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giovedì 14 febbraio 2013

Diritti soggettivi vs. costi sociali


Se di norma sono in preda al panico i genitori degli alunni, così detti, “normodotati”, figuriamoci quale possa essere lo stato d'animo di quelli diversamente abili, quali ansie agitino le notti di tutti i componenti del nucleo familiare, quali pensieri passano nelle loro teste, quali sentimenti possa suscitare il contrasto sordo tra le aspettative parentali e la triste realtà.


É specifico compito della società farsi carico dell'educazione dei nostri alunni diversamente abili, per nulla figli di un Dio minore o alunni di serie B! Ci ricorda, infatti, Nussbaum:

Bambini e adulti con menomazioni mentali sono cittadini. Ogni società decente deve dedicarsi ai loro bisogni di cura, di istruzione, di rispetto di sé, di attività e di amicizia[1]




Negli ultimi tempi, però, è in atto un vero e proprio processo di revisione dei diritti soggettivi, innanzi ai dogmi economici imposti dalla crisi degli ultimi anni, un vero e proprio rullo compressore che abbatte idee e valori appena da poco maggiorenni in nome di un bisogno, sempre meno percepito come tale, di contenimento dello spesa pubblica. Il discorso sarebbe, per forza di cose, molto vasto e richiederebbe una competenza che davvero non sento nelle mie corde. Pertanto, mi limiterò a gettare qua e là soltanto alcune riflessioni frammentarie, con la segreta speranza che chi legge, se c'è, possa comprendere quel che davvero intendevo comunicare.
Contenere la spesa pubblica, quando riguarda alunni diversamentre abili, significa de-strutturare l'offerta formativa delle scuole, presentando il tutto elegantemente quale de-statalizzazione dell'istruzione, a tutto vantaggio di offerte formative più piccole e private mirate alle richieste individualizzate delle famiglie.




I teorici della de-statalizzazione dell'istruzione si pongo nelle schiere di quanti, a vario titolo e con varia funzione sociale di partenza, propugnano una revisione della spesa pubblica perché ormai non più sostenibile. Si tratta, a ben guardare, di quegli stessi attori i quali, però, difendono altre prerogative di privati considerandole dei diritti soggettivi. Allora, sorge il problema: i diritti soggettivi, proprio in quanto tali, sono finanziarmente insostenibili oppure il loro costo sociale va comunque garantito? Il problema, così come il paradosso mostrato dai teorici dell'ampliamento del privato, a scapito del pubblico, indice di incoerenza nel procedere di questi difensori della sfera privata, e demolitori della sfera pubblica, non è di poco conto. Da un lato, abbiamo che i diritti soggettivi devono essere gratuiti per quanto riguarda la loro fruizione, anche se per piccole entità di popolazione, dall'altro lato, però, gli stessi hanno un costo che ricade sull'intera popolazione. La Costituzione, ad esempio, attribuisce alla Repubblica, ossia allo Stato, nelle sue declinazioni istituzionali, la scuola, il compito di rimuovere tutti quegli ostacoli materiali, ossia finanziari e sociali, che possano costituire un nocumento al pieno e completo sviluppo delle persone. Ora come va intesa, dunque, la revisione della spesa pubblica quando impedisce tale finalità? Come va inteso il contenimento della spesa pubblica quando di fatto impedisce il godimento (gratuito) di diritti soggettivi? Probabilmente, i teorici del privato, e della sua giustizia commutatitva, ossia tra pari, solo in linea teorica, sono abbagliati dalle moderne teorie politiche neocontrattualiste. Infatti, nota Nussbaum:

Il fallimento nell'occuparsi adeguatamente dei bisogni dei cittadini con menomazioni e disabilità è un grave difetto delle moderne teorie che immaginano i principi politici di base come il risultato di un contratto per il vantaggio reciproco[2]




Ma, e qui sta il problema, per poter stipulare un contratto valido è necessario che i due, o più, contraenti si trovino in una posizione di assoluta parità e nel pieno godimento delle proprie possibilità. É forse così nel caso di soggetti disabili? Ovviamente, no. Allora, quale prototipo di persone libere ed eguali hanno in mente i teorici del privato? Sicuramente, un soggetto del tutto astratto ed idealizzato, per nulla corrispondente alle situazioni concrete, alle varietà esistenziali.



Il problema, piuttosto, è voler approfittare della crisi economica per contrarre i diritti soggettivi di alcuni ed estendere le proprie possibilità lucrative in settori di conseguenza lasciati liberi dal ritiro del pubblico, scuola e sanità in primo luogo. Di conseguenza, non importa loro certo giustificare le premesse del ragionamento o fornire giustificazioni per l'incoerenza mostrata in precedenza. Infatti, quello dell'insostenibilità finanziaria per la promozione di alcuni diritti soggettivi non è un argomento pensato per giustificare il taglio della spesa, ma una mera pezza d'appoggio che impedisca di fatto il libero confronto pubblico, che impedisca la discussione pubblica, tagliando qualsiasi possibilità di replica a quanti, con giusto sentore e cognizione di causa, avrebbero da obiettare a siffatto modo di procedere.



Molte istituzioni pubbliche sono in pericolo, esattamente come molti diritti dei soggetti. Infatti, se viene meno il finanziamento pubblico alla promozione di questi ultimi, chi dovrebbe farsene carico? I privati? La riposta la sanno i venti, figuriamoci i privati con il loro bisogno di utile!


E così i diritti finiscono con il restare soli sulla carta in solenni dichiarazioni, elencati in pomposi elenchi, del tutto abbandonati a sé stessi, emarginati dal comune sentire e dal vivere civile.


E soli restano anche tutti quei soggetti, fasce deboli della popolazione, che nessuno, ma proprio nessuno, ha interesse di sostenere, salvo, magari, parlare di loro, in termini del tutto neutri e distanti, come di persone, con toni compassionevoli, ma senza, nel contempo, prevedere per le loro necessità speciali alcun tipo di tutela o di finanziamento.



Vengono in mente le parole di Chiesa e Zagrebelsky i quali descrivono un modo di sentire quasi comune e secondo il quale:

Imparare a scuola è uno strumento fondamentale per diventare adulti, per raggiungere la formazione del pensiero e la cultura necessarie per entrare in rapporto con i meccanismi complessi della società, per la conquista di quei codici interpretativi che consentono di trovare i nessi tra l'esperienza culturale dell'umanità e i bisogni di identità dei giovani. Fin qui nessuno manifesta dubbi. Meno unanime è la convinzione che imparare a scuola sia per tutti un diritto e non l'opzione esclusiva per chi ha la «testa» e la «voglia». Eppure è una condizione necessaria per non rimanere emarginati[3]



La scuola è un diritto per tutti o una possibilità per pochi? Questa la questione. Ma si badi, non riguarda esclusivamente le persone diversabili, riguarda potenzialmente ciascuno di noi. Infatti, in base a quali standards si può pensare che qualcuno abbia o meno testa per frequentare la scuola? 


E, non per ultimo, a quale funzione sociale ottempera una scuola di tal genere?


(immagine tratta da: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/2/2b/Nussbaum_Martha2.jpg/220px-Nussbaum_Martha2.jpg)


Note

[1] Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 115.
[2] Ivi, p. 116.
[3] Cfr. D. Chiesa – C. T. Zagrebelsky, La mia scuola. Chi insegna si racconta, Einaudi, Torino, 2005, pp. 31 – 2.
Alessandro Pizzo

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