uomo possa espressamente ricavarne un'interpretazione e determinare i fini riguardanti l'essere umano stesso». <
  12.  Cfr. E. Berti, Prologo, a: E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. vii: «[la filosofia è la] ricerca disinteressata di sapere, libera dai bisogni materiali e anche dal desiderio di agiatezza, o del piacere». <
  13.  Cfr. E. Severino, op. cit., p. 153: «[riferendosi per l'appunto alla «filosofia prima» di Aristotele] il principio unificatore del molteplice, ossia ciò che tutte le cose ed eventi hanno di identico, è il loro essere un «ente», il loro essere cioè un «qualcosa-che-è»: una determinazione [...] esistente, un essere determinato». D'altra parte lo stesso Aristotele nel definire la metafisica quale scienza dell'essere in quanto essere, aggiunge che questa scienza (epistéme) considera anche le proprietà che gli competono in quanto tale (kai ta tóuto hypárchonta kath'hautó). <
  14.  M. Ferraris, Oggetti sociali, in L. Floridi (eds.), Linee di ricerca, SWIF, 2003, p. 269. <
  15.  Cfr. A. Diemer, Ontologia, in G. Preti (ed.), Filosofia, Feltrinelli, Milano, 19702, p. 374. <
  16.  Appare evidente, come sosteneva Tommaso, che veritas supra ens fundatur. La pretesa metafisica è di carattere veritativo, ossia essa ritiene di dire cose vere (cioè, corrispondenti a come effettivamente esse stanno realmente) intorno ai principi della realtà. Per dirla à la F. Costa, Logica e verità I. Ricerche informali, Edizioni ETS, Pisa, 2005, p. 125: «il fondamento del vero è sempre l'ente». Infatti, è attraverso l'ente (copula) che vengono messi in relazione gli altri due termini del discorso (logico): oggetto (reale) e (sue) proprietà (relazioni ontiche). <
  17.  Ivi, p. 37. <
  18.  Cfr. C. Bagnoli, Etica, in L. Floridi, (ed.), Linee di ricerca, SWIF, 2003, p. 179: «Si possono individuare due ambiti distinti ma relati dell'indagine filosofica sulla morale: quello meta-etico, volto allo studio della logica del discorso morale, e quello normativo, volto all'individuazione dei canoni del ragionamento morale e dei criteri di giusto e ingiusto». <
  19.  Cfr. A. G. Conte, Deontica aristotelica, «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 1992, p. 182: «come la metafisica indaga to ón hé ón (l'essere) nella sua costitutiva onticità, così (parallelamente, e pariteticamente) la deontica indaga tò déon (il dover essere, il Sollen, l'ought) nella sua costitutiva deonticità». <
  20.  Considerandoli le asserzioni in cui consistono, secondo G. Rigamonti, Corso di logica, Boringhieri, Torino, 2005, p. 17, le «leggi del pensiero», possono essere formulati nella maniera seguente, seguendo D. Pesce -- L. Pozzi, Primi elementi di logica formale antica e moderna, Le Monnier, Firenze, 1971, p. 15: «Il principio di identità può essere formulato asserendo che "quel che è, è" o, in forma simbolica, "A è A" [...] Il principio di contraddizione fu poi così formulato da Aristotele [...]: "è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto" [...] il terzo principio logico, detto dal Baumgarten in poi, del terzo escluso [...]: "Tra i due opposti della contraddizione non c'è un termine intermedio"». In termini metalogici, tali principi, seguendo M. Dallachiara Scabini, Logica, ISEDI, Milano, 1974, pp. 118-9, possono essere scritti nella maniera che segue: (1) α→α; (2) ~(α∧~α); (3) α∨~α. Cfr. F. Berto, Logica. Da zero a Gödel, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 52-3. <
  21.  G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37: «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica. Lo studio del pensiero pratico rappresenta, tuttavia, un notevole ampliamento della tradizionale scienza della logica. Tale studio può valere anche come fondamento di un'antropologia filosofica, che corrisponda al senso profondo della caratterizzazione aristotelica dell'uomo come animale razionale». <
  22.  Cfr. A. Incampo, Identità non contraddizione. Sul fondamento della validità deontica, Giuffré, Milano, 1996, p. 25 e sgg. <
  23.  Cfr. A. G. Conte, Alle origini della deontica: Jørgen Jørgensen, Jerzy Sztykgold, Georg Henrik von Wright, in A. G. Conte, Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi 1995-2001, Giappichelli, Torino, 2001, p. 634: «io ho definito la deontica come la teoria del déon hé déon (dover essere in quanto dover essere, Sollen als Sollen). La metafisica studia to ón (l'essere, das Sein) nella sua costitutiva onticità; la deontica, parallelamente, indaga to déon(il dover essere, das Sollen) nella sua costitutiva deonticità». <
  24.  In Boole, così come nella logica moderna, oggetto di ricerca sono le relazioni tra classi di oggetti e i modi mediante i quali la mente umana contempla tali relazioni. Cfr. (a cura di Massimo Mugnai) G. Boole, L'analisi matematica della logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 95. <
  25.  Cfr. S. O. Hansson, Formalization in Philosophy, «The Bulletin of Symbolic Logic», 2, 2000, p. 163: «The construction of philosophical language also involves the creation of new distinctions and of terms that have no obvious counterparts in non-philosophical language. Hence, philosophical terminology differs from non-specialized language in two ways. First, it uses some words in different, idealized ways (e.g. 'knowledge', 'value', and 'truth'). Secondly, it uses some linguistic innovations of its own (e.g. 'consequentialism', 'modality', and 'induction'). Terms in the second category have, from the outset, the same streamline character that the first category acquires through idealization». In più, ivi, p. 170: «Formalization in philosophy is in practice virtually synonymous with formalization in logical language». <
  26.  Errata è, cioè, la prospettiva di quanti colgono uno scarto tra una logica cd. formale, propria della matematica e della ricerca filosofica sui suoi fondamenti, e una logica cd. filosofica, propria della ricerca filosofica e che affronti le strutture delle argomentazioni. <
  27.  Cfr. R. Poli, Appunti di logica, Edizioni Goliardiche, Trieste, 1999, p. 3: «Il termine 'logica' deriva come noto da 'logos'». <
  28.  Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. Le avventure della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano, 2004, p. 11. <
  29.  Cfr. F. Berto, Logica. Da zero a Gödel, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 3: «La logica è la disciplina che studia le condizioni di correttezza del ragionamento. Il suo scopo è dunque elaborare criteri e metodi, attraverso i quali si possano distinguere i ragionamenti corretti, detti anche validi, da quelli scorretti, o invalidi». Cfr. W. & M. Kneale,Storia della logica, Einaudi, Torino, 1972, p. 5: «la logica tratta i principi dell'inferenza valida». In più, cfr. G. Lolli,Introduzione alla logica formale, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 11: «La logica è [...] lo studio, o la codifica (e non sono la stessa cosa) dei ragionamenti corretti, o accettabili, o sicuri». Cfr. A. Varzi -- J. Nolt -- D. Rohatyn, Logica, McGraw Hill, Milano, 20072, p. 1: «La logica è lo studio delle argomentazioni». Scrive anche M. L. Facco,Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9: «Alle origini della logica si trova la fondamentale esigenza dell'uomo di conoscere il vero, di evitare cioè le insidie della falsità e dell'errore». <
  30.  Cfr. E. Agazzi, La logica simbolica, La Scuola, Brescia, 199015, p. 31. Per quanto concerne, invece, più precisamente il significato della logica quale studio delle condizioni di correttezza del ragionamento, v. M. Frixione, Come ragioniamo, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 9: «tra le discipline che studiano il ragionamento, la logica è la disciplina normativa per eccellenza: essa specifica a quali condizioni un ragionamento deduttivo risulta logicamente corretto». <
  31.  Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17. Anche: D. Palladino -- C. Palladino,Breve dizionario di logica, Carocci, Roma, 2005, p. 63: «[la logica] è lo studio del ragionamento deduttivo (logica deduttiva), ovvero è lo studio delle dimostrazioni e delle inferenze corrette, tali cioè che la conclusione è conseguenza logica delle premesse». <
  32.  Cfr. G. Di Bernardo, Introduzione, a: G. Di Bernardo, Introduzione alla logica dei sistemi normativi, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 7: «La logica moderna, dai tempi pioneristici di Boole e Russell, si è sviluppata principalmente assumendo come campo d'indagine la matematica, la quale, ancora oggi, conserva questa posizione centrale e preminente. Di conseguenza, si è avuto un fiorire di studi che riguardano, ad esempio, la teoria dei modelli, la teoria delle funzioni ricorsive, la teoria assiomatica degli insiemi, e altre non meno importanti. Questa tradizione di logica matematica ha, però, oscurato lo sviluppo di altri settori della logica, che sono altrettanti importanti, e che consistono, principalmente, nella logica delle modalità (aletiche, deontiche, epistemiche, esistenziali), nelle logiche polivalenti, nella logica temporale, nella logica della preferenza, e altri non meno importanti». <
  33.  Aristotele, Dell'espressione, in Aristotele, Organon, Adelphi, Milano, 2003, p. 60 (17 a 1-5): «Dichiarativi sono però non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un'enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti». <
  34.  R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), «Verifiche», 4, 1982, p. 465: «il pensiero pratico è pensiero sul mondo in relazione a specifici concetti essenzialmente pratici. Pensiamo praticamente quando emettiamo ordini e comandi e quando prendiamo decisioni. In tal modo, il pensiero pratico include il pensiero non pratico in quanto implica la conoscenza dell'ambiente e delle circostanze in cui operiamo». <
  35.  F. Costa, Logica e verità I. Ricerche informali, Edizioni ETS, Pisa, 2005, p. 36: «la verità esiste nel fatto di conoscere». Mentre, seppur all'interno di un discorso del tutto differente, aggiunge D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, p. 6: «ogni asserzione che riguardi il mondo è o vera (se le cose stanno come l'asserzione dice che stanno) o falsa (se non stanno così)». Questa è, in altri termini, una ripresa della nozione aristotelica di verità. Infatti, Aristotele, Metafisica, G 7, 1011b: «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; mentre dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è, è vero». <
  36.  A. G. Conte, Deontica aristotelica, «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 1992, p. 181: «la logica deonticaè una logica. Proprio perché essa è una logica, la sua esistenza mostra (come orgogliosamente von Wright scrive) che i confini della logica trascendono l'ambito del vero e del falso. Il dominio della logica non è circoscritto all'ambio apofantico, a quel logos apofantikos lògos apofantikòs (Aristotele, De Interpretatione 16b33-17a4: discorso dichiarativo: Giorgio Colli, discorso enunciativo: Marcello Zanatta) che della logica è l'oggetto primario». Viene qui adombrato, senza che se ne possa discutere più estesamente, la problematica del ruolo della logica deontica, un ruolo problematico in seno alla logica poiché mette capo alla considerazione di valori logici differenti da quelli classici di vero e di falso. Tuttavia, proprio in ciò consiste gran parte della sua importanza, e del suo fascino, filosofici. Come scrive G. H. von Wright, Logical Studies, Routledge and Kegan Paul, London, 1957, p. vii: «philosophically, I find this paper [Deontic Logic] very unsatisfactory. For one thing, because it treats of norms as a kind of proposition which may be true or false. This, I think, is a mistake. Deontic logic gets part of its philosophical significance from the fact that norms and valuations, trough removed from the realm of truth, yet are subject to logical law. This shows that logic so to speak, has a wider reach than truth». <
  37.  Cfr. P. Lorenzen, Normative Logic and Ethics, Bibliographisches Institut, Mannheim, 1969, p. 61: «Since Aristotle, the father of logic, there has been a tradition of using so-called «modalities» in the language of the sciences. For example, the words «necessary» and «possible» are usually used in English as modalities. It is task of modal logic to establish a reasonable use for the modalities. In the language of morals, law and politics we have the corresponding modalities «obligatory» and «permitted»». <
  38.  Cfr. S. Haack, On Logic in the Law: «Something, but not All», Ratio Juris, 1, 2007, p. 12: «Deontic logics introduce «obligatory,» «permitted,» and «forbidden» (the analogue of «impossible» in modal logic)». <
  39.  Cfr. A. Artosi, Il paradosso di Chisholm. Un'indagine sulla logica del pensiero normativo, Clueb, Bologna, 2000, p. 43 e sg.: definiamo «la logica deontica, «concepita in senso lato», come lo «studio logico dell'uso normativo del linguaggio» che ha come oggetto «una varietà di concetti normativi, in particolare quelli di obbligo (prescrizione),proibizione (divieto), permesso e impegno [commitment]. Se qualcuno ritiene che questa definizione non includa, accanto all'aspetto dell'uso normativo del linguaggio, anche l'aspetto dell'uso normativo del ragionamento, può seguire Castañeda nel definire la logica deontica come quella disciplina che «tratta della struttura del nostro ragionamento ordinario su obblighi, doveri, interdizioni, proibizioni, cose giuste e sbagliate, e libertà di agire» e alla quale è, pertanto, affidato il compito di «(i) rivelare e chiarire i criteri di ragionamento valido in tali questioni; [e] (ii) illuminare e darci una comprensione della struttura logica del linguaggio ordinario mediante il quale viviamo le nostre esperienze di obblighi, prescrizioni, cose giuste e sbagliate». Cfr. T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989 p. 3: la logica deontica è «l'insieme di sistemi formali (di calcoli) che assumono ad oggetto il comportamento logico di concetti normativi quali obbligo, divieto, permesso, facoltà, diritto, pretesa». Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992 p. 5. <
  40.  M. Martini (ed.), Dizionario di filosofia contemporanea, Cittadella, Assisi, 1979, p. 275: «la nuova logica deontica si occuperà dell'analisi e formalizzazione dei concetti e delle argomentazioni caratteristiche del discorso normativo (obbligo, proibizione di azione, ecc.) in forma simile a quella con cui la logica formale classica si occupa del discorso dichiarativo». Interessante è pure la definizione di D. Føllesdal -- R. Hilpinen, Deontic Logic: An Introduction, in R. Hilpinen (ed.), Deontic Logic: Introductory and Systematic Readings, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht-Holland, 1971, p. 1: «deontic logic can be defined as the study of those sentences in which only logical words and normative expressions occur essentially ». <
  41.  Cfr. A. G. Conte, Studio per una teoria della validità, in R. Guastini (ed.), Problemi di teoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 336, asserisce essere compito della deontica lo studio, tanto in senso prescrittivo quanto in sensodescrittivo, degli status deontici in quanto prodotti dall'interazione tra modalità (deontiche). <
  42.  R. B. Marcus, Iterated Deontic Modalities, in R. B. Marcus, Modalities, Oxford University Press, New York, 1993, p. 40: «Although deontic logic has had a considerable evolution and refinement since that time, many of the problems of interpretation remain». J. Hintikka, Deontic Logic and Its Philosophical Morals, in J. Hintikka, Models for Modalities. Selected Essays, Reidel, Dordrecht, 1969, pp. 191-2: «The literature of deontic logic offers instructive and amusing examples of such fallacies». Cfr. A. Artosi, op. cit., p. 69: «la logica deontica è una fonte insidiosa e inesauribile di paradossi». <
  43.  G. H. von Wright, Norme, verità e logica, «Informatica e diritto», 3, 1983, p. 5: «Il mio itinerario attraverso il labirinto della «logica deontica» dura ormai da più di trent'anni». <
  44.  Cfr. M. Lovatti, Implicazioni etiche dell'analisi del linguaggio da Wittgenstein ai sistemi di logica deontica, «Per la filosofia», 40, 1997, p. 84: «i sistemi di logica deontica possono essere considerati come interpretazioni semantiche di sistemi di logica modale, che a loro volta sono estensioni della logica classica». Cfr. A. N. Prior, Formal Logic, Clarendon University Press, Oxford, 1955, pp. 220-227. Similmente, cfr. R. Girle, Modal Logics and Philosophy, Acumen, 2000, p.171: «If we interpret the as «It is obligatory to bring it about that», then we have a deontic interpretation of modal logic. The is then interpreted as «It is permissible to bring it about that»». <
  45.  Cfr. G. H. von Wright, On the Logic of Norms and Action, in R. Hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 7. <
  46.  In effetti, se passasse un'idea, sulla quale ancora non è stata raggiunta una posizione completa, secondo la quale in fin dei conti della considerazione ontologica del reale, ossia di quel che esiste, è possibile una formalizzazione logica, per cui si parla in effetti di ontologia formale, allora sarebbe possibile cogliere in maniera più nitida l'analogia discussa nel presente scritto. Infatti, come scrive A. Varzi, Ontologia, SWIF Readings/Contemporanea, 2005, ISSN 1126-4780, (http://www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/ontologia_SWIF.pdf), p. 31: «l'ontologia formale si identifica con quella parte della logica che studia la teoria deduttiva della copula: la logica del verbo 'essere'». Infatti, punto di contatto tra le due indagini è la diversa considerazione della copulazione, ossia l'attribuzione di date proprietà ad enti, una considerazione ontologica nel primo caso, utilizzo classico fattone dalla metafisica, una considerazione deontica nel secondo caso, utilizzo fattone dalle deontica. <
  47.  Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992, p. 3. <
  48.  Cfr. L. Borzacchini, Il computer di Platone. Alle origini del pensiero logico e matematico, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, p. 14. <
Copyright © Dialegesthai 2008 (ISSN 1128-5478)