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sabato 29 novembre 2014

Veronesi ... e Dio



""Dopo Auschwitz, il cancro è un'altra prova che Dio non esiste". La dura presa di posizione arriva da Umberto Veronesi, che scrive così in “Il mestiere di uomo”, il suo ultimo libro pubblicato da Einaudi. Di fronte ad un bambino consumato da un tumore inguaribile, Veronesi non crede più che ci siano verità rivelate, non esistono frasi per lenire la sofferenza dei genitori"






(tratto da qui)




(url immagine: http://img5.ilmessaggero.it/MsgrNews/PANORAMA/20141117_c1_veronesi.jpg)










Argomento vecchio, si potrebbe dire e chiudere qui la faccenda.









Siccome, però, chiama in questione un pilastro fondamentale della coscienza occidentale, non lo si può liquidare in questo modo, anche se lo meriterebbe.









Bene, allora, esaminiamolo.






Primo. Il richiamo ad Auschwitz. Chiediamoci: fu una prova di cosa? Dell'inesistenza di Dio, ripetono in tanti, non tutti. Ovvio, provò storicamente il male degli uomini. Ma cosa ci dice su Dio? Nulla di nuovo rispetto a quanto non sapessimo già, e cioé che gli uomini sono liberi, anche di rifiutare Dio, pagandone il fio, ovviamente. Ma da qui a dimostrare che Dio non è ce ne corre ...






Secondo. Il cancro infantile. Male. Certo. Dolore. Certo. Sofferenza. Certo. Manifestazione radicale e violenta della vulnerabilità umana. Ovviamente. Ma dov'è il Dio chiamato in causa? Dov'è il Dio oggetto di accusa? Ecco il problema: come ad Auschwitz, così Dio non c'entra con la sofferenza, il dolore, il limite, l'ingiustizia, la violenza di questo mondo. Soffrivano i patriarchi, perché non dovremmo soffrire noi? E non faccio l'apologeta della sofferenza tout - court, dico solamente che siamo uomini proprio in quanto esseri doppiamente vulnerabili: alla limitazione fisica e alla forza altrui ...






Terzo. Cosa dice Veronesi di Dio? Nulla di diverso, forse, dagli amici a Giobbe: vedi che amico il tuo Dio? Ti lascia soffrire, nonostante la tua fedeltà ... Ma questa è una concezione del tutto mondana di Dio, solamente umana aggiungerei, la quale pretende di sottomettere la mestà divina alla logica del secolo ... anzi, magari a quest'ultima, in realtà è una logica ancora più bassa, è quella di Simon Mago: dammi i Tuoi poteri e li elargirò (a pagamento) ai miei simili. O, peggio ancora, quella dell'Avversario: adorami, e (forse) ti salverò. Se c'è il cancro, non per forza non c'è Dio. Se c'è il malum mundi, antico arcano ed enigma per l'umanità di ogni tempo, ciò non nega affatto Dio. D'altra parte, Dio non è un mago che opera miracoli a comando né tantomeno è un tappabuchi che copra qua e là le crepe nella creazione, almeno di quegli inconvenienti della bellezza del creato che crediamo pecche ...






Quarto. Veronesi, in realtà, mi par di capire, manco ce l'ha con Dio, contraddizione in termini (come si potrebbe avercela seriamente con Dio?), ma con la fede. Il punto, o lo scandalo in questione, è appunto l'affidarsi a Dio. Auschwitz, come il cancro, o la malattia, o la morte stessa, mette alla prova la fede umana in un rapporto segreto e misterioso con il Creatore ... ma la fede è debole, spesso latita, sovente si scandalizza, molto spesso si accomoda con compromessi secolari: io non ti cerco, tu mi lasci tranquillo. Un po' come Giona: solo che Dio non lo lasciò tranquillo (e come potrebbe?). E siccome anche Veronesi, molto probabilmente, non si sente lasciato in pace, ecco che "spara" veleno contro (la fede in ) Dio ...






Sesto. E come si potrebbe in qualsiasi caso lenire il pianto dei genitori? Non si può. E d'altra parte manco la fede lo fa. Al momento giusto, placata un po' l'ira, Dio torna a farsi sentire, con calma, con discrezione ... e la possibilità di corrispondere all'antico appello non viene meno per il lutto, per la sofferenza, per lo scandalo del male del mondo ...






Anzi, Dio mica viene meno perché c'è il mondo stesso.

martedì 25 novembre 2014

In ricordo ...

Non c'entra molto con la giornata contro la violenza sulle donne ...

O forse sì perché la violenza non conosce differenze di genere ...

Comunque, si tratta di un video toccante ...

E non aggiungo altro perché non vorrei essere retorico.


lunedì 24 novembre 2014

Evoluzione del sostegno o sua fine?



(url immagine: https://integrazioneinclusione.files.wordpress.com/2011/05/dscn1683.jpg)


Recentemente Dario Ianes, vero e proprio “guru” dell’educazione delle persone disabili, ha infiammato l’agone della discussione pubblica proponendo una sostanziale e radicale evoluzione dell’integrazione scolastica degli studenti disabili, pensando cioè ad una trasformazione degli insegnanti di sostegno in insegnanti curriculari e facendo passare quel che tutti i giorni noi docenti di sostego facciamo in classe nell’ordinarietà del lavoro didattico[0].


Partendo da una disamina dei risultati di trent’anni di integrazione scolastica, Ianes conclude che l’obiettivo di partenza, vale a dire l’inclusione delle persone disabili, non è stato pienamente raggiunto e la stessa integrazione scolastica è divenuta nella maggior parte dei casi uno sterile rituale non utile alla causa. Nonostante i decenni passati, nonostante l’aspirazione ideale di partenza, nonostante l’iniziale entusiasmo, nonostante le varie storie di vita, nonostante le risorse impiegate, e nonostante, forse soprattutto, l’umile ma importantissimo lavoro, umano e materiale, di tanti docenti di sostegno, i risultati raggiunti appaiono poca cosa, risibili, ben al di sotto delle aspettative[1]. Come mai? In modo particolare, si registrano delle dinamiche che, sebbene di per sé neutrali, influenzano negativamente lo stesso processo d’inclusione degli studenti disabili nella normalità della vita scolastica, meccanismi, sovente inconsci e/o involontari, i quali realizzano microesclusioni e microespulsioni della popolazione scolastica disabile dal contesto scolastico[2]


Un’analisi critica dell’integrazione scolastica in tutti i decenni che vanno dal 1977 sino ai giorni nostri, mette in rilievo una notevole discrepanza in merito ai risultati conseguiti tra efficacia e relativi costi. Dunque, l’integrazione scolastica ha fallito? Abbiamo tutti, indistintamente, pur ciascuno con le sue specifiche responsabilità, fallito? E, cosa ancora più importante, se sinora ha tradito le legittime attese, cosa dobbiamo farne? Dai dati, Ianes cerca di fornire delle risposte, cerca cioè di tentare delle interpretazioni dei dati in possesso[3]. Ianes, in modo particolare, lega la situazione del sostegno scolastico nel nostro Paese in funzione della sua certificazione medica. Pertanto, l'alunno disabile necessiterà «di un intervento altrettanto individuale, quasi medico, speciale, affidato solamente a chi può garantire queste caratteristiche di ruolo»[4]. Si prefigura, pertanto, la perniciosa figura della coppia simbiotica alunno disabile -  (suo) docente specializzato. Anzi, «il binomio indissolubile»[5]. Tutto ciò nuoce alle finalità dell’integrazione scolastica che viene vista in primo luogo come diretta emanazione da parte di un luogo terzo rispetto alla scuola, la famigerata componente medica cui sola spetta la possibilità di certificare un alunno come disabile, e, quindi, di attivare l’intero processo che porta all’individuazione del fabbisogno, in termini di ore, per le scuole ove sono iscritti gli alunni disabili; in secondo luogo, se la disabilità è un fatto privato che tocca solamente alcuni singoli individui, diviene necessario un accostamento costante da parte di un docente in possesso di un sapere tecnico altamente specializzato che se ne prenderà carico e che seguirà l’alunno lungo tutto il percorso scolastico.


Tuttavia, Ianes individua ancora un terzo luogo critico, vale a dire la collocazione in uno spazio terzo rispetto alla classe dell’alunno disabile. Infatti, siccome la disabilità è un fatto personale che richiede alta specializzazione, la sua presa in carico richiederà anche un’aula apposita ove mettere in campo interventi mirati e tecnici, altrimenti non realizzabili all’interno del gruppo-classe, un luogo diverso o speciale «per lavorare adeguatamente»[6]. V’è poi ancora un quarto aspetto strutturale negativo che consiste nell’investire a favore dell’integrazione scolastica solamente attraverso la figura dell’insegnante di sostegno, unico fondo che giunge alle scuole, «come se le uniche figure che potessero efficacemente costruire integrazione scolastica fossero esclusivamente gli insegnanti di sostegno»[7]. A mio sommesso parere, ciò deriva più dal consueto, e rassicurante per l’intera istituzione scolastica, istituto della delega dell’intero peso dell’integrazione sulle spalle del docente di sostegno. Non è più comodo? Non è più facile? Non è anche più economico? D’altro canto, se quest’ultimo ha il bisogno di fotocopiare delle schede didattiche oppure di stampare del materiale autoprodotto, è preferibile che lo faccia a casa perché a scuola manca in genere il luogo, il tempo, la possibilità. Meglio una stampata a colori che una misera in toni di grigio …


Giungiamo, infine, al quinto elemento strutturale negativo che, a detta di Ianes, comporta quella serie di risultati non soddisfacenti, ossia la natura non inclusiva della didattica curriculare. E questo, anche a mio sommesso parere, è forse l’elemento principe nelle difficoltà che il sostegno scolastico quotidianamente incontra e subisce. Infatti, la «scuola cambia, ma la didattica ordinaria rimane la stessa, se non addirittura sembra arretrare»[8]. Verissimo! Soprattutto alle superiori, i colleghi sono presi quasi dalla frenesia di allontanare dalla classe l’alunno disabile, come se avessero qualcosa da nascondere o come se avessero fretta di seguire con tranquillità il trantran di una didattica sempre uguale e somministrata erga omnes. D’altro canto, registrare in aula la presenza di un alunno disabile disturberebbe lo stanco, e rassicurante, rituale della lezione classica, frontale e non partecipata, l’amabile monologo, quasi interiore, del docente che parla a ruota libera, che fa lezione ex cathedra, e manco si sogna di verificare la comprensione/comprensibilità delle sue stesse parole. Vi immaginate una cariatide costretta a personalizzare le sue lezioni? A dover adattare la propria didattica? A dover faticare nel semplificare gli strumenti di lavoro? A dover intervenire sull’amato libro di testo? Così arriva pronta la richiesta “Porteresti X fuori quest’ora, così magari ripassa un po’ di grammatica?”. Dovremmo sempre rispondere cortesemente di no, ma non esiste una regola valida sempre, dipende dall’alunno disabile, dipende dalla classe, dipende dalla giornata …


(url immagine: http://i0.wp.com/www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2014/04/ianes.jpg)




Ianes, pertanto, interpreta la difficile condizione dell’integrazione scolastica in Italia come l’effetto combinato di «una costellazione di elementi strutturali negativi»[9] i quali producono «effetti anti-integrazione e processi lentamente degenerativi»[10].


Ed è con l’interpretazione della condizione presente e con l’individuazione dei suoi aspetti critici, che Ianes formula la sua proposta di soluzione del problema, presenta la sua idea di un’evoluzione del docente di sostegno. Se la scuola comunque evolve, perché non dovrebbe evolvere anche la specifica funzione del docente di sostegno? Anche il suo «ruolo evolve»[11].

In ogni caso, però, una cosa è la sua naturale evoluzione all’interno di quel formidabile organismo complesso, e caotico, che è la scuola, un’altra cosa la precisa direzione di sviluppo che propone lo stesso Ianes. Egli propone, infatti, di cambiarne il ruolo in due direzioni diverse, ma cooperanti: «circa l’80% di essi diventerebbero insegnanti curriculari a pieno titolo per realizzare compresenze sulle classi e il 20% specialisti itineranti (peer tutor) per dare supporto tecnico a tutti i colleghi curriculari»[12]. Fermiamoci un attimo, e riflettiamo. Prima Ianes ci dice che uno dei danni dal sostegno è la fuga da quest’ultimo verso le discipline. Un vulnus per il sostegno in primo luogo perché impoverisce il settore di competenze ed esperienze maturate sul campo e che non verranno più spese per la causa dell’integrazione scolastica. Un ragionamento entro certi limiti condivisibile, che, però, non deve abilitare a perverse idee di imprigionamento “a vita” dei docenti di sostegno in tale ruolo. Ora, però, sempre Ianes propone di trasformare tale ruolo, nella percentuale dell’80% del personale attuale, in insegnamento curriculare … come sarebbe a dire? La cosa appare perlomeno curiosa. Da “fermiamo la fuga dal sostegno” a “istituzionalizziamo la fuga dal sostegno”? Ho capito bene? Avete inteso anche voi così? Allora, qui gatta ci cova … e se a dire certe cose è un accademico, comincio pure a tremare. Quale inconfessabile progetto si cela dietro quest’apparente riconoscimento del valore del docente di sostegno?


In realtà, subito dopo aver parlato delle due percentuali suddette, Ianes passa a descrivere in maniera più estesa la natura concreta di questa evoluzione, asserendo come i docenti convertiti in curriculare non passino davvero ad insegnare una disciplina, ma restino sulle classi ove è presente un alunno disabile. Subito, allora, a mio onesto avviso, le cose diventano molto confuse e poco chiare. Infatti, Ianes parla di «un certo numero di ore di compresenza»[13] durante le quali l’ex docente di sostegno «partecipa a pieno titolo alle attività didattiche della classe»[14]. Cioè, per dirla altrimenti, l’evoluzione del docente di sostegno consisterebbe, in brutalissima sintesi, in un passaggio dalla «contitolarità» alla «compresenza» sulla classe? Sembra, dunque, che Ianes abbia in mente questo passaggio, far evolvere la contitolarità in vera e propria compresenza, vale a dire due docenti di classe sulla stessa classe durante la medesima ora di lezione! 


Se il comma 6 dell’art. 13 della L. n. 104 del 1992, conferisce al docente di sostegno lo status della contitolarità (due insegnanti sulla classe, con differenze di funzioni), adesso Ianes propone per la maggioranza di questi ultimi lo status della compresenza (due insegnanti sulla classe, senza differenze di funzioni). La confusione diventa massima quando ci si sofferma sul concreto procedere dei due docenti curriculari: chi fa cosa? E con chi? Appare evidente come l’istituto della compresenza, di per sé già foriero di parecchi rischi ed evenienze negative, non migliora di per sé l’integrazione degli alunni disabili all’interno del gruppo-classe. Infatti, agire in compresenza non comporta in automatico un miglioramento della normale prassi didattica in direzione dell’inclusione. Insomma, far scomparire ogni riferimento, diretto ed indiretto, alla situazione d’handicap in classe, migliora l’integrazione dei nostri alunni? Non è detto. Non sempre. Di certo, non in automatico. 


Eppure si vede che Ianes presti molto credito a tale idea. A chi, però, conosce bene le reali dinamiche dell’organizzazione scolastica, l’idea di una tale evoluzione appare il cavallo di Troia nei confronti dell’integrazione scolastica. Non da parte dei nemici di quest’ultima, ma da parte delle supreme ragioni della gestione interna del personale, quelle cioè che inverano il brocardo latino ubi maior, minor cessat. Cosa intendo dire? Una cosa molto semplice: cosa accadrà quando, e capiterà molto spesso durante l’anno scolastico, verrà chiesto a uno dei due docenti di sdoppiare la compresenza per coprire la tale classe rimasta scoperta? E chi potrà opporsi dal momento che ciascuno dei due docenti ha la medesima funzione? La conseguenza più misera e più probabile è quella del modello classico di lezione: frontale, orale, non partecipata, una classe e il suo (solo!) insegnante. E, in tutto questo, l’alunno disabile? Eccolo lì, isolato nel suo angolino, più solo di prima, più solo di quanto non gli capitasse prima che il docente di sostegno evolvesse verso la dimensione curriculare.



D’altro canto, una volta che sia divenuto curriculare, proprio non si capisce perché mai dovrebbe rimanere in carica sulla classe dov’è l’alunno disabile. A regime, un docente curriculare passa su un’altra classe, e, quindi, ecco che il nemico degli accademici dell’integrazione scolastica, la fuga verso le materie, diviene istituzionale. Facciamo passare l’80% dell’attuale organico del personale di sostegno sulle materie, ma lo leghiamo alla compresenza in aula. Tanto basta, a mio avviso, per scorgere la natura poco pratica della proposta di Ianes, tanta teoria, poca praticabilità, molte idee svolazzanti, mancanza di fattibilità, molto fumo, decisamente poco arrosto.



Ma c’è dell’altro. Subito dopo, Ianes aggiunge «L’obiettivo, e il dovere professionale, di realizzare un’integrazione scolastica di qualità sono di pari responsabilità per tutti i docenti, non soltanto per quelli di sostegno»[15]. Parole condivisibili, ma, e rispetto alla sua proposta di evoluzione, in che termini concreti avremmo un miglioramento deciso della didattica normale? Detto altrimenti, cosa ci dice che una volta che sia stato realizzato il travaso, o la tracimazione, a seconda dei punti di vista, dell’80% dei docenti di sostegno, tutta la didattica curriculare ne risenta positivamente? E cosa c’entra, d’altro canto, tale travaso con la compresenza che, di punto in bianco, Ianes tira fuori? In apparenza nulla. Ma il Nostro prosegue imperterrito ed enumera gli adempimenti formali per il rinnovato consiglio di classe. Tutti i docenti, infatti, tutti e nessuno escluso, «valuteranno e programmeranno insieme nel Piano Educativo Individualizzato – Progetto di vita le attività, gli adattamenti degli obiettivi e dei materiali, realizzandoli assieme a tutti gli alunni della classe»[16]. A chi ha dimestichezza con queste cose, questa precisazione, oltre ad apparire del tutto pleonastica, suona sinistra, come lo sberleffo cartaceo della L. n. 170/2010, per intenderci la legge che rende istituzionali quelle situazioni grigie, ma sempre borderline, dei DSA. In termini semplicissimi, quest’ultima prevedeva per gli alunni con DSA la stesura collegiale di un piano educativo individualizzato. Dunque, il medesimo copione, pur con contenuti differenti, di quanto avviene, o perlomeno dovrebbe avvenire, con gli alunni disabili, vale a dire la stesura collegiale di un piano educativo personalizzato. Bene, tutto qui dunque? Il successo formativo viene conseguito mediante personalizzazione? L’inclusione viene raggiunta quando si prevede la personalizzazione? Miracolosamente compiuta una volta che sia prevista “sulla carta”? D’altra parte, e il docente di sostegno lo sa, dove è scritto che il documento è redatto dal consiglio di classe, si deve leggere “dal docente di sostegno”, altrimenti nessun’altro lo stenderà. Quindi, chi stende i PEI per gli alunni con DSA? Nessuno! E chi stenderà i futuri PEI per gli alunni disabili una volta che sia scomparsa la figura del docente di sostegno? Nessuno! E, a cascata, allora chi ci garantisce che con la compresenza migliorerà la normale prassi didattica? Nessuno! E, ancora, chi si occuperà infine dei nostri alunni disabili? Nessuno! Ecco perché trovo sinistro l’accenno al precedente illustre dei DSA, per loro si prevedono strumenti facilitanti e dispense, ma niente docente di sostegno. Raggiungono, così, con le loro (deboli) forze il successo formativo? Ne dubito. Certo, a parte singoli casi, la mia impressione generale è che i consigli di classe, per quieto vivere, e per non assumersi l’onere della propria responsabilità professionale, decidano di promuovere in automatico tutti gli alunni certificati DSA, a prescindere da quel che loro (e i correlativi docenti di classe) abbiano fatto! Siccome, si propone qui una sorta di omogeneizzazione delle due fattispecie, appare facile immaginare quale sarà lo scenario più probabile allora: l’alunno disabile andrà avanti anche senza far nulla tutto il giorno e tutti i giorni dell’anno scolastico. Per tutto il resto, ci sarà un Piano Educativo Individualizzato. Già, ma portato avanti da chi? L’esistenza di un docente di sostegno, pur tra mille limiti e mille difficoltà, è ancora garanzia di uniformità di attuazione dello stesso. L’assenza di un docente di sostegno è sicura garanzia di abbandono formativo degli alunni disabili, numeri nel mare magno delle differenze individuali. E questo scenario è migliore della deprecabile situazione attuale? Penso che Ianes non avrebbe il coraggio di ammetterlo. Tant’è che, per legittimare l’improvvisa compresenza buttata nella mischia, sostiene che la presenza di due docenti rende possibile diversificare il lavoro didattico dando luogo a forme più inclusive «come l’apprendimento cooperativo, l’aiuto e l’insegnamento reciproco diretto (tutoring), la didattica laboratoriale, per progetti, per problemi reali, l’adattamento e la diversificazione dei materiali di apprendimento […] l’uso partecipativo e inclusivo delle tecnologie»[17]


Dunque, par di capire, due docenti per classe sono meglio che uno solo. E, sotto questo punto di vista, come dargli torto? D’altra parte, nella mia breve esperienza professionale ho visto anche classi di trenta – trentadue alunni e in questi casi la normale attività didattica diventa improba, oltre che, ovviamente, anche del tutto complicata. Pertanto, avere a disposizione due docenti, anziché uno solo, è, di per sé positivo. Questo, però, se ci muovessimo nella sola direzione di un miglioramento della normale didattica d’aula. Ma rispetto all’integrazione scolastica il presente discorso in merito alla compresenza non mostra automatici miglioramenti. Peraltro, l’ex docente di sostegno, ora docente a tutti gli effetti, divenendo risorsa per tutti i compagni dell’alunno disabile, in che modo migliorerà la qualità della didattica ordinaria? Insomma, mi sembra che qui si passi da reduplicazione a reduplicazione, peggiorando, però, il quadro complessivo, e facendo scontare sulle spalle dei più deboli pesi non suoi. E come mai, visto e considerato che si trattava in origine di non dividere in parti uguali fra diseguali? Rotta la coppia simbiotica alunno disabile – docente di sostegno, resta solo, avete letto bene, l’alunno disabile …



Le belle parole di Ianes nulla tolgono alle difficoltà della relazione alunno disabile – gruppo-classe e nulla migliorano della vita scolastica del primo. Anzi, se possibile, la peggiorano dato che l’ex docente di sostegno è ora conteso dai bisogni educativi di tutti gli altri. Certo, altri modelli di lezione o altri tipi di attività didattica potrebbero, a condizioni rigide e severe però, migliorare la qualità della relazione interna al gruppo-classe, magari anche coinvolgendo di più l’alunno disabile, e questa sarebbe una cosa positiva, ma, a lungo andare, mi chiedo, il nostro alunno sarebbe anche più incluso nella normale vita didattica della classe? Francamente, temo di no, sarebbe cioè non più un soggetto con special needs, ma al più uno dei tanti tra tanti … Il che, a dirla tutta, appare più una sofisticata eliminazione del problema, relativo all’integrazione scolastica di persone con certificazione di una menomazione organica all’interno dei percorsi ordinari di scolarizzazione, che una sua soluzione, ossia un deciso miglioramento della qualità dell’integrazione scolastica tout –court. Detto altrimenti, cosa verrebbe richiesto a questi ex docenti di sostegno? Di portare avanti un discorso complessivo di cooperazione didattica, con il collega curriculare e con la classe per intero, attivando risorse cooperative e lavoro di rete. Problema: quindi, par di capire, stavolta la piaga della delega non viene estirpata, ma addirittura diviene sistemica. Infatti, l’ex docente di sostegno ora non avrebbe più in delega uno (o due o tre) alunni per classe, ma l’intera classe! Infatti, caro Ianes, perché mai il collega curriculare, che non proviene dal sostegno, dovrebbe attivare nuove modalità didattiche rispetto a quelle a lui note? L’innovazione, così, ricadrebbe per intero sulle spalle dell’ex docente di sostegno, non più contitolare, ma responsabile didatticamente dell’intera classe …



Per corroborare la presente proposta di evoluzione, Ianes parla di «organico funzionale»[18], un combinato di parole sempre più sinistro in quanti lavorano a scuola ed hanno a cuore il proprio luogo di lavoro. In altri termini, gli ex docenti di sostegno, dal momento che è impensabile raddoppiare tutti gli insegnamenti, andrebbero in compresenza solo a determinate condizioni. Dunque, par di capire, non per tutte le ore del curricolo. E questo è un problema: non rende parziale e circoscritta l’esperienza innovativa e migliorativa della compresenza? E, in più, se la continuità della didattica inclusiva viene spezzata, come possiamo aspettarci un miglioramento sistemico della qualità dell’integrazione scolastica nel suo complesso? Forse, sarebbe il caso di commentare, il rimedio qui proposto è addirittura peggiore del male che voleva curare … Certo obiettivo del Nostro è sollevare dalle spalle del docente di sostegno la perversa delega relativa all'integrazione scolastica, ma eliminare tutte le differenze tra organico curriculare ed organico di sostegno non aiuta a risolvere il problema, oltre a presentare concreti rischi di peggioramento e dell’integrazione scolastica degli alunni disabili e della vita professionale dello stesso docente, prima di sostegno poi docente funzionale, sulle cui spalle, comunque, si ripresenta puntuale il rischio della delega, prima del sostegno tout – court ora dell’innovazione didattica in direzione inclusiva …



E tutto questo solo per quel che concerne la stragrande maggioranza dei docenti di sostegno, il famoso 80%, e tutti gli altri? Ovvero di che morte muoiono tutti gli altri? Il restante 20%? Ianes propone di farne «insegnanti specialisti itineranti»[19], insomma altrettanti docenti mentor come nella recente criticatissima versione governativa de La buona scuola. In concreto, questi ex docenti di sostegno non fanno parte dell’organico funzionale, non diventano compresenti, non devono attivare innovativi e virtuosi processi didatti più inclusivi, ma girano per le scuole, per le aule, per i corridoi, metteno becco nelle attività didattiche altrui e formano, informano, mediano tutti gli altri colleghi. Insomma, dei saccenti non richiesti specialisti nomadi …


Il destino di questa percentuale minima di ex docenti di sostegno, se possibile, è ancora più ambigua ed incerta dei loro colleghi, senza classe, forse anche senza scuola, costretti a girare senza però poter conoscere in maniera adeguata i contesti e le situazioni all’interno delle quali però sono chiamati ad intervenire. La classe è certamente un’organizzazione complessa, ma proprio risulta arduo comprendere in che modo le conoscenze ed esperienze qualificate in possesso di questi specialisti possano andare bene per migliorarne la vita. Ianes scrive che dovrebbe essere «un fatto normale l’apporto di diversi esperti esterni»[20]. No, in verità no, il contributo degli esperti esterni è sempre come l’apporto della pioggia leggera e poco intermittente: scivola via lungo le varie superfici senza modificarle in profondità.



In conclusione, allora, e mi assumo le responsabilità di quanto asserisco, la proposta di evoluzione del docente di sostegno, oltre ad essere del tutto campata in aria, è, a mio modesto avviso, politicamente pericolosa. È pericolosa perché nel corso dei tempi bui e tristi che viviamo potrebbe offrirsi strumentalmente ai tanti “patrioti” che invocano il calo delle tasse (in genere, le proprie) da attuare, puntualmente, attraverso il taglio delle spese (in genere, quelle di e per altri). Ora, sappiamo benissimo cosa ciò comporti per un settore “muto” come quello dell’istruzione, e per utenti, i nostri alunni disabili, che hanno ancor meno peso: meno diritti per tutti! Se è ingiusto dividere in parti uguali tra diseguali, cosa dovremmo dire del rischio di perdere del tutto il sostegno scolastico? Ianes ha ragione nel criticare le prassi del sostegno e i risultati conseguiti ben al di sotto delle legittime attese, ma siamo proprio sicuri che l’evoluzione sognata vada nella direzione di migliorare l’integrazione scolastica nel suo complesso? Personalmente, non ho motivi per pensarlo, immaginarlo e, addirittura, anche solo sperarlo. Infatti, molto spesso il sostegno si regge sulla prassi della delega al docente di sostegno, ma almeno c’è quest’ultimo che, con i suoi mille difetti e le sue mille dimenticanze, comunque, fa qualcosa, anche poco, in favore dei bisogni formativi degli alunni disabili in carico! Se, invece, eliminiamo quest’ultimo, chi si farà più carico in futuro degli alunni disabili? Penso, nessuno! Nemmeno l’ex docente di sostegno, ora docente curriculare in compresenza, spesso docente funzionale alle supplenze temporanee in altre classi della stessa scuola, talvolta docente di tutti gli altri compagni di classe degli alunni disabili …



Un bel risultato! Non c’è che dire o aggiungere! Sì, Ianes sostiene che così si attiverebbero tante risorse latenti, la cui mancata funzionalità ha penalizzato in passato il sostegno scolastico. Penso, tuttavia, che il Nostro sia affetto dalla particolare miopia degli accademici i quali ragionano per modelli astratti non rendendosi conto, non subito almeno, della varianza contestuale. Che intendo dire? Che l’evoluzione proposta da Ianes non migliora affatto il sostegno scolastico, obiettivo auspicato e vero terminale finale della proposta in questione, ma, molto più semplicemente, lo elimina in quanto tale …



Infatti, un’evoluzione del docente di sostegno verso altre nebulose forme di funzione docente cambia del tutto il contesto di riferimento. Non abbiamo più un alunno disabile da integrare attivando una rete di risorse e di pratiche. Non abbiamo più un docente specializzato che se ne fa carico in seno ad un gruppo-classe. Non abbiamo più neppure un’integrazione scolastica da mandare avanti. Nuove fattispecie si affacciano, neutre come tutte quelle mere ipotesi non ancora attualizzatesi, cariche di speranze come di timori, docenti compresenti, docenti itineranti, docenti mentor, docenti inclusivi …



Dunque, in conclusione, Ianes realizza il sogno proibito di tutti coloro i quali segretamente coltivano il sogno di una scuola più esclusiva, più segregante, più cool, ovvero di una scuola per pochi. Ciò è paradossale, ma concreto. Il Nostro, infatti, con la sua evoluzione del docente di sostegno, introduce nella scuola dell’integrazione il cavallo di Troia che ne provoca la semplice implosione! Da un giorno all’altro, scompaiono gli alunni disabili, scompaiono le differenze, scompaiono le difficoltà, le aule di sostegno, i docenti di sostegno … 


E dire che il punto di partenza era condivisibile, e cioè che «il punto centrale del discorso sull’integrazione è la didattica degli insegnanti curriculari»[21]. Da lì, però, si perviene ad una cura che oltre a non dare garanzie di successo, mina alle fondamenta il formidabile processo dell’integrazione scolastica, fa crollare in una nuvola di fumo bianca e soffice di un’esplosione controllata la via italiana all’integrazione scolastica (e sociale) delle persone disabili, compie un’eutanasia dei diritti soggettivi all’istruzione, alla formazione ed esonera le finanze pubbliche dell’onere di rimuovere le cause umane e materiali al pieno sviluppo delle persone.


(url immagine: http://s4.stliq.com/c/l/1/16/16837367_dario-ianes-la-didattica-inclusiva-nei-dislessici-0.jpg)


D’altra parte, e per congedarsi qui da Ianes, se la normale didattica può farsi carico degli alunni disabili, perché non sbarazzarci semplicemente, quanto democraticamente ed economicamente, dei docenti di sostegno? Ecco, cari colleghi, il punto di arrivo finale della strisciante spending review dell’istruzione! Ancora non ci siamo, ma presto ci arriveremo. D’altra parte, chi ha bisogno del sostegno scolastico? Chi necessita di docenti di sostegno? Non il sistema, quindi perché sprecare così le risorse? Peraltro, in tempi di crisi?





[0] Cfr. D. Ianes, L’evoluzione del docente di sostegno. Verso una didattica inclusiva, Erickson, Trento, 2014, p. 9: «L’integrazione vera, buona, è piena partecipazione alla normalità del fare scuola nel gruppo «normale» dei coetanei, in una classe «normale», in una scuola «normale», con attività «normali», cioè di tutti».
[1] Cfr. D. Ianes, L’evoluzione … op. cit., p. 33 e sgg.
[2] Ivi, p. 53 e sgg.
[3] Ivi, p. 79 e sgg.
[4] Ivi, p. 89.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 91.
[7] Ivi, p. 93.
[8] Ivi, p. 95.
[9] Ivi, p. 96.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 99.
[12] Ivi, p. 100.
[5] Ivi, p. 101.
[6] Ibidem.
[7] Supra.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, pp. 103 – 104.
[10] Ivi, p. 105.
[11] Ivi, p. 108.
[12] Ivi, p. 113.
[13] Ivi, p. 125.
[14] Ibidem.
[15] Supra.
[16] Ibidem.
[17] Ivi, pp. 103 – 104.
[18] Ivi, p. 105.
[19] Ivi, p. 108.
[20] Ivi, p. 113.
[21] Ivi, p. 125.

venerdì 21 novembre 2014

Quale l'interesse di un bimbo di una coppia di genitori dello stesso sesso?

Mio figlio mi dà da pensare ...

Su annotazione della madre, scopro che ovunque vada si porta con sé tre dinosauri, papà tirannosauro, mamma tirannosauro e piccolo tirannosauro ....



Tra i tanti a sua disposizione, preferisce sempre i tre che prefigurano una famiglia al completo: mamma; papà e figlio! Tutti gli altri, infatti, non costituiscono una famiglia completa. L'identificazione della sua condizione filiale è scopertamente presente nel modello di oggettualizzazione ...


Bene, una normale proiezione oggettuale di una condizione esistenziale ben precisa, si direbbe.

Ma nei nostri tempi così incerti, confusi e ipocriti, si sostiene sempre più che non ci sarebbe nulla di male, anzi in molti casi sarebbe addirittura auspicabile, che coppie dello stesso sesso possano adottare dei figli. Allora, immagino la situazione possibile e mi chiedo: "quale proiezione oggettuale compirebbe un figlio di una coppia di genitori dello stesso sesso?". Due dinosauri mamma? Due dinosauri papà?

Poco male, risponderebbero i paladini delle pari opportunità, basta adattare opportunatamente i modellini e il problema è risolto. Ma questo è solo make up familiare nel senso che, ipocritamente, risolviamo il problema adattando la sua rappresentazione ...

Detto altrimenti, dotare il piccolo dinosauro di cui sopra di due genitori dello stesso sesso, risolve il problema dell'identificazione? E, conseguentemente, della costruzione della propria identità personale? Purtroppo non credo ...

Credo, piuttosto, che l'adattamento vada visto "alla rovescia". Infatti, non è la raffigurazione oggettuale che viene adattata alla (nuova) realtà genitoriale, ma è lo stesso modello familiare che si desidera adattare (verso nuove ed inedite configurazioni)! In altri termini, dotare il piccolo dinosauro di due genitori dello stesso sesso significa equiparare il modello familiare eterosessuale a nuove ed inedite configurazioni, con la, neanche tanto segreta, speranza che ciò basti a risolvere i tanti problemi che, invece, rimangono insoluti sullo sfondo.

Già, quali problemi? In breve:

1) una coppia eterosessuale genera, una coppia omosessuale non genera;
2) la prole di una coppia eterosessuale è generata, la prole di una coppia omosessuale è adottata;
3) la prole di una coppia eterosessuale è voluto in sé, la prole di una coppia omosessuale è voluto come mezzo di affermazione (sociale) di una parificazione;
4) una coppia eterosessuale ricerca l'interesse della propria prole, una coppia omosessuale non ricerca l'interesse della propria (?) prole.

Quindi, riassumendo, quel che preme alle coppie omosessuali non è tanto la procreazione in sé quanto piuttosto la procreazione quale strumento per l'affermazione narcisistica di una propria uguaglianza, in quanto "coppia", con l'analoga coppia eterosessuale. Ma, stanti i problemi taciuti (1) - (4), tale equiparazione è solamente una forzatura ideologica, poco naturale, e che suona uno scherzo, come offrire a mio figlio la raffigurazione di una famiglia omosessuale di dinosauri: due genitori dello stesso sesso e un figlio capitato là in mezzo non si sa bene come! 


Peraltro, il perseguire a tutti i costi un mezzo per superare il limite biologico alla procreazione configura una concreta ipotesi di privazione deliberata alla possibilità di conoscere la propria origine biologica come asse portante della propria identità personale. Tornando a mio figlio. Guardando i dinosauri, collega il piccolo di tirannosauro alla mamma dinosauro ("era dentro la pancia di ..."), inserendolo all'interno di una rete di relazioni parentali (la mamma - il papà - il piccolo - la "pancia" - l'uovo). Dunque, qual è l'interesse di un bimbo di una coppia di genitori dello stesso sesso? Soddisfare l'ego dei propri genitori oppure costruire un proprio "io"? E può costruirlo se, come nel caso presente, è sottratto alla base dalla conoscenza della propria origine biologica? Su quale asse portante potrebbe, di conseguenza, costruirlo?


mercoledì 19 novembre 2014

Integrazione scolastica




L'integrazione scolastica "deve creare un ambito dove ogni alunno si senta accettato, dove tutti siano uguali perché tutti diversi: un ambito in cui ciascun alunno dà sostegno e ne riceve dai suoi compagni e dagli altri membri della comunità scolastica".



(V. Piazza, L’insegnante di sostegno. Motivazioni e competenze per il lavoro di rete, Erickson, Trento, 1996, p. 61)



Così dovrebbe essere, così molto spesso, purtroppo, non è nelle normali prassi didattiche.

lunedì 17 novembre 2014

Sostegno scolastico ... riflessioni aperte

(prima riflessione sul testo di Ianes, cui seguiranno tante altre man mano che la mia valutazione andrà avanti)


"se in un sistema scolastico esiste la struttura per cui avere un diploma di specializzazione sul sostegno avvantaggia nell’ottenere un posto di lavoro più stabile, è più probabile che molte persone scelgano di conseguirlo per motivazioni utilitaristiche e, appena possono, abbandonino il lavoro sul sostegno"


(D. Ianes, L’evoluzione del docente di sostegno. Verso una didattica inclusiva, Erickson, Trento, 2014, p. 85)


Pur condividendo, in un'ottica di sostegno scolastico, la prospettiva di Ianes, mi sento in obbligo, nel commentare il passo in questione, di criticare alcuni punti discutibili e, molto probabilmente, anche non condivisibili, almeno da parte chi fa il lavoro "sporco", ovvero per tutti coloro i quali fanno integrazione scolastica nel misero e meschino quotidiano:

1) è il sistema nel suo complesso, tramite spending review, dimensionamento "selvaggio", quota96, preacarizzazione dei contratti di lavoro, eccessiva molla elastica nella mobilità territoriale, riduzione del quadro orario, riconversioni sul sostegno degli esuberi; etc. a spingere in molti a spendere molto denaro per acquisire il diploma sul sostegno;
2) una scelta "verso" il sostegno scolastico, e non "per" il sostegno scolastico in quanto tale, sebbene di marca prettamente utilitaristica e non frutto di vocazione, è sempre deprecabile? A mio onesto modo di vedere, assolutamente no, Lo diventa, però, nella misura in cui viene vissuto male, senza professionalità e senza farlo al meglio delle proprie potenzialità;
3) trovo irritante questa retorica "buonista" del tutto ipocrita in forza della quale è lecito stigmatizzare gli scarsi risultati conseguiti da chi lavora all'integrazione scolastica, sostenendo che è tutta colpa della motivazione degli operatori coinvolti e/o del loro fare "sostegno" per scelta utilitaria e non per "vocazione";
4) davvero, trovo ridicolo legare la professione relativa all'integrazione scolastica ad una mission personale, dimenticando che, comunque, si tratta pur sempre di lavoro, di esercitare un mestiere, pur con l'unico vincolo di farlo al meglio;
5) penso che siano da rigettare i giudizi frettolosi e superficiali di chi valuta l'integrazione scolastica dalla torre d'avorio dell'accademia ... per carità, Dario Ianes è un faro al riguardo, ma sarebbe bene che, lui come tanti altri, facesse un bagno d'umiltà assaporando per un anno (almeno), ma volendo anche per cinque, dieci, venti anni, le molli dolcezze del sostegno scolastico, se s'immergesse, alle nostre stesse condizioni, nelle comuni prassi quotidiane dell'integrazione scolastica! Altrimenti, è troppo semplice, per me che non sono un accademico, dire che il lavoro degli accademici è insoddisfacente rispetto a risorse impiegate e risultati conseguiti ...;
6) a ciascuno il suo, ai docenti di sostegno l'integrazione scolastica, agli psicologi dell'educazione le dinamiche inerenti all'apprendimento in soggetti in età evolutiva;
7) peraltro, trovo anche insopportabile il piglio moralistico che si esprime nel biasimo per quanti, appena possono, abbandonano il sostegno ... in parte ciò è dovuto all'italico adagio per cui chi non è parte in causa, può giudicare gli altri, che invece lo sono, e in parte perché v'è del perverso sadismo nell'infliggere il sostegno "per legge" per almeno cinque anni dall'assunzione in ruolo (che si sommano ai tanti altri anni svolti "da precario") e nel sognare un'impossibilità de facto, non anche de jure perché palesemente ingiusto, di fuga dal sostegno ... e chi conta l'usura umana delle fatiche quotidiane sul sostegno? E chi tiene conto del consumo intellettuale di chi ogni giorno si fa carico dell'integrazione scolastica? E chi tiene in considerazione anche i concreti rischi biologici e/o di salute, fisica e psichica, di chi giorno dopo giorno lavora nel sostegno? Caso strano, sembra quasi che lavorare nel sostegno sia dolce e conveniente, dimenticando, all'esatto contrario, che è una fatica normalmente "doppia" al lavoro curriculare, in alcuni casi particolarmente gravi e infelici anche "tripla". Allora, dopo un congruo numero di anni, considerando però anche gli anni di precariato sul sostegno, perché non premiare tutti questi lavoratori affrancandoli definitivamente dal peso diretto di questo fardello? Invece no, è addirittura in discussione una legge per portare il quinquennio obbligatorio sul sostegno da ruolo ad un decennio ... e chi vorrà mai più, allora, fare sostegno? E chi, tra quanti, volenti o nolenti, resteranno sul sostegno, praticamente "a vita", lo farà con dignità ed impegno?

Caro Ianes, non prendertela, ma, si sa, gli accademici peccano di "distanza" dalla concretezza delle cose, dimenticando che ciascun operatore scolastico preposto all'integrazione scolastica ha la sua vita privata, le sue relazioni, i suoi sogni, le sue aspirazioni, e tutto ciò senza che diventi alibi per cattive prassi d'integrazione scolastica ...


(url immagine: http://altoadige.gelocal.it/polopoly_fs/1.4293725.1405392333!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/landscape_250/image.jpg)

lunedì 10 novembre 2014

Figli di un Dio minore?



"In vari casi i ragazzi in difficoltà erano addirittura condotti in locali a parte per ricevere dagli insegnanti di sostegno lezioni a loro specificamente finalizzate; in assenza dell’insegnante di sostegno, non di rado accadeva che gli allievi con disabilità di varie classi fossero affidati al personale assistente con funzioni di mera sorveglianza"



(G. Fappani, Figli di un Dio minore?, in G. Onger (ed.), Trent’anni di integrazione scolastica. Ieri, oggi, domani, Vannini Editore, Gussago, 2008, p. 120)



Purtroppo, in molte realtà le cose stanno ancora in questi termini, alunni che vivono la scuola fuori dalla classe e che, in assenza del docente di sostegno, vengono addirittura rifiutati dall'istituzione scolastica ...



No, questa è segregazione, esclusione, elusione dei precisi obblighi, negazione del valore costituzionale della scuola aperta a tutti ...

mercoledì 5 novembre 2014

Integrazione scolastica

"L’integrazione vera, buona, è piena partecipazione alla normalità del fare scuola nel gruppo «normale» dei coetanei, in una classe «normale», in una scuola «normale», con attività «normali», cioè di tutti"

(D. Ianes, L’evoluzione del docente di sostegno. Verso una didattica inclusiva, Erickson, Trento, 2014, p. 9)

Cose che sarebbero ovvie e che, purtroppo, non lo sono nelle prassi comuni, nelle stanche routine dell'integrazione scolastica, nelle ridondanti e non incisive liturgie del rito inclusivo ...


(url immagine: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjuz2h-VoWVSdGW7oBnTcv8XW1JO_aLqZs7-ICxodDHM6WBXJECWsLZU-mp21YvSUA3bv021kfjpcVqxWXM5n79MY30YGvae5u4HnZqdOA0-QW6-ZY_LBNiHX9A_l9QCjqnotPM5qU8wmyS/s1600/integrazione.jpg)

domenica 2 novembre 2014

Handicap sociale



Con l'ICF si "capovolge il punto di vista, ricollocando al proprio posto il protagonista, la persona, l’alunno".

(F. Stasolla – V. Albano, ICF e PEI nelle disabilità dello sviluppo, Libellula, Tricase, 2013, p. 29)

In realtà, le cose non stavano esattamente in questi termini prima che la classificazione ICF venisse approvata.

Infatti, tutti sanno, o dovrebbero sapere, che l'handicap non è della persona affetta da qualche menomazione, ma delle condizioni sociali e fisiche dentro le quali sviluppa la sua esistenza. Qui il mio ragionamento più esteso.

Pertanto, non è affatto vero che in precedenza si guardasse solo alle incapacità, perdendo di vista la centralità della persona, con i suoi bisogni, ma è vero, viceversa, che il rischio è sempre il solito: dimenticare che le le cause invalidanti non risiedono nella persona, ma nella particolare organizzazione sociale che il consorzio umano ha scelto e manda avanti, e che penalizza alcuni a vantaggio di tanti altri.


(url immagine: http://www.erisee.org/node/img/icf.jpg)