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giovedì 28 febbraio 2013

Il futuro delle democrazie


M. C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 168.


Secondo la Nussbaum “Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008 […] Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell'istruzione” (p. 21). Le democrazie, osserva la Nussbaum, sono sempre più attratte dall'idea del profitto, dell'utile economico. In questo modo, “i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché di cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie è appeso ad un filo” (pp. 21 – 22). Da un lato la strettoia imposta dalla crisi economica, dall'altro lato, però, un'idea perniciosa di indirizzamento curriculare delle giovani generazioni verso i settori richiesti dall'economia stessa, con una trasformazione dell'intero comparto istruzione in una sorta di avviamento professionale o di tirocinio lavorativo, con cancellazione di tutti quegli argomenti e tutte quelle discipline tese, piuttosto, a formare le persone, a sviluppare in queste ultime il senso critico, il libero pensiero. Le nazioni stanno, così, tagliando tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale” (p. 22), i governi, cioè, preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo”(p. 22).



Il rischio è quello di perdere del tutto il riconoscimento che consente di guardare all'altro come una persona, e non come un mero oggetto da utilizzare per trarre profitto personale. Infatti, “ci stiamo dimenticando cosa significa considerare un'altra persona come un'anima, anziché come un mero strumento utile, oppure dannoso, per il conseguimento dei propri progetti; di cosa significa rivolgersi, in quanto possessori di un'anima, a qualcun altro che si percepisce come altrettanto profondo e complesso” (p. 25). Stiamo perdendo di vista quell'essenziale che ci rende umani, e che Nussbaum sintetizza con il termine 'anima'. Cosa ci rende umano? Sicuramente, “le capacità di pensiero e immaginazione” (p. 25) le quali “fanno delle nostre relazioni qualcosa di umanamente ricco, non relazioni di semplice uso e manipolazione” (p. 25).



Così, le nostre democrazie sono destinate a cadere una volta che non siamo più abituati o capaci di “immaginare le reciproche capacità di pensiero ed emozione” (p. 25), una volta che sia venuto meno il riconoscimento dell'alterità, della differenza, di altri come me. Una democrazia, infatti, è costituita sul rispetto e la cura, e questi “sono costruiti sulla capacità di vedere le altre persone come esseri umani, e non come oggetti” (p. 25).



La corsa al profitto, o la tentazione vincente di credere nel progresso di una nazione esclusivamente nei termini di produttività o di Prodotto Interno Lordo, svaluta questi valori, rendendo impossibile in futuro il riconoscimento degli altri, in quanto tali, e non come meri strumenti per il proprio tornaconto personale. Questi valori consistono in conoscenze, ossia saperi che stiamo eliminando dai nostri curriculi per far spazio a saperi tecnico – scientifici, inseguendo il mito del “profitto” (p. 26). Si tratta dei saperi umanistici, ossia “la capacità di pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali […] la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell'altro” (p. 26). L'ossessione “della crescita economica” (p. 27) conduce “a cambiamenti nei programmi di studio, nella pedagogia e anche nel sistema dei finanziamenti” (pp. 27 – 8). eppure, rileva l'autrice, vi sono saperi che, pur non essendo direttamente spendibili nella vita pratica, per via delle loro particolare natura, contribuiscono in maniera efficace a formare i soggetti umani. Pertanto, il suo scopo diventa dimostrare “che le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie” (p. 28). Solo lo sviluppo adeguato delle facoltà di pensiero e di ragionamento consente di potersi muovere all'interno di una realtà multiforme e camaleontica, riuscire a destreggiarsi entro un mondo siffatto, per far fronte “ai problemi” (p. 28) che attendono le democrazie. Questo non può fare, ad esempio, un'educazione modellata sul perseguimento del profitto materiale a tutti i costi. Peraltro, non è affatto vero che sia impossibile conciliare un'educazione modellata sul profitto e un'educazione modellata sui saperi umanistici. D'altra parte, si è incapaci di coniugare formazione delle persone e ricchezza sociale, finendo con il legare, quasi del tutto esclusivamente, profitto e Prodotto Interno Lordo. La ricchezza materiale non porta affatto con sé tutto il resto, sanità, istruzione, diminuzione delle diseguaglianze. Aumentare la ricchezza materiale non comporta in automatico un miglioramento della democrazia, un qualcosa che va comunque sempre alimentato e coltivato. Esiste oggi un bisogno di diritti di cittadinanza per i quali il profitto non sortisce alcuna resa effettiva. Solo abituando “la mente a diventare attiva, competente e responsabilmente critica verso le complessità del mondo” (p. 35) è possibile tentare di dare risposa adeguata a tale bisogno, senza, di conseguenza, ignorarne l'appello, la necessità, senza differirne, per motivazioni di forza maggiore, il perseguimento, il soddisfacimento.



É un modello antico, che trova in Socrate un suo illustre precedente, ma che, a detta della Nussbaum, ha informato di sé l'intero modello educativo statunitense, profondamente umanistico, e non tecnico-scientifico, come invece percepito in Europa.



La prospettiva che si sta imponendo nelle agende politiche di mezzo mondo è estremamente riduttiva su cosa debba intendersi per formazione delle nuove generazioni. Infatti, tende a selezionare molto le materie e gli argomenti sui quali i giovani devono formarsi, solo quelli che “servono al successo economico, personale o nazionale che sia” (p. 40). Non si tratta, però, di mera volontà di ignorare tutte quelle discipline che potrebbero educare alla creatività, al pensiero critico e alla capacità di argomentare e sostenere pubblicamente una posizione personale. I partigiani del “profitto” come meta finale delle agenzie formative temono le arti perché “la sensibilità simpatetica coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso per l'ottusità, e l'ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economico che ignorano le diseguaglianze” (p. 40), è alla fine più facile manipolare le persone che dialogare con queste ultime. I sostenitori del modello del progresso hanno così messo in funzione un'offensiva in grande scala contro “l'inclusione delle materie letterarie e artistiche fra gli ingredienti dell'istruzione di base” (p. 41).



Un modello educativo incentrato solo sulla capacità strumentale di trarre profitto dalla realtà circostante può solo costituire un danno per le democrazie perché non riconosce più una “dignità umana inalienabile” (p. 41) a tutti gli individui, guardando non più alla parità di accesso dei singoli, ma alle possibilità di potere degli aggregati. Anziché perseguire lo sviluppo umano delle persone, si finisce con il perpetuare poteri sociali consolidati. Tolta l'umanità, resta ben poco di quanto siamo soliti chiamare come 'democrazia'. Infatti, l'autrice elenca quelli che a suo dire sono i nuclei fondamentali di un'educazione mirante allo sviluppo umano:

  1. la capacità di ragionare sui problemi riguardanti la nazione, di esaminare, riflettere, discutere e giungere a conclusioni senza delegare alla tradizione o all'autorità;
  2. la capacità di riconoscere nei concittadini persone con pari diritti, di guardare loro con rispetto, “in quanto fini, non in quanto strumenti da manipolare per il proprio tornaconto” (p. 42);
  3. la capacità di preoccuparsi per la vita degli altri, di cogliere quali politiche siano significative per le opportunità e le esperienze dei propri concittadini ed anche delle persone al di fuori della propria nazione;
  4. la capacità di “raffigurarsi la varietà dei problemi della vita umana così come essa si svolge” (p. 42);
  5. la capacità di giudicare gli uomini politici criticamente, ma in base a informazioni certe;
  6. la capacità di pensare al bene della nazione, e non “a quello del proprio gruppo locale” (p. 43);
  7. la capacità di vedere la propria nazione come parte di un ordine mondiale complesso, le cui problematiche “richiedono una discussione transnazionale per la loro soluzione” (p. 43).




La tendenza a snaturare la tradizione umanistica dell'istruzione pubblica pone domande nuove e inquietanti. Su tutte quale sia il destinatario dell'istruzione medesima. Secondo la Nussbaum, l'istruzione “ha per destinatario il popolo” (p. 45). se così stanno le cose, allora una qualsiasi soluzione formativa non dovrebbe calare dall'alto, ma muovere solo da un'effettiva conoscenza di come mettere quest'ultimo nelle possibilità di “formare gli studenti come cittadini responsabili” (p. 45), capaci di “fare scelte riguardo a questioni di portata nazionale e universale” (p. 45). Ciascuna società presenta “persone che sono preparate a vivere con gli altri in termini di rispetto e reciprocità, e persone che perseguono il beneficio della prevaricazione” (p. 46). compito dell'istruzione è, pertanto, “capire come produrre più cittadini del primo tipo e meno del secondo” (p. 46). Per far questo, bisogna prendere in considerazione due elementi: “l'individuo e la situazione” (p. 59). la differenza di comportamento tra le persone non dipende esclusivamente dalle circostanze, casi singoli ed isolati gli uni dagli altri. Le persone, al contrario, “si comportano male quando non sono ritenute personalmente responsabili” (p. 59), quando possono muoversi al riparo sociale dell'anonimato, sotto le mentite spoglie della massa informe. In secondo luogo, le persone si comportano male anche “quando nessuno fa sentire una voce critica” (p. 60). In terzo luogo, le persone si comportano male “quando gli individui su cui hanno potere vengono disumanizzati e deindividualizzati” (p. 60), ossia quando l'altro perde i connotati della persona e diviene un mero oggetto manipolabile.



Sicuramente, “non riusciremo mai a formare persone che siano al riparo da ogni possibile manipolazione, ma possiamo produrre una cultura sociale che valga di per sé come un potente contesto in cui radicare le tendenze che militano contro lo stigma e la prevaricazione” (p. 60). Una società che non preferisca di gran lunga gli antidoti contro le tendenze spersonalizzanti è una società che ha deciso anzitempo di esaurirsi, di contrarsi, di estinguersi. Certamente, sono diverse le agenzie formative sulle quali una società può contare, ma la più importante è la scuola, la quale, per mantenere sana e viva la democrazia, deve:

  1. sviluppare la capacità degli studenti “di vedere il mondo dal punto di vista di altre persone” (p. 61);
  2. insegnare a confrontarsi con le inadeguatezze e le fragilità umane, ossia “insegnare che la debolezza non deve essere fonte di vergogna e che avere bisogno degli altri non è mancanza di virilità” (p. 61);
  3. sviluppare la capacità “di un'autentica sensibilità verso gli altri” (p.61);
  4. contrastare la tendenza a “ritrarsi ma minoranze per qualche motivo disprezzate” (p. 61), considerate, a torto, inferiori o contaminanti;
  5. insegnare “cose autentiche sui gruppi diversi […] così da controbattere gli stereotipi e il disgusto che spesso li accompagnano” (p. 61);
  6. incoraggiare la responsabilità;
  7. promuovere con vigore “il pensiero critico, la capacità e il coraggio richiesti per far sentire una voce dissenziente” (p. 61).




Si tratta, a ben vedere, di un “programma estremamente impegnativo” (p. 61), sia in termini umani sia in termini materiali. Tuttavia, va sempre presa in considerazione la posta in gioco: il bene comune o il bene di pochi. Le democrazie vogliono mantenersi vive e salde o preferiscono abdicare in favore di altri modelli meno liberali?



L'autrice identifica nella figura di Socrate il precedente illustre che ha modellato in maniera umanistica la tradizione educativa occidentale. Detto altrimenti, è l'insegnamento socratico che viene oggi messo in questione dai vari sostenitori dell'educazione al profitto in luogo di quella centrata sullo sviluppo umano delle persone. In effetti, fu Socrate il primo a suggerire di pensare e ragionare autonomamente, senza conformarsi automaticamente alla tradizione e all'autorità. Oggi, però, la “capacità di pensare e argomentare da sé appare a molti superflua, se tutto ciò che vogliamo sono risultati di natura quantificabile in termini commerciali” (p. 65). nemmeno risulta possibile valutare la capacità socratica sulla base di test scolastici standardizzati. Al contrario, la cultura centrata sulla crescita economica “ha una propensione per i test standardizzati e non tollera pedagogia e contenuti che non siano rapidamente valutabili in quel modo” (p. 66). Risulta, infine, che le “persone sono facilmente ingannate dalla fama o dal prestigio dell'oratore, o anche da ciò che la cultura dei pari impone” (p. 68) laddove, invece, l'esame critico socratico è “radicalmente antiautoritario” (p. 68). Ne emerge appieno come il metodo socratico sia “importante per qualsiasi democrazia” (p. 71), in modo particolare per le società “che devono fare i conti con la presenza di persone diverse per etnia, casta e religione” (p. 71). Esso non è un contenuto di apprendere, o da mandare a memoria, ma lo sviluppo di un'abilità dal momento che è “una pratica sociale” (p. 72), un habitus da mandare ad effetto in qualsiasi circostanza di vita. Non a caso, infatti, tale modello educativo è stato incorporato, sia pure con differenze, anche profonde, da caso a caso, in pedagogia, da parte di Rousseau, di Pestalozzi, di Frbel. Si vedeva la possibilità di abituare i bambini ad essere persone pensanti, autonome nel cercare soluzioni ai problemi. Per questo motivo, il modello socratico viene osteggiato ai nostri giorni “perché i bambini sono sempre più indotti ad assorbire conoscenze, sempre più precocemente, spesso perdendo la possibilità di apprendere tramite la serenità del gioco” (pp. 77 – 8). Le società moderne plasmano oramai i bambini sempre più precocemente, facendo più dei consumatori che delle persone. Queste idee, comunque, si sono rivelate feconde nel tempo, giungendo anche a Dewey secondo il quale “i bambini hanno bisogno di imparare a pensare da soli e a relazionarsi all'esterno con curiosità e spirito critico” (pp. 80 – 1). Dewey visse, chiosa Nussbaum, in una fiorente democrazia e poté porre come suo obiettivo principale “la produzione di cittadini attivi, curiosi, critici e reciprocamente rispettosi” (p. 81). Idee simili vennero fatte proprie in India da Tagore. Il confronto con il sistema educativo indiano è fondamentale per la Nussbaum al fine di validare la sua ipotesi di fondo, e dalla quale muove. Infatti, questa digressione “ci ha confermato la vitalità di una certa tradizione che utilizza i valori socratici per produrre un certo tipo di cittadino: attivo, critico, curioso, capace di resistere alla pressione dell'autorità e dei pari” (p. 87). Questo è quel che è stato fatto in passato, però, non “cosa dobbiamo o possiamo fare qui e ora, nelle scuole primarie e secondarie di oggi” (p. 87). Questo è il problema che si profila all'orizzonte: quali opzioni pedagogiche assicurare? Quali opzioni assiologiche mandare ad effetto? Continuare con il buon esempio del passato o cedere alle seducenti lusinghe della logica del “profitto”? È ancora attuale, per dirla altrimenti, il modello scoratico di educazione? Per l'autrice, l'aspirazione “a rendere scoratiche le scuole primarie e secondarie non è utopistica, né richiede doti eccezionali” (p. 91). Al contrario, è “alla portata d qualsiasi comunità che rispetti l'intelligenza dei suoi giovani e le esigenze di una democrazia vitale” (p. 91). Ma non è, purtroppo, quanto sta succedendo oggi, “in tanti paesi Socrate non è mai stato di moda oppure non lo è più da tempo” (p. 91). In India, ad esempio, le scuole pubbliche sono “luoghi deprimenti dove si apprende in modo meccanico e ripetitivo, impermeabile agli insegnamenti di Tagore e dei suoi colleghi socratici” (p. 91). Negli USA la situazione è un po' differente dal momento che è ivi operante l'autorità dell'attivismo di Dewey. Tuttavia, “le cose stanno cambiando rapidamente” (p. 92). Siamo ormai prossimi al collasso del modello socratico, e, con esso, delle attuali democrazie? Per l'autrice, le “democrazie di tutto il mondo stanno sottovalutando, e di conseguenza trascurando, i saperi e le capacità di cui abbiamo disperatamente bisogno per mantenere vitale, rispettosa e responsabile la democrazia stessa” (p. 92).




Il mondo di oggi è certamente più plurale, più pluricentrato, più complesso che in passato. I problemi non sono più limitatamente locali, ma “di portata mondiale” (p. 95), non risultando più possibile risolverli senza una cooperazione transnazionale. Da un lato, l'economia globale lega i destini di “vite lontane” (p. 96), dall'altro lato, però, scuola e università hanno “un compito urgente e prioritario: devono sviluppare negli studenti la capacità di vedere se stessi come membri di una nazione eterogenea (come sono tutte le nazioni contemporanee) e di un mondo ancora più eterogeneo, e di comprendere qualcosa della storia e del carattere dei differenti gruppi che lo abitano” (p. 96). Occorre, cioè, che gli scolari “apprendano il prima possibile a relazionarsi in maniera diversa con gli altri, cioé in una maniera mediata da conoscenze corrette e da una curiosità rispettosa” (p. 97). Bisogna sviluppare una humanitas in forza della quale ciascuno di noi sia capace di comprendere sia le differenze, che rendono difficile la reciprocità, sia gli interessi condivisibili che rendono “la comprensione essenziale, se si vuole arrivare a una soluzione dei problemi comuni” (p. 97). Solo genti capaci di muoversi accortamente sul crinale della differenza e della condivisione potranno vivere rispettosamente nel mondo di oggi. L'obiettivo dell'educazione dev'essere la cittadinanza globale: uomini capaci di scorgere e comprendere sia differenze globali sia interessi comuni. Ma, e questo il problema serio che affligge le democrazie occidentali (ma non solo): la “cittadinanza globale davvero richiede studi umanistici?” (p. 108), laddove qualcuno potrebbe sostenere che sarebbe sufficiente, al contrario, “un'ampia conoscenza fattuale, concreta, che gli studenti potrebbero acquisire senza un'istruzione umanistica” (p. 108). In verità, la cittadinanza democratica richiede molto di più, “la capacità di valutare i dati storici, di utilizzare e pensare criticamente i principi economici, di riconoscere la giustizia sociale, di padroneggiare una lingua straniera, di apprezzare la complessità delle grandi religioni mondiali” (p. 108). Di per sé, infatti, la parte fattuale, pur meritoria in ordine alla conoscenza in generale, è priva di effetti cognitivi e pratici dal momento che “un elenco di fatti, senza la capacità di valutarli, e di capire come una narrazione venga organizzata in base ai dati disponibili, è deleterio quasi quanto l'ignoranza, perché l'allievo non sarà purtroppo in grado di distinguere gli stereotipi più triti, spacciati da leader e ideologici politici come verità, o le affermazioni false da quelle valide” (pp. 108 – 9). Ne emerge, quindi, come la comprensione storica ed economica del mondo “dovrà essere umanistica e critica per risultare utile alla formazione di cittadini del mondo consapevoli, e andrà raggiunta insieme allo studio delle religioni e delle teorie filosofiche della giustizia” (p. 108). Infatti, solo così tale comprensione “costituirà un utile fondamento delle discussioni pubbliche che dovremo affrontare se vorremo cooperare nella soluzione dei grandi problemi dell'umanità” (p. 109).




D'altro canto, si può anche considerare l'intero processo educativo delle giovani generazioni come il progressivo affinamento della competenza di “vedere l'altro non come una cosa, ma come una persona a tutto tondo” (p. 112), il che non è affatto un evento automatico, ma, al contrario, “un traguardo che richiede il superamento di parecchi ostacoli” (p. 112), siano essi individuali siano essi sociali. In altri termini, bisogna educare le persone ad essere persone, ad agire da persone, a pensare, ragionare e vivere da persone. La storia del pensiero pedagogico ha molto riflettuto su questo problema, elaborando nel contempo anche delle strategie e delle metodologie. Winnicott, ad esempio, ha concepito il processo educativo come l'azione del gioco simbolico il quale “insegna alle persone a vivere con gli altri senza controlli; esso collega le esperienze di vulnerabilità e sorpresa alla curiosità e allo stupore, anziché a una paralizzante apprensione” (p. 116). Mediante il gioco, le persone “maturano” nel senso che si aprono all'altro, al confronto con altri, accettano la diversità, la differenza, l'alterità intersoggettiva. Ma “giocare” richiede anche il contemporaneo sviluppo di una facoltà umana del tutto peculiare, ossia la creatività. L'enfasi posta su quest'ultima, è sintomo dell'importanza avvertita dai più di tale facoltà nel processo di sviluppo delle persone umane. Infatti, “l'attività immaginativa di esplorazione di un'altra vita interiore, anche se non è sufficiente da sola, a determinare una sana relazione morale con gli altri, ne è sicuramente un ingrediente necessario” (p. 124); essa, inoltre, possiede “l'antidoto alla paura autoconservativa che è tanto spesso legata alle pulsioni egocentriche di controllo” (p. 124), responsabili in misura rilevante di tutte le tendenze di mancato rispetto degli altri, considerati, a vario titolo, delle minacce, il più delle volte, ovviamente, solo simboliche. La coltivazione della sensibilità, della creatività, dell'immaginazione è così parte integrante del processo di sviluppo delle giovani generazioni, antidoti naturali ai nemici della democrazia. Ciò spinge Nussbaum ad asserire che “anche se il nostro unico obiettivo fosse la pura crescita economica nazionale, dovremmo difendere l'istruzione progressista basata sulle materie umanistiche e sulle arti, mentre oggi […] le materie letterarie e artistiche sono sotto attacco nelle scuole di tutto il mondo” (p. 126). Finanziare un tipo di educazione che incentivi la creatività degli alunni non è affatto costoso, come in genere si pensa e si sostiene pubblicamente, ma è addirittura poco costoso e inoltre si ripaga nel tempo dal momento che “riduce i costi poiché limita l'anomia e la perdita di tempo che in genere accompagnano la mancanza di slancio personale” (p. 133).




La situazione mondiale, però, non è allegra e va in genere in senso contrario a quanto sostenuto e delineato dalla Nussbaum. Dovremmo “raddoppiare il nostro impegno sugli aspetti dell'istruzione che mantengono vitale la democrazia” (p. 135), ma non lo facciamo. Anzi, la tendenza è quella di “tagliare”, di contrarre la spesa nel settore dell'istruzione, ai suoi vari livelli, dalla scuola d'infanzia alla formazione universitaria. Il problema è che se si vedono le materie umanistiche come non essenziali, allora “sembra naturale il loro ridimensionamento e addirittura la soppressione di certi dipartimenti” (p. 137). I tagli, anche quando non comportano la soppressione de facto di un dipartimento, ad esempio, comunque comportano la qualità del servizio erogato. Ma ciò ha un altro effetto proprio sulle materie umanistiche. Infatti, nella “misura in cui le università non conseguono gli obiettivi che io propongo, diventa molto più facile per gli esterni svalutare gli studi umanistici” (p. 137). Così, si sono contratti i finanziamenti, sino ad orientare la stessa ricerca accademica in maniera quasi pressante. Infatti, i “cultori delle materie umanistiche temono, non a torto, che il sistema di richiesta di fondi mirati, se può funzionare per i progetti scientifici, non è opportuno per quelli umanistici e anzi tende ad alterare la vocazione stessa della ricerca” (p. 143).
Ma senza le materie umanistiche, appare “molto carente in qualsiasi paese” (p. 145) l'educazione alla cittadinanza, e paradossalmente proprio a ridosso degli “anni cruciali della vita dei giovani” (p. 145), in genere i primi dodici, perché “le esigenze del mercato globale inducono tutti a considerare le conoscenze tecniche e scientifiche come le competenze chiave, mentre le lettere, la filosofia e l'arte sono sempre più percepite come inutili fronzoli da tagliare per garantire al paese (sia l'India sia gli Stati Uniti) l'auspicabile competitività” (p. 146). In questo modo, queste ultime materie vengono valutate alla stregua delle materie tecniche e scientifiche, ossia tramite “test a risposta multipla” (p. 146) mentre “le competenze critiche e inventive che ne costituiscono il nucleo sono messe da parte” (p. 146). Il caso italiano è, da questa prospettiva, illuminante e tristemente veritativo di quanto asserito dall'autrice. Infatti, stiamo progressivamente passando “da un insegnamento che cercava di promuovere la riflessione e la responsabilità individuali a un indottrinamento forzato ai fini di un buon punteggio al test” (p. 147). La Nussbaum non sostiene affatto che non sia possibile valutare gli apprendimenti per le materia umanistiche, ma solo che un sistema di valutazione buono per queste ultime, a differenza di quello per le materie tecniche e scientifiche, “sarà molto più costoso di quello standardizzato” (p. 148) oltre a richiedere “esaminatori all'altezza e di pagarli bene” (p. 148), cose che, a ben guardare, “nessuno attualmente si sogna nemmeno di ipotizzare” (p. 148).




Eppure, basterebbe fermarsi e compiere un semplice confronto con quei valori ai quali, almeno nominalmente, ci riferiamo in genere. Come sostiene, infatti, l'autrice, “Oggi possiamo ancora dire che ci piacciono la democrazia e la partecipazione politica, e ci piacciono anche la libertà di parola, il rispetto della differenza e della comprensione dell'altro. Formalmente rispettiamo questi valori, ma non pensiamo abbastanza a ciò che dovremmo fare per trasmetterli alla generazione futura e per garantirne la sopravvivenza. Distratti dall'obiettivo del benessere, chiediamo sempre più alle nostre scuole di insegnare cose utili per diventare uomini d'affari piuttosto che cittadini responsabili. Sotto la pressione del taglio dei costi, sfoltiamo proprio quelle parti dello sforzo formativo che sono essenziali per una società sana” (p. 153). La direzione che immediatamente è ipotizzabile se si persegue questo sentiero è nazioni “abitate da persone addestrate tecnicamente che non hanno imparato ad essere critiche nei confronti dell'autorità, gente capace di fare profitti ma priva di fantasia” (p. 153). Certamente, al contrario, le democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di immaginazione, ma sussistono alcuni rischi: “scarsa capacità di ragionamento, provincialismo, fretta, inerzia, egoismo e povertà di spirito” (p. 154). L'istruzione, volta esclusivamente al tornaconto del mercato globale, “esalta queste carenze, producendo un'ottusa grettezza e una docilità […] che minacciano la vita stessa della democrazia, e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale” (p. 154). Detto altrimenti, se “non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno messe accantonate, perché non producono denaro” (p. 154), ma esse servono a qualcosa di ben più prezioso, “a costruire un mondo degno di essere vissuto, con persone che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione” (p. 154).




(immagine tratta da: http://cas.uchicago.edu/workshops/practicalphilosophy/files/2010/06/Martha-Nussbaum.jpg)







Alessandro Pizzo

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mercoledì 27 febbraio 2013

Writings ...

Elenco aggiornato dei prodotti della ricerca ... anche se continuo a non comprendere il senso delle mediane prescelte nella tornata 2012 di abilitazione scientifica nazionale (in realtà, ho solo due quesiti: 1) se si rientra in una delle mediane, si calcola il relativo coefficiente per il numero complessivo di pubblicazioni che vi rientrano e alla fine si fanno delle somme per un punteggio del singolo candidato?; e, 2) vi sarà una graduatoria finale o il numero complessivo di idonei per settore concorsuale è noto in partenza? Insomma, v'è uno sbarramento nel numero complessivo o le singole commissioni sono libere di dichiarare qualcuno idoneo o meno?)



(immagine tratta da: http://t3.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRWgjlbt0EBFMSCwPv6nxHboBvy-zEuojNDMTwY2Z838-r30JxPlg)


Elenco dei prodotti della ricerca

 
 
PIZZO A. (2013). Recensione a: A. Moro, Parlo dunque sono. Diciassette istantanee sul linguaggio, Adelphi, Milano, 2012. APHEX, vol. 7, ISSN: 2036-9972
 
PIZZO A. (2012). Deontic Paradoxes and Moral Theory. Online www.ilmiolibro.it: ilmiolibro.it (SIPeM), p. 1-48, ISBN: 9788891014184
 
PIZZO A. (2012). Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è». DIALEGESTHAI, vol. Anno 14, ISSN: 1128-5478
 
PIZZO A. (2012). Nodi critici dell’informatica giuridica. DIRITTO & DIRITTI, ISSN: 1127-8579
 
PIZZO A. (2012). What Can (not) Deontic Logic Do for Computer Law. DIRITTO & DIRITTI, ISSN: 1127-8579
 
PIZZO A. (2012). Recensione a Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo. DIALEGESTHAI, vol. Anno 14, ISSN: 1128-5478
 
PIZZO A. (2012). La svolta ontologica in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice "è". Elementi eleatici. p. 357-388, VILLASANTA: Casa Editrice Limina Mentis, ISBN/ISSN: 9788895881720
 
PIZZO A. (2012). Il contributo di Georg Henrik von Wright alla filosofia del XX secolo. Frammenti di filosofia contemporanea I. p. 401-426, Casa Editrice Limina Mentis, ISBN/ISSN: 9788895881850



martedì 26 febbraio 2013

Intention poll ...



La cosa bella di un blog senza grillo(i) per la testa è che puoi pensare ad alta voce senza che qualcuno si senta in obbligo di leggerti e/o eventualmente anche di commentarti, è come se ti guardassi allo specchio e cercassi di chiarirti un minimo le idee che ti frullano dentro la testa. 


Sicché quanto segue sono pensieri bislacchi senza tante pretese esposti ad alta voce ...


In realtà, più che pensieri sono riflessioni su questioni che restano immancabilmente aperte ...



Primo. Chi ha vinto le ultime elezioni? Siamo rapidamente passati dallo scenario della vittoria mutilata allo scenario della disfatta dimezzata. Una maggioranza alla Camera, un'altra al Senato. Risultato: provare a mettere assieme qualcosa, andare avanti alcuni mesi, rassicurare i mercati e tornare al voto. Ma non eravamo in crisi economica? E quanto ci costa un'ulteriore consultazione a breve?



Secondo. Un milione circa di schede nulle. Un dato significativo, assai più del voto ai grillini, e per i motivi che seguiranno. Questo è il dato relativo al cosiddetto disgusto per la politica, il cosiddetto voto di protesta: sei insoddisfatto da chi si candida a rappresentarti, non voti nessuno o annulli tu stesso la scheda. Chiaro, no? Ma le ragioni del voto-nonvoto sono molto più complesse di quelle messe in scena in questi lunghissimi mesi, in parte sono sistemici (inutile nascondersi, la Seconda Repubblica non ha mai messo piede e il sistema elettorale italiano è troppo farraginoso per proposte di razionalizzazione delle forze in campo ..) in parte congiunturali. Se lo scenario socio - economico fosse anche solo un minimo più positivo, dubito che un milione di elettori avrebbero buttato così il loro diritto al voto ...




Terzo. Chi o cosa è il M5S? Una quota rilevante dell'elettorato ha scelto Grillo, benché non fosse nemmeno candidato (questo si sa?), e questa tendenza, consolidata dagli ultimi sondaggi, quelli "segreti" dell'ultima ora, è stata prefigurata da quasi tutti i commentatori come un voto di protesta. Ma se protesti contro il sistema politico, contro i partiti, non voti un partito tra gli altri (il M5S è, da questo punto di vista, un partito come altri che partecipa alla competizione elettorale ... si sa questo?), voti scheda bianca o l'annulli. Allora, cosa si aspetta chi ha votato il M5S? Questo francamente è l'elemento a me più incomprensibile dal momento che la piattaforma programmatica del movimento contiene tutto e il contrario di tutto, l'essenziale e il superfluo ... e senza nemmeno alcuna chiarezza in merito al "come" raggiungere determinati obiettivi. V'è poi un ulteriore elemento problematico insisto nella struttura stessa del movimento: non v'è un congresso, non v'è un direttivo, non v'è un segretario, forse v'è un portavoce, gli attivisti discutono tra loro, e votano (come se si fosse su wikipedia ....), on - line ... francamente, non mi sembra una struttura che possa proporsi in chiave di democrazia rappresentativa in quanto la discussione tra "base" e "vertice" prevede tempi troppo lunghi, in un continuo effetto a "collo di bottiglia" ... semplicemente, credo sia un'utopia fallimentare: non è punto possibile sostituire l'attuale democrazia rappresentativa con una sorta di democrazia diretta via web! E questo è un altro effetto deleterio del web 2.0 .... D'altra parte, non è affatto chiaro se con i numeri in loro possesso, vogliano o meno "sporcarsi le mani" con la gestione della cosa pubblica. Non fanno accordi ("inciuci" li chiama il Grillo ... ma non è forse la mediazione l'essenza della democrazia parlamentare? Se non parlamenti, che ci stai a fare?), non interessa loro governare, al massimo l'onere del governo spetta ad altri e loro, per conto proprio, se lo riterranno possibile, voteranno singoli provvedimenti ... come a dire "non ci assumiamo responsabilità di governo, ma criticheremo gli altri se e quando lo faranno". Si tratta, a tutti gli effetti, dell'esercizio indebito di una riserva di senso (e consenso) che temo gli elettori non avevano idea di conferire ad un ... movimento privo di democrazia interna. Peraltro, mi spaventa, e non poco, e certo non solo per gli illustri precedenti storici, il linguaggio adoperato. Espressioni del tipo "ci riprendiamo lo Stato" o "arrendetevi", "uscite con le mani alzate", "siete circondati", e affini, non appartengono al registro democratico, ma a quello autoritario e dispotico, ammantato, in genere, di effetti (ed affetti) plebiscitari. Insomma, Mussolini (e altri con lui) non cominciarono proprio così? Scavando un solco dall'interno tra la pratica rappresentativa e la pratica autorappresentativa ... si tratta di toni inconciliabili con il confronto reciproco e con il rispetto degli altri. Magari, essendo toni risoluti e asciutti potranno piacere agli elettori, resta da valutarne la bontà politica. Insomma, perseguiranno davvero il bene di tutti o resteranno una forza al margine del confronto parlamentare pur restandone l'ago della bilancia? E chi lo ha votato pensava a tutto questo? Si è sentito pienamente rappresentato? O ha votato per "moda"?




Quarto. Qualcuno ieri pomeriggio parlava di vittoria di Silvio ... insomma, parliamo di un soggetto che è sulle scuri dal lontano '94. Ha sì recuperato in questi mesi, ma non può dirsi che abbia vinto. Ha una maggioranza di alcuni seggi al Senato (per via di una perfida legge elettorale, probabilmente concepita ad personam, che assicura il premio di maggioranza alla coalizione che vince singolarmente in alcune regioni, come Lombardia, Campania e Sicilia), ma non alla Camera. Possiamo dire che abbia vinto? Peraltro, ravviso il solito problema di fondo: si tratta di un attore che continua ad avere nelle sue mani il 90% circa dei sistemi informativi del Paese e che è stato su questi stessi mezzi quasi 24 ore su 24 (per recuperare, per sorpassare ...) per un mese intero. Come sarebbero andate le consultazioni in una situazione di parità informativa? E' un problema rimasto insoluto in questi 20 anni e che resterà tale ancora a lungo, a meno che il dominio della manipolazione informativa non sia passato alla rete ... (in tal senso, forse, potrebbe interpretarsi il risultato elettorale del Grillo ...)




Quinto. A dispetto delle attese, e delle intenzioni di voto dichiarate, Bersani non ha vinto. E il discorso è grosso modo lo stesso fatto per Silvio, aggiungendovi però una campagna elettorale, specie nelle ultime due settimane, molto al di sotto delle attese, molto sottotono. O i sondaggi segreti avevano smorzato ogni entusiasmo oppure si sopravvalutavano le speranze proprie. In ogni caso, il PD ha mostrato il limite di sempre: non riuscire a vincere. Anche se non ha perso le elezioni, visto che la maggioranza al Senato è sfuggita per una manciata di seggi, per via della ben nota legge elettorale (il porcellum, la "porcata" così ribattezzata da Calderoli, il suo relatore ...) che non tiene conto delle percentuali di voto nazionali, ma solo della coalizione vincente in singoli regioni, considerate chiave (non so in base a quale specifica ragione ...). Così, si può assistere al paradosso seguente: maggioranza nelle percentuali di voto, minoranza nella ripartizione dei seggi. Quindi, Bersani non ha vinto le elezioni pur non  avendole perse.



Sesto. Che fine ha fatto la Lega? Da forza dirompente della cosiddetta Seconda Repubblica, è diventata una forza qualsiasi dello scacchiere. Probabilmente i colonnelli diranno che è stata tutta colpa di Berlusconi o della magistratura o dei comunisti, ma resta il fatto che la sua consistenza numerica è dimezzata rispetto al 2008 ... forse che il nord si sia stufato della solita minestra riscaldata? Pardon, della solita polenta alla quale però partecipano sia leghisti che pdiellisti? Mah! Chissà ...




Settimo. Come vota l'elettore italiano medio? No, perché la discrasia totale tra le intenzioni di voto espresse prima di entrare al seggio e le dichiarazioni di voto all'uscita dal seggio mi suggerisce le seguenti idee in ordine sparso: a) l'elettore mente, sapendo di mentire, all'intervistatore ("sì, voterò Bersani ..."), falsando i valori del campione; b) l'elettore mente, non sapendo di mentire, all'intervistatore ("sì, voterò Bersani ... o almeno ci proverò"), cambiando idea una volta dentro la cabina elettorale; c) l'intervistatore non ha compreso le intenzioni di voto dell'elettore ("ha detto Bersani? O vota Berlusconi? O ha detto Monti? O diceva Grillo?") e questo rimanda all'intelligibilità del questionario proposto ...; d) l'elettore diceva la sua mentre l'intervistatore pensava ai fatti suoi (è una possibilità, no?); e) le dichiarazioni posteriori dell'elettore erano mancate verità ("ho sì dichiarato prima che avrei votato X, ma ho votato Y, eppure avrei voluto votare X, quindi adesso dico che ho votato X"), non propriamente delle falsità, ma delle dichiarazioni non veritiere. Peccato, però, che su queste, e non sulle reali intenzioni, si debba basare lo statista ... risultato, un flusso di dati e informazioni caotiche che delineavano, man mano che affluivano, scenari diversissimi gli uni dagli altri, pur con due costanze di fondo (il successo delle cinque stalle e l'aumentato astensionismo).




Ottavo. Non vorrei essere nei panni del Presidente della Repubblica. A chi attribuire l'incarico di formare un Governo? Con quale maggioranza? Con quali seggi? Grillo non vuole né mediare né partecipare direttamente a responsabilità di governo. Una posizione di comodo, certo, ma anche di sostanziale irresponsabilità. Insomma: sei o no il primo partito? Allora, vedi di pedalare! Credo, comunque, che adesso cominceranno estenuanti consultazioni al Quirinale, si varerà un governino a tempo determinato, e a breve torneremo al voto. In barba alla UE, in massimo spregio alle difficoltà economiche e con una sostanziale autoassoluzione circa le nostre responsabilità elettorali.




Nono. Come si costruisce il consenso elettorale in Italia? Io direi in maniera del tutto casuale e scriteriata. Ho l'impressione che, in questa tornata più che in altre, si sia votato per aggregazione ("tu voti X? Allora lo voto anch'io e dico anche ai miei di farlo") che è una conseguenza, magari indiretta, della moda ("finalmente un attore politico nuovo, forse non sa nulla di politica, ma lo voto così segno uno smarcamento rispetto alla solita casta!"), senza però ponderare adeguatamente eventuali conseguenze ...




Decimo. Veniamo ora al povero Monti. Crocifisso per mesi come (stranamente) unico responsabile delle difficoltà economiche attraversate dal Paese, ha sostanzialmente perso le elezioni. Sì, si può dire, credo, che se qualcuno ha perso davvero le elezioni è proprio il professore. Eppure, non me la sento di dargli una croce così grande, ha ereditato il Governo da dei cialtroni che hanno tenuto nascosto per mesi i dati reali dell'economia e le comunicazioni comunitarie, ha dovuto metterci la faccia e ne ha pagato lo scotto! Tutti, però, hanno dimenticato che la maggioranza parlamentare che lo ha sorretto in questo anno di governo è stata politica, non tecnica! E questo lo trovo rilevante. Infatti, a dispetto delle impressioni veicolate dai media i provvedimenti varati in questo arco di tempo sono state del tutto politiche, non tecniche. Allora, perché prendersela tanto con lui? Con i suoi colleghi tecnici? E' stato, a seconda dei punti di vista, il capro espiatorio di una classe politica responsabile dello sfascio o l'utile idiota della medesima. Ma Monti ha un impiego a tempo indeterminato, pur bene retribuito, è autonomo dalla contesa politica, il suo destino esistenziale non dipende certo dalle sorti dell'attuale legislatura nascente (ed anche morente precocemente), ha fatto un tentativo, ci ha provato, ha avanzato delle proposte, non sono state ritenute valide, torna a fare quel che faceva in precedenza.



Undici. Ed ultimo. Quale maggioranza parlamentare qualificata eleggerà adesso il nuovo Presidente della Repubblica. Già. Un bel problema. Una grossa grana. Il settennato di Napolitano è agli sgoccioli, ma v'è in Parlamento una maggioranza adeguata che trovi l'accordo su una personalità da collocare al vertice dello Stato? E non mi si parli certo di Fo, con tutto il rispetto! 




Vedremo, vedremo e continueremo a soffrire!



(immagine tratta da: http://www.comune.tradate.va.it/Immagini/Img_Sito/urna%20elettorale.jpg)


venerdì 22 febbraio 2013

Maus


(immagine tratta da: http://www.zverina.com/bestbooks/images/spiegelman-mendelmaus.gif)


"- Posso usare il tuo cucchiaio, Vladek? 

- Certo, ma dov'è il tuo? 

- Mi è caduto, e mentre mi stavo piegando, qualcuno l'ha rubato … ho anche versato quasi tutta la zuppa. Poi l'ho richiesta e m'hanno picchiato … tengo stretta la ciotola e la scarpa casca. Raccolgo la scarpa e mi cadono i pantaloni. Ma che posso fare? Ho solo due mani! Dio mio. Ti prego, Dio … aiutami a trovare uno spago e una scarpa giusta! 

Ma Dio non veniva qui. Eravamo tutti soli"




[...]




"- Ecco, t'ho preso un cucchiaio

- Un cucchiaio! Grazie, Vladek, grazie

- Ed ecco una cintura ... non uno spago ... una cintura vera!

- Oh mio Dio!

- E un'altra cosa: un paio di scarpe di legno della tua misura!

"Gasp"

- Sob. Mio Dio, mio Dio ... è un miracolo, Vladek. Dio mi ha mandato le scarpe tramite te"




(immagine tratta da: http://www.characterent.com/monthly_feature/wp-content/uploads/2011/10/Maus.16.jpg)


(A. Spiegelman, Maus, Einaudi, Torino, 2000, p. 185, p. 190)




Non si può aggiungere altro.

mercoledì 20 febbraio 2013

Tentazioni, narcisismo e idolatria ...

"In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: “Vàttene, satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano"

(Mt 4, 1 - 11)


L'Evangelo parla anche a noi ... quante volte abbiamo risposto con "sì" alle seduzioni, alle tentazioni, alle prove che la vita ci mette davanti ad ogni passo? Quante volte non abbiamo saputo dire di no? Quante volte abbiamo dimenticato il nostro bene?


Tre sono le tentazioni principali ... la tentazione dell'avere .... la tentazione dell'apparire .... la tentazione del potere ... 

... sapremo resistervi? 


Oggi, come ieri, all'uomo si presentano le medesime possibilità, tanto in positivo quanto in negativo, che esercizio riuscirà a compiere della sua libertà?





(immagine tratta da: http://www.sangiuseppemanfredonia.net/galleria/battistero/1tentazioni.jpg)

lunedì 18 febbraio 2013

C'è distanza tra la vita e la scuola?

A sentire certi alunni la scuola non serve a nulla, molti lamentano la sostanziale autoreferenzialità della scuola, la sua incapacità a "preparare" alla vita. 


Lor signori hanno torto, la scuola serve eccome, almeno a non perdere la speranza davanti ad una vita così dura ...

Ripetiamo assieme la seguente canzonetta:

"Perché a scuola ci danno problemi tanto difficili? Spero di diventare presto grande … Ti risponderò con una canzonetta: Anche i grandi a scuola vanno: tutti i giorni di tutto l'anno … é una scuola senza banchi, senza grembiuli coi fiocchi bianchi, ma i problemi complicati, a risolvere son condannati: - Con questo stipendio dovete provare la famiglia a sostentare. Che mal di testa, la lezione: - Studiare come pagar la pigione. Che guaio, infine, il compito in classe: - C'è l'esattore. Pagate le tasse"[*]





Quant'è vera, e dura, questa lezione. Certo meglio i problemi fittizi della scuola, che i problemi reali della vita.




[*] Cfr. G. Rodari, Il libro dei perché, Einaudi, Torino, 2011, p. 107.



(imamgine tratta da: http://www.athenamillennium.it/dtb-immagini/archivio/high/20070409175146.jpg)



Alessandro Pizzo

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sabato 16 febbraio 2013

La crisi economica e la crisi dell'istruzione (pubblica) ...

Sarebbe più opportuno fornire una recensione accurata del testo indicato della Nussbaum, e lo farò in futuro, ma per il momento mi preme approfondire il declino del sistema d'istruzione pubblico, offrendo, nel contempo, alcune riflessioni sul futuro che ci attende una volta che il sistema verrà compresso nelle strettoie economiche e nel, facile, gioco del rimpallo di responsabilità. Adesso, infatti, sembra il turno della tanto nota "crisi economica".


Scrivono Chiesa e Zagrebelsky:

Venuta meno una reale motivazione ad apprendere, le classi appaiono sovente pigre, annoiate, incapaci di riconoscere nell'impegno richiesto o nelle materie di studio un senso compiuto. La scuola non deve occupare tempi e spazi eccessivi della loro vita[1]



Ancora una volta viene avanzata una richiesta esogena nei confronti della scuola, in difesa di un malinteso primato della “vita” sull('inutilità dell)a scuola.
Una tale concezione, relativa alla sostanziale inutilità della scuola non è più oggi una classica lamentela da parte degli alunni, demotivati nel percorso di studi scelto, ma una considerazione generale adesso avvallata anche in sede governativa. Esistono, allora, dei rischi, e seri, per il sistema d'istruzione (pubblica). Secondo Nussbaum:

Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008 […] Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell'istruzione[2]





Parole non profetiche il Nostro Paese, per il quale quello del taglio ai finanziamenti pubblici al settore istruzione, ben al di là di essere una necessità, per di più congiunturale, è una triste realtà che fa parte del sistema pubblico già da molti anni, e prima ancora che la crisi suddetta facesse capolino nell'agenda, pubblica e politica, dei nostri amministratori, ma sicuramente veritiere, anche per noi, per la futura tenuta delle istituzioni democratiche se viene “toccato” il settore (pubblico) dell'istruzione. 


Le democrazie, osserva la Nussbaum, sono sempre più attratte dall'idea del profitto, dell'utile economico. In questo modo,

i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché di cittadini a pieno tutolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie è appeso ad un filo[3]



Da un lato la strettoia imposta dalla crisi economica, dall'altro lato, però, un'idea perniciosa di indirizzamento curriculare delle giovani generazioni verso i settori richiesti dall'economia stessa, con una trasformazione dell'intero comparto istruzione in una sorta di avviamento professionale o di tirocinio lavorativo, con cancellazione di tutti quegli argomenti e tutte quelle discipline tese, piuttosto, a formare le persone, a sviluppare in queste ultime il senso critico, il libero pensiero. Le nazioni stanno, così, tagliando «tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale»[4], sacrificando alle esigenze di una discutibile pianificazione economica futura le materie umanistiche, ma anche gli aspetti, per così dire, creativi e umani delle scienze stesse, appiattendo di colpo l'offerta formativa a un mero tecnicismo professionale, i governi, cioè, «preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo»[5].


Questi cambiamenti educativi, mandati ad effetto dalle nostre classi politiche negli ultimi anni, pur paventando conseguenze, umane, sociali, culturali, psicologiche, pure economiche, non indifferenti, ma radicali, sono passati sostanzialmente sotto silenzio. 


Pur riguardandoci direttamente, o perché vi lavoriamo o perchè ci sta a cuore il futuro dei nostri figli, questi cambiamenti, queste opzioni pubbliche di preferenza politica sul modello d'istruzione da avviare d'ora in avanti, non «li abbiamo discussi»[6], e già stanno limitando, e determinando, «il nostro futuro»[7].






Cosa aggiungere?

Si tratta sicuramente di un testo da leggere, se si desidera comprendere come la cultura umanistica sia davvero importante, al di là delle retoriche di maniera.


Comunque, si fa presto a dire "crisi", più difficile è prevedere come sarà il nostro Paese dopo i tagli, imposti dalla crisi - si dice - ,all'intero sistema istruzione. 


Le decisioni, però, come spesso accade, e in misura maggiore quando si tratta di scuola e università, sono passate sopra le nostre teste, senza che ci coinvolgessero, senza che si aprisse un reale e condiviso dibattito pubblico. Qualcuno ha deciso, e tutti gli altri hanno calato il capo.

Solo che le logiche ragiogneristiche non funzionano quando si tratta di scuola, gli alunni, esattamente come gli operatori che vi lavorano, non sono meri numeri da mettere in ordine, ma destini esistenziali, progetti di vita, persone con nome e cognome, carne ed ossa, precise storie personali ...


(immagine tratta da: http://www.temperamente.it/wp-content/uploads/2011/10/19-No-Profit.jpg)


Note

[1] Cfr. D. Chiesa - C. T. Zagrebelsky, La mia scuola. chi insegna si racconta, Einaudi, Torino, 2005, p. 39.
[2] Cfr. M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 21.
[3] Ivi, pp. 21 – 2.
[4] Ivi, p. 22.
[5] ibidem.
[6] Supra.
[7] Ibidem.



Alessandro Pizzo

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