(url immagine: https://integrazioneinclusione.files.wordpress.com/2011/05/dscn1683.jpg)
Recentemente Dario Ianes, vero e proprio “guru”
dell’educazione delle persone disabili, ha infiammato l’agone della discussione pubblica proponendo una sostanziale e radicale evoluzione dell’integrazione scolastica degli
studenti disabili, pensando cioè ad una trasformazione degli insegnanti di sostegno
in insegnanti curriculari e facendo passare quel che tutti i giorni noi docenti di sostego facciamo in classe nell’ordinarietà del lavoro didattico[0].
Partendo da una disamina dei risultati di trent’anni
di integrazione scolastica, Ianes conclude che l’obiettivo di partenza, vale a
dire l’inclusione delle persone disabili, non è stato pienamente raggiunto e la
stessa integrazione scolastica è divenuta nella maggior parte dei casi uno
sterile rituale non utile alla causa. Nonostante i decenni passati, nonostante
l’aspirazione ideale di partenza, nonostante l’iniziale entusiasmo, nonostante
le varie storie di vita, nonostante le risorse impiegate, e nonostante, forse
soprattutto, l’umile ma importantissimo lavoro, umano e materiale, di tanti
docenti di sostegno, i risultati raggiunti appaiono poca cosa, risibili, ben al
di sotto delle aspettative[1].
Come mai? In modo particolare, si registrano delle dinamiche che,
sebbene di per sé neutrali, influenzano negativamente lo stesso processo
d’inclusione degli studenti disabili nella normalità della vita scolastica,
meccanismi, sovente inconsci e/o involontari, i quali realizzano microesclusioni
e microespulsioni della popolazione scolastica disabile dal contesto scolastico[2].
Un’analisi critica dell’integrazione scolastica in tutti i decenni che vanno
dal 1977 sino ai giorni nostri, mette in rilievo una notevole discrepanza in merito ai risultati
conseguiti tra efficacia e relativi costi. Dunque, l’integrazione scolastica ha
fallito? Abbiamo tutti, indistintamente, pur ciascuno con le sue specifiche
responsabilità, fallito? E, cosa ancora più importante, se sinora ha tradito le
legittime attese, cosa dobbiamo farne? Dai dati, Ianes cerca di fornire delle
risposte, cerca cioè di tentare delle interpretazioni dei dati in possesso[3]. Ianes,
in modo particolare, lega la situazione del sostegno scolastico nel nostro
Paese in funzione della sua certificazione medica. Pertanto, l'alunno disabile necessiterà
«di un intervento altrettanto individuale, quasi medico, speciale, affidato
solamente a chi può garantire queste caratteristiche di ruolo»[4].
Si prefigura, pertanto, la perniciosa figura della coppia simbiotica alunno
disabile - (suo) docente specializzato.
Anzi, «il binomio indissolubile»[5].
Tutto ciò nuoce alle finalità dell’integrazione scolastica che viene vista in
primo luogo come diretta emanazione da parte di un luogo terzo rispetto alla
scuola, la famigerata componente medica cui sola spetta la possibilità di
certificare un alunno come disabile, e, quindi, di attivare l’intero
processo che porta all’individuazione del fabbisogno, in termini di ore, per le
scuole ove sono iscritti gli alunni disabili; in secondo luogo, se la
disabilità è un fatto privato che tocca solamente alcuni singoli individui,
diviene necessario un accostamento costante da parte di un docente in possesso di
un sapere tecnico altamente specializzato che se ne prenderà carico e che
seguirà l’alunno lungo tutto il percorso scolastico.
Tuttavia, Ianes individua ancora un terzo luogo
critico, vale a dire la collocazione in uno spazio terzo rispetto alla classe
dell’alunno disabile. Infatti,
siccome la disabilità è un fatto personale che richiede alta
specializzazione, la sua presa in carico richiederà anche un’aula apposita ove
mettere in campo interventi mirati e tecnici, altrimenti non realizzabili
all’interno del gruppo-classe, un luogo diverso o speciale «per lavorare
adeguatamente»[6]. V’è poi
ancora un quarto aspetto strutturale negativo che consiste nell’investire a
favore dell’integrazione scolastica solamente attraverso la figura
dell’insegnante di sostegno, unico fondo che giunge alle scuole, «come se le
uniche figure che potessero efficacemente costruire integrazione scolastica
fossero esclusivamente gli insegnanti di sostegno»[7]. A
mio sommesso parere, ciò deriva più dal consueto, e rassicurante per l’intera
istituzione scolastica, istituto della delega dell’intero peso dell’integrazione
sulle spalle del docente di sostegno. Non è più comodo? Non è più facile? Non è
anche più economico? D’altro canto, se quest’ultimo ha il bisogno di
fotocopiare delle schede didattiche oppure di stampare del materiale
autoprodotto, è preferibile che lo faccia a casa perché a scuola manca in
genere il luogo, il tempo, la possibilità. Meglio una stampata a colori che una
misera in toni di grigio …
Giungiamo, infine, al quinto elemento strutturale
negativo che, a detta di Ianes, comporta quella serie di risultati non
soddisfacenti, ossia la natura non
inclusiva della didattica curriculare. E questo, anche a mio sommesso parere, è
forse l’elemento principe nelle difficoltà che il sostegno scolastico
quotidianamente incontra e subisce. Infatti, la «scuola cambia, ma la didattica
ordinaria rimane la stessa, se non addirittura sembra arretrare»[8].
Verissimo! Soprattutto alle superiori, i colleghi sono presi quasi dalla
frenesia di allontanare dalla classe l’alunno disabile, come se avessero
qualcosa da nascondere o come se avessero fretta di seguire con tranquillità il
trantran di una didattica sempre uguale e somministrata erga omnes.
D’altro canto, registrare in aula la presenza di un alunno disabile
disturberebbe lo stanco, e rassicurante, rituale della lezione classica,
frontale e non partecipata, l’amabile monologo, quasi interiore, del docente
che parla a ruota libera, che fa lezione ex cathedra, e manco si sogna
di verificare la comprensione/comprensibilità delle sue stesse parole. Vi
immaginate una cariatide costretta a personalizzare le sue lezioni? A dover
adattare la propria didattica? A dover faticare nel semplificare gli strumenti
di lavoro? A dover intervenire sull’amato libro di testo? Così arriva pronta la
richiesta “Porteresti X fuori quest’ora, così magari ripassa un po’ di
grammatica?”. Dovremmo sempre rispondere cortesemente di no, ma non esiste una
regola valida sempre, dipende dall’alunno disabile, dipende dalla classe,
dipende dalla giornata …
(url immagine: http://i0.wp.com/www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2014/04/ianes.jpg)
Ianes, pertanto, interpreta la difficile condizione
dell’integrazione scolastica in Italia come l’effetto combinato di «una
costellazione di elementi strutturali negativi»[9] i
quali producono «effetti anti-integrazione e processi lentamente degenerativi»[10].
Ed è con l’interpretazione della condizione presente e
con l’individuazione dei suoi aspetti critici, che Ianes formula la sua
proposta di soluzione del problema, presenta la sua idea di un’evoluzione del
docente di sostegno. Se la scuola comunque evolve, perché non dovrebbe evolvere
anche la specifica funzione del docente di sostegno? Anche il suo «ruolo
evolve»[11].
In ogni caso, però, una cosa è la sua naturale evoluzione all’interno di quel
formidabile organismo complesso, e caotico, che è la scuola, un’altra cosa la
precisa direzione di sviluppo che propone lo stesso Ianes. Egli propone,
infatti, di cambiarne il ruolo in due direzioni diverse, ma cooperanti: «circa
l’80% di essi diventerebbero insegnanti curriculari a pieno titolo per
realizzare compresenze sulle classi e il 20% specialisti itineranti (peer
tutor) per dare supporto tecnico a tutti i colleghi curriculari»[12].
Fermiamoci un attimo, e riflettiamo. Prima Ianes ci dice che uno dei danni dal
sostegno è la fuga da quest’ultimo verso le discipline. Un vulnus per il
sostegno in primo luogo perché impoverisce il settore di competenze ed
esperienze maturate sul campo e che non verranno più spese per la causa
dell’integrazione scolastica. Un ragionamento entro certi limiti condivisibile,
che, però, non deve abilitare a perverse idee di imprigionamento “a vita” dei
docenti di sostegno in tale ruolo. Ora, però, sempre Ianes propone di
trasformare tale ruolo, nella percentuale dell’80% del personale attuale, in
insegnamento curriculare … come sarebbe a dire? La cosa appare perlomeno
curiosa. Da “fermiamo la fuga dal sostegno” a “istituzionalizziamo la fuga dal
sostegno”? Ho capito bene? Avete inteso anche voi così? Allora, qui gatta ci cova
… e se a dire certe cose è un accademico, comincio pure a tremare. Quale
inconfessabile progetto si cela dietro quest’apparente riconoscimento del
valore del docente di sostegno?
In realtà, subito dopo aver parlato delle due
percentuali suddette, Ianes passa a descrivere in maniera più estesa la natura
concreta di questa evoluzione, asserendo come i docenti convertiti in
curriculare non passino davvero ad insegnare una disciplina, ma restino sulle
classi ove è presente un alunno disabile. Subito, allora, a mio onesto avviso,
le cose diventano molto confuse e poco chiare. Infatti, Ianes parla di «un
certo numero di ore di compresenza»[13]
durante le quali l’ex docente di sostegno «partecipa a pieno titolo alle
attività didattiche della classe»[14].
Cioè, per dirla altrimenti, l’evoluzione del docente di sostegno consisterebbe,
in brutalissima sintesi, in un passaggio dalla «contitolarità» alla
«compresenza» sulla classe? Sembra, dunque, che Ianes abbia in mente questo
passaggio, far evolvere la contitolarità in vera e propria compresenza,
vale a dire due docenti di classe sulla stessa classe durante la medesima ora
di lezione!
Se il comma 6 dell’art. 13 della L. n. 104 del 1992, conferisce al
docente di sostegno lo status della contitolarità (due insegnanti sulla classe,
con differenze di funzioni), adesso Ianes propone per la maggioranza di questi
ultimi lo status della compresenza (due insegnanti sulla classe, senza
differenze di funzioni). La confusione diventa massima quando ci si sofferma
sul concreto procedere dei due docenti curriculari: chi fa cosa? E con chi?
Appare evidente come l’istituto della compresenza, di per sé già foriero di
parecchi rischi ed evenienze negative, non migliora di per sé l’integrazione
degli alunni disabili all’interno del gruppo-classe. Infatti, agire in
compresenza non comporta in automatico un miglioramento della normale prassi
didattica in direzione dell’inclusione. Insomma, far scomparire ogni
riferimento, diretto ed indiretto, alla situazione d’handicap in classe,
migliora l’integrazione dei nostri alunni? Non è detto. Non sempre. Di certo,
non in automatico.
Eppure si vede che Ianes presti molto credito a tale idea. A
chi, però, conosce bene le reali dinamiche dell’organizzazione scolastica,
l’idea di una tale evoluzione appare il cavallo di Troia nei confronti
dell’integrazione scolastica. Non da parte dei nemici di quest’ultima, ma da
parte delle supreme ragioni della gestione interna del personale, quelle cioè
che inverano il brocardo latino ubi maior, minor cessat. Cosa intendo
dire? Una cosa molto semplice: cosa accadrà quando, e capiterà molto spesso
durante l’anno scolastico, verrà chiesto a uno dei due docenti di sdoppiare la
compresenza per coprire la tale classe rimasta scoperta? E chi potrà opporsi
dal momento che ciascuno dei due docenti ha la medesima funzione? La
conseguenza più misera e più probabile è quella del modello classico di
lezione: frontale, orale, non partecipata, una classe e il suo (solo!)
insegnante. E, in tutto questo, l’alunno disabile? Eccolo lì, isolato nel suo
angolino, più solo di prima, più solo di quanto non gli capitasse prima che il
docente di sostegno evolvesse verso la dimensione curriculare.
D’altro canto, una volta che sia divenuto curriculare,
proprio non si capisce perché mai dovrebbe rimanere in carica sulla classe
dov’è l’alunno disabile. A regime, un docente curriculare passa su un’altra
classe, e, quindi, ecco che il nemico degli accademici dell’integrazione
scolastica, la fuga verso le materie, diviene istituzionale. Facciamo passare
l’80% dell’attuale organico del personale di sostegno sulle materie, ma lo
leghiamo alla compresenza in aula. Tanto basta, a mio avviso, per scorgere la
natura poco pratica della proposta di Ianes, tanta teoria, poca praticabilità,
molte idee svolazzanti, mancanza di fattibilità, molto fumo, decisamente poco
arrosto.
Ma c’è dell’altro. Subito dopo, Ianes aggiunge
«L’obiettivo, e il dovere professionale, di realizzare un’integrazione
scolastica di qualità sono di pari responsabilità per tutti i docenti, non
soltanto per quelli di sostegno»[15].
Parole condivisibili, ma, e rispetto alla sua proposta di evoluzione, in che
termini concreti avremmo un miglioramento deciso della didattica normale? Detto
altrimenti, cosa ci dice che una volta che sia stato realizzato il travaso, o
la tracimazione, a seconda dei punti di vista, dell’80% dei docenti di
sostegno, tutta la didattica curriculare ne risenta positivamente? E cosa
c’entra, d’altro canto, tale travaso con la compresenza che, di punto in
bianco, Ianes tira fuori? In apparenza nulla. Ma il Nostro prosegue
imperterrito ed enumera gli adempimenti formali per il rinnovato consiglio di
classe. Tutti i docenti, infatti, tutti e nessuno escluso, «valuteranno e
programmeranno insieme nel Piano Educativo Individualizzato – Progetto di vita
le attività, gli adattamenti degli obiettivi e dei materiali, realizzandoli
assieme a tutti gli alunni della classe»[16]. A
chi ha dimestichezza con queste cose, questa precisazione, oltre ad apparire
del tutto pleonastica, suona sinistra, come lo sberleffo cartaceo della L. n.
170/2010, per intenderci la legge che rende istituzionali quelle situazioni
grigie, ma sempre borderline, dei DSA. In termini semplicissimi,
quest’ultima prevedeva per gli alunni con DSA la stesura collegiale di un piano
educativo individualizzato. Dunque, il medesimo copione, pur con contenuti
differenti, di quanto avviene, o perlomeno dovrebbe avvenire, con gli alunni
disabili, vale a dire la stesura collegiale di un piano educativo
personalizzato. Bene, tutto qui dunque? Il successo formativo viene conseguito
mediante personalizzazione? L’inclusione viene raggiunta quando si prevede la
personalizzazione? Miracolosamente compiuta una volta che sia prevista “sulla
carta”? D’altra parte, e il docente di sostegno lo sa, dove è scritto che il
documento è redatto dal consiglio di classe, si deve leggere “dal docente di
sostegno”, altrimenti nessun’altro lo stenderà. Quindi, chi stende i PEI per
gli alunni con DSA? Nessuno! E chi stenderà i futuri PEI per gli alunni disabili
una volta che sia scomparsa la figura del docente di sostegno? Nessuno! E, a
cascata, allora chi ci garantisce che con la compresenza migliorerà la normale
prassi didattica? Nessuno! E, ancora, chi si occuperà infine dei nostri alunni
disabili? Nessuno! Ecco perché trovo sinistro l’accenno al precedente illustre
dei DSA, per loro si prevedono strumenti facilitanti e dispense, ma niente
docente di sostegno. Raggiungono, così, con le loro (deboli) forze il successo
formativo? Ne dubito. Certo, a parte singoli casi, la mia impressione generale
è che i consigli di classe, per quieto vivere, e per non assumersi l’onere
della propria responsabilità professionale, decidano di promuovere in
automatico tutti gli alunni certificati DSA, a prescindere da quel che loro (e
i correlativi docenti di classe) abbiano fatto! Siccome, si propone qui una sorta di
omogeneizzazione delle due fattispecie, appare facile immaginare quale sarà lo
scenario più probabile allora: l’alunno disabile andrà avanti anche senza far
nulla tutto il giorno e tutti i giorni dell’anno scolastico. Per tutto il
resto, ci sarà un Piano Educativo Individualizzato. Già, ma portato avanti da
chi? L’esistenza di un docente di sostegno, pur tra mille limiti e mille
difficoltà, è ancora garanzia di uniformità di attuazione dello stesso.
L’assenza di un docente di sostegno è sicura garanzia di abbandono formativo
degli alunni disabili, numeri nel mare magno delle differenze individuali. E
questo scenario è migliore della deprecabile situazione attuale? Penso che
Ianes non avrebbe il coraggio di ammetterlo. Tant’è che, per legittimare
l’improvvisa compresenza buttata nella mischia, sostiene che la presenza di due
docenti rende possibile diversificare il lavoro didattico dando luogo a forme
più inclusive «come l’apprendimento cooperativo, l’aiuto e l’insegnamento
reciproco diretto (tutoring), la didattica laboratoriale, per progetti, per
problemi reali, l’adattamento e la diversificazione dei materiali di
apprendimento […] l’uso partecipativo e inclusivo delle tecnologie»[17].
Dunque, par di capire, due docenti per classe sono meglio che uno solo. E,
sotto questo punto di vista, come dargli torto? D’altra parte, nella mia breve
esperienza professionale ho visto anche classi di trenta – trentadue alunni e
in questi casi la normale attività didattica diventa improba, oltre che,
ovviamente, anche del tutto complicata. Pertanto, avere a disposizione due
docenti, anziché uno solo, è, di per sé positivo. Questo, però, se ci
muovessimo nella sola direzione di un miglioramento della normale didattica
d’aula. Ma rispetto all’integrazione scolastica il presente discorso in merito
alla compresenza non mostra automatici miglioramenti. Peraltro, l’ex docente di
sostegno, ora docente a tutti gli effetti, divenendo risorsa per tutti i compagni
dell’alunno disabile, in che modo migliorerà la qualità della didattica
ordinaria? Insomma, mi sembra che qui si passi da reduplicazione a
reduplicazione, peggiorando, però, il quadro complessivo, e facendo scontare
sulle spalle dei più deboli pesi non suoi. E come mai, visto e considerato che
si trattava in origine di non dividere in parti uguali fra diseguali? Rotta la
coppia simbiotica alunno disabile – docente di sostegno, resta solo, avete
letto bene, l’alunno disabile …
Le belle parole di Ianes nulla tolgono alle difficoltà
della relazione alunno disabile – gruppo-classe e nulla migliorano della vita
scolastica del primo. Anzi, se possibile, la peggiorano dato che l’ex docente
di sostegno è ora conteso dai bisogni educativi di tutti gli altri. Certo,
altri modelli di lezione o altri tipi di attività didattica potrebbero, a
condizioni rigide e severe però, migliorare la qualità della relazione interna
al gruppo-classe, magari anche coinvolgendo di più l’alunno disabile, e questa
sarebbe una cosa positiva, ma, a lungo andare, mi chiedo, il nostro alunno
sarebbe anche più incluso nella normale vita didattica della classe?
Francamente, temo di no, sarebbe cioè non più un soggetto con special needs,
ma al più uno dei tanti tra tanti … Il che, a dirla tutta, appare più una
sofisticata eliminazione del problema, relativo all’integrazione scolastica di
persone con certificazione di una menomazione organica all’interno dei percorsi
ordinari di scolarizzazione, che una sua soluzione, ossia un deciso miglioramento della
qualità dell’integrazione scolastica tout –court. Detto altrimenti, cosa
verrebbe richiesto a questi ex docenti di sostegno? Di portare avanti un
discorso complessivo di cooperazione didattica, con il collega curriculare e
con la classe per intero, attivando risorse cooperative e lavoro di rete.
Problema: quindi, par di capire, stavolta la piaga della delega non viene
estirpata, ma addirittura diviene sistemica. Infatti, l’ex docente di sostegno
ora non avrebbe più in delega uno (o due o tre) alunni per classe, ma l’intera
classe! Infatti, caro Ianes, perché mai il collega curriculare, che non
proviene dal sostegno, dovrebbe attivare nuove modalità didattiche rispetto a
quelle a lui note? L’innovazione, così, ricadrebbe per intero sulle spalle
dell’ex docente di sostegno, non più contitolare, ma responsabile
didatticamente dell’intera classe …
Per corroborare la presente proposta di evoluzione,
Ianes parla di «organico funzionale»[18],
un combinato di parole sempre più sinistro in quanti lavorano a scuola ed hanno
a cuore il proprio luogo di lavoro. In altri termini, gli ex docenti di
sostegno, dal momento che è impensabile raddoppiare tutti gli insegnamenti,
andrebbero in compresenza solo a determinate condizioni. Dunque, par di capire,
non per tutte le ore del curricolo. E questo è un problema: non rende parziale
e circoscritta l’esperienza innovativa e migliorativa della compresenza? E, in
più, se la continuità della didattica inclusiva viene spezzata, come possiamo
aspettarci un miglioramento sistemico della qualità dell’integrazione
scolastica nel suo complesso? Forse, sarebbe il caso di commentare, il rimedio
qui proposto è addirittura peggiore del male che voleva curare … Certo
obiettivo del Nostro è sollevare dalle spalle del docente di sostegno la perversa
delega relativa all'integrazione scolastica, ma eliminare tutte le differenze tra organico curriculare
ed organico di sostegno non aiuta a risolvere il problema, oltre a presentare
concreti rischi di peggioramento e dell’integrazione scolastica degli
alunni disabili e della vita professionale dello stesso docente, prima
di sostegno poi docente funzionale, sulle cui spalle, comunque, si ripresenta
puntuale il rischio della delega, prima del sostegno tout – court ora
dell’innovazione didattica in direzione inclusiva …
E tutto questo solo per quel che concerne la
stragrande maggioranza dei docenti di sostegno, il famoso 80%, e tutti gli
altri? Ovvero di che morte muoiono tutti gli altri? Il restante 20%? Ianes
propone di farne «insegnanti specialisti itineranti»[19],
insomma altrettanti docenti mentor come nella recente criticatissima
versione governativa de La buona scuola. In concreto, questi ex docenti
di sostegno non fanno parte dell’organico funzionale, non diventano
compresenti, non devono attivare innovativi e virtuosi processi didatti più
inclusivi, ma girano per le scuole, per le aule, per i corridoi, metteno becco
nelle attività didattiche altrui e formano, informano, mediano tutti gli altri
colleghi. Insomma, dei saccenti non richiesti specialisti nomadi …
Il destino di questa percentuale minima di ex docenti
di sostegno, se possibile, è ancora più ambigua ed incerta dei loro colleghi, senza classe,
forse anche senza scuola, costretti a girare senza però poter conoscere in
maniera adeguata i contesti e le situazioni all’interno delle quali però sono chiamati ad intervenire. La classe è certamente un’organizzazione complessa, ma proprio
risulta arduo comprendere in che modo le conoscenze ed esperienze qualificate in possesso di questi specialisti possano andare bene per
migliorarne la vita. Ianes scrive che dovrebbe essere «un fatto normale
l’apporto di diversi esperti esterni»[20].
No, in verità no, il contributo degli esperti esterni è sempre come l’apporto
della pioggia leggera e poco intermittente: scivola via lungo le varie
superfici senza modificarle in profondità.
In conclusione, allora, e mi assumo le responsabilità di quanto asserisco, la proposta di evoluzione del docente
di sostegno, oltre ad essere del tutto campata in aria, è, a mio modesto
avviso, politicamente pericolosa. È pericolosa perché nel corso dei tempi bui e
tristi che viviamo potrebbe offrirsi strumentalmente ai tanti “patrioti” che
invocano il calo delle tasse (in genere, le proprie) da attuare, puntualmente,
attraverso il taglio delle spese (in genere, quelle di e per altri). Ora,
sappiamo benissimo cosa ciò comporti per un settore “muto” come quello
dell’istruzione, e per utenti, i nostri alunni disabili, che hanno ancor meno
peso: meno diritti per tutti! Se è ingiusto dividere in parti uguali tra
diseguali, cosa dovremmo dire del rischio di perdere del tutto il sostegno
scolastico? Ianes ha ragione nel criticare le prassi del sostegno e i risultati
conseguiti ben al di sotto delle legittime attese, ma siamo proprio sicuri che
l’evoluzione sognata vada nella direzione di migliorare l’integrazione
scolastica nel suo complesso? Personalmente, non ho motivi per pensarlo,
immaginarlo e, addirittura, anche solo sperarlo. Infatti, molto spesso il
sostegno si regge sulla prassi della delega al docente di sostegno, ma almeno
c’è quest’ultimo che, con i suoi mille difetti e le sue mille dimenticanze, comunque,
fa qualcosa, anche poco, in favore dei bisogni formativi degli alunni disabili
in carico! Se, invece, eliminiamo quest’ultimo, chi si farà più carico in futuro
degli alunni disabili? Penso, nessuno! Nemmeno l’ex docente di sostegno, ora
docente curriculare in compresenza, spesso docente funzionale alle supplenze
temporanee in altre classi della stessa scuola, talvolta docente di tutti gli
altri compagni di classe degli alunni disabili …
Un bel risultato! Non c’è che dire o aggiungere! Sì,
Ianes sostiene che così si attiverebbero tante risorse latenti, la cui mancata
funzionalità ha penalizzato in passato il sostegno scolastico. Penso, tuttavia,
che il Nostro sia affetto dalla particolare miopia degli accademici i quali
ragionano per modelli astratti non rendendosi conto, non subito almeno, della
varianza contestuale. Che intendo dire? Che l’evoluzione proposta da Ianes non
migliora affatto il sostegno scolastico, obiettivo auspicato e vero terminale
finale della proposta in questione, ma, molto più semplicemente, lo elimina in
quanto tale …
Infatti, un’evoluzione del docente di sostegno verso
altre nebulose forme di funzione docente cambia del tutto il contesto di
riferimento. Non abbiamo più un alunno disabile da integrare attivando una rete
di risorse e di pratiche. Non abbiamo più un docente specializzato che se ne fa
carico in seno ad un gruppo-classe. Non abbiamo più neppure un’integrazione
scolastica da mandare avanti. Nuove fattispecie si affacciano, neutre come
tutte quelle mere ipotesi non ancora attualizzatesi, cariche di speranze come
di timori, docenti compresenti, docenti itineranti, docenti mentor, docenti
inclusivi …
Dunque, in conclusione, Ianes realizza il sogno
proibito di tutti coloro i quali segretamente coltivano il sogno di una scuola
più esclusiva, più segregante, più cool, ovvero di una scuola per pochi.
Ciò è paradossale, ma concreto. Il Nostro, infatti, con la sua evoluzione del
docente di sostegno, introduce nella scuola dell’integrazione il cavallo di
Troia che ne provoca la semplice implosione! Da un giorno all’altro, scompaiono
gli alunni disabili, scompaiono le differenze, scompaiono le difficoltà, le
aule di sostegno, i docenti di sostegno …
E dire che il punto di partenza era
condivisibile, e cioè che «il punto centrale del discorso sull’integrazione è
la didattica degli insegnanti curriculari»[21].
Da lì, però, si perviene ad una cura che oltre a non dare garanzie di successo,
mina alle fondamenta il formidabile processo dell’integrazione scolastica, fa
crollare in una nuvola di fumo bianca e soffice di un’esplosione controllata la
via italiana all’integrazione scolastica (e sociale) delle persone disabili,
compie un’eutanasia dei diritti soggettivi all’istruzione, alla formazione ed
esonera le finanze pubbliche dell’onere di rimuovere le cause umane e materiali
al pieno sviluppo delle persone.
(url immagine: http://s4.stliq.com/c/l/1/16/16837367_dario-ianes-la-didattica-inclusiva-nei-dislessici-0.jpg)
D’altra parte, e per congedarsi qui da Ianes, se la
normale didattica può farsi carico degli alunni disabili, perché non
sbarazzarci semplicemente, quanto democraticamente ed economicamente, dei docenti
di sostegno? Ecco, cari colleghi, il punto di arrivo finale della strisciante spending
review dell’istruzione! Ancora non ci siamo, ma presto ci arriveremo.
D’altra parte, chi ha bisogno del sostegno scolastico? Chi necessita di docenti
di sostegno? Non il sistema, quindi perché sprecare così le risorse? Peraltro,
in tempi di crisi?
[0] Cfr. D. Ianes, L’evoluzione del docente di sostegno. Verso una didattica inclusiva, Erickson, Trento, 2014, p. 9: «L’integrazione vera, buona, è piena partecipazione alla normalità del fare scuola nel gruppo «normale» dei coetanei, in una classe «normale», in una scuola «normale», con attività «normali», cioè di tutti».
[2] Ivi, p. 53 e sgg.
[3] Ivi, p. 79 e sgg.
[4] Ivi, p. 89.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 91.
[7] Ivi, p. 93.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 99.
[12] Ivi, p. 100.
[5] Ivi, p. 101.
[6] Ibidem.
[7] Supra.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, pp. 103 – 104.
[10] Ivi, p. 105.
[11] Ivi, p. 108.
[12] Ivi, p. 113.
[13] Ivi, p. 125.
[14] Ibidem.
[15] Supra.
[16] Ibidem.
[17] Ivi,
pp. 103 – 104.
[18] Ivi,
p. 105.
[19] Ivi,
p. 108.
[20] Ivi,
p. 113.
[21] Ivi, p. 125.
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