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martedì 30 luglio 2013

Prodotti culturali ...




(immagine tratta da: http://img2.libreriauniversitaria.it/BIT/240/892/9788870188929.jpg)

D. Di Cesare – C. Ocone – S. Regazzoni, Il nuovo realismo è un populismo, Il Melangolo, Genova, 2013, pp. 110, € 12,00

Il volume collettaneo che intendo recensire ha solleticato non poco alcune mie corde umorali, costingendomi a passare repentinamente per stati emotivi del tutto opposti, dallo “sedgno” al “risentimento”, dalla “sorpresa” alla “noia”. In modo particolare, e per i motivi che diverranno chiari in seguito, esso presenta una globale mancanza di argomenti degni di questo nome a sostegno delle idee che vengono addotte e uno stile comunicativo a dir poco aggressivo, più consono, forse, agli sfoghi “da blog” che ad una pubblicazione che desidera quantomeno il riconoscimento all'attendibilità scientifica. Ma lo si può benissimo considerare un segno dei tempi nel senso che è proprio questo grado basso di speculazione e di comunicazione che incontriamo quasi sempre nella nostra vita quotidiana. Pertanto, mettiamo da parte queste considerazione, e concentriamo l'attenzione solamente su quel che di buono penso sia possibile trovarvi, anche se ciò non comporta il dover sospendere (quasi) del tutto la buona coscienza critica.


Il presente volume intende presentarsi come “contro-altare” al Manifesto di Maurizio Ferraris, discutendo il “basso” profilo filosofico scelto ed indicando alcune delle gravi conseguenze, etiche e politiche, che fanno seguito all'appello alla realtà. L'intento è chiaro sin dalle prime pagine ove Di Cesare accusa direttamente Ferraris di essersi creato un brand, ossia un “marchio” (p. 9), di aver inventato di sana pianta, e a tavolino, l'operazione “nuovo realismo” al fine, molto probabilmente, di “emergere nel panorama complessivo e frastalgiato della filosofia contemporanea” (p. 9). Se comprendo il senso generale dell'accusa, del tutto incomprensibile mi risulta invece lo specifico dell'accusa: Ferraris può benissimo essersi inventato qualcosa nota come “nuovo realismo” ma stento a credere che debba ancora emergere al di sopra del dibattito filosofico coevo. Non contenta, la Di Cesare indica subito una caratteristica dell'etichetta scelta dal Ferraris, “un prodotto tutto nostrano” (p. 9), ossia la proprietà italiota della provincialità. Da nessun'altra parte del mondo si parla di new realism, solo da noi. La Di Cesare insinua sapientemente il dubbio: se altrove si parla d'altro, di tutto tranne che di “nuovo realismo”, sarà forse un caso? Non è che, piuttosto, il nuovo realismo è ben poca cosa? Peraltro, il fatto che non si facciano conferenze o non si disponga di monografie sull'argomento non è forse indice di scarsa influenza sul dibattito filosofico? Se così stanno le cose, come spiegarsi proprio tale marginalità alle discussioni tra philosophes? Il Nuovo realismo va “preso sul serio – non come filosofia, bensì come antifilosofia” (p. 13), come uno strumento che avvicina grossolanamente, quanto malamente, il vasto pubblico alla filosofia ma che evita accuratamente di scendere in profondità. Il suo pubblico è fatto di gente che ha “difficoltà con i testi dei filosofi” (p. 13) al quale offre “poche pagine, pochi pensieri” (p. 13) ma anche grandi “certezze” (p. 13). Cosa offre, dunque, Ferraris al grande pubblico, digiuno e allergico all'astrattezza filosofica? Per Di Cesare “a poco prezzo, realtà e verità” (p. 13). Detto altrimenti, non richiede chissà che sforzi e ricompensa con il richiamo a due sole certezze, sempre promesse mai mantenute, si premura di precisare per inciso l'autrice presente. Questo perché il nuovo realista “non dialoga con il pubblico dei suoi lettori, trattati piuttosto come spettatori il cui ruolo è limitato al plauso” (p. 14). in un mondo sempre più “liquido” ed ansiogeno, il nuovo realista, alla stregua di un qualunque altro populista, strappa applausi da un pubblico poco esigente e superficiale cui importano esclusivamente appigli saldi e certezze. Così Ferraris urla a squarciagola “Bentornata realtà!” così che “l'intento populistico è raggiunto, il plauso assicurato” (p. 14). A fronte delle inquietudine che si sommano ed aumentano esponenzialmente, il nuovo realismo “intercetta il bisogno di certezze” (p. 14), e piuttosto di sottoporre a critica le (presunte) verità dell'esperienza personale, difende queste ultime nascondendole di per sé sotto la coltre impenetrabile della realtà di per sé non disponibile ad alcuna discussione e/o analisi. Ferraris impone unoa sostanziale “sudditanza alla realtà” (p. 20), mostrando il suo volto reazionario: non distinguere “tra illusione e immaginazione” (p. 21). D'altra parte, “cerca di inchiodare l'avversario al fatto” (p. 23), “mitizza il reale” (p. 23), facendone un idolo e “dietro questa idolatria si trincera facendone il suo baluardo” (p. 23). negando del tutto qualsiasi possibilità al dialogo, all'interlocuzione, al dibattito, alla discussione, Ferraris “non ha nulla di filosofico” (p. 24). A questo punto, Di Cesare strizza l'occhio agli insoddisfatti dall'operazione di Ferraris, comprendendo “l'imbarazzo, l'insofferenza e il malumore suscitati tra quanti hanno preferito non rispondere, nella speranza e nell'attesa che la fiction volga al termine” (p. 24). Quali sono allora le conseguenze pratiche del nuovo realismo? La risposta è agile e succinta: le sue fantasticherie sviano “dai temi urgenti” (p. 24), “distraggono dalle grandi questioni filoosofiche, etiche, politiche” (p. 24). E tuttavia questa obiezione mi pare facilmente ribaltabile: se il nuovo realismo è tutto ciò ed ha queste conseguenze, non sarebbe meglio non parlarne affatto? Invece, ci troviamo innanzi ad un volume intero il quale, per di più, dovendo condensare molti spunti non consente di svolgere in maniera più piana le stesse idee che intende esprimere.


Il secondo saggio, a firma di Fabio Milazzo, è, credo, l'esempio più sorprendente ed insieme sconcertante del presente volume. Dopo una rapida difesa delle esigenze genealogiche del postmodernismo, così vilipeso dal Manifesto di Ferraris, Milazzo sostiene come il fondatore del nuovo realismo parli lasciandosi sfuggire la concretezza dei temi e degli autori contro i quali polemizza, ora Lyotard ora Foucault. In realtà, infatti, il postmodernismo, che fa da sfondo polemico al Manifesto è una “maschera carnevalesca” (p. 29), “una sorta di bufala” (p. 29), peraltro costruita “a tavolino” (p. 29). Il tono di Milazzo è severo e non parco di giudizi taglienti. Resta da vedere, però, a mio sommesso parere, se proprio quel che si dice del Ferraris non possa dirsi di sé stessi. Non pago, aggiunge come “solo la reificazione del postmoderno in qualcosa di più che una semplice presa di distanza dalle esaltazioni del razionalismo moderno, fa sentire il bisogno di rinnovate e ingenue forme di doxa” (p. 30). Se Ferraris sostituisce al postmodernismo una sua fiction, non potrebbe forse dirsi altrettanto di questi contributi nei confronti stavolta del nuovo realismo? Par si faccia orecchie da mercanti. E qui veniamo ad uno dei riferimenti più sorprendenti e pure sconcertanti. L'appello all'esperienza viene inteso dai presenti autori come un arcaico appello alla scienza (come a vagheggiare un impossibile ritorno alla modernità). In forza di ciò, Milazzo espone la sua concezione di scienza: “accertamento protocollare dei dati di esperienza” (p. 31). Non ho riletto di recente Ferraris, ma non mi pare che questa sia la sua concezione di scienza. Che sia la concezione del Milazzo? Ad ogni buon conto, urge allontanare da sé subito questo pericolo, addebittando proprio questa “strana” concezione al “realismo ingenuo” (p. 31). Ed anche qui colgo dei problemi. Infatti, chi sarebbe tale realista ingenuo? Molto probabilmente, l'autore ha in mente Ferraris, ma l'attributo 'ingenuo' da dove deriva? In fondo, i vari autori del presente volume hanno tutti un elemento in comune: considerare 'ingenuo' il nuovo realismo. E così facendo, a mio sommesso parere, mancano del tutto l'obiettivo che sta a cuore del Ferraris. O, per dirla alla maniera cara ai postmodernisti stessi, tradiscono la verità del Manifesto. E tuttavia giudicare ingenuo il richiamo alla realtà fa buon gioco nel ridurre il realismo al mero riscontro con il reale, chiosando che “ci sono sicuramente fatti, ma ci sono soprattutto le interpretazioni” (p. 31), rigirando cioè a proprio piacimento, e spudoratamente, proprio la fallacia del sapere-potere denunciata dal Ferraris. E adesso, last but not least, Milazzo produce un altro dei riferimenti sorprendenti e pure sconcertanti dal momento che identifica nelle pagine del Manifesto, ossia nella visione propria del Ferraris, “il riconoscimento della verità nella forma unica della teoria della corrispondenza” (p. 31). Si tratta di un riferimento del tutto generico e vago: dire che una conoscenza è vera se, e solo se, procede ad adeguamento di pensiero e di realtà temo sia solamente una conoscenza inadeguata, ossia “per sentito dire”, del canone tomista, ignorando, molto probabilmente, l'intera discussione che ne è stata fatta nel corso del XX secolo. Peraltro, se davvero Ferraris aderisce alla teoria della verità per corrispondenza, penso non possa derivarsene la sua “ingenuità”. Vale a dire che la teoria di per sé non è ingenua. Tutto può dirsi, eccetto che sia ingenua. Allora, perché giudicare ingenuo il realismo se se ne vale? Delle due l'una: o Milazzo ignora la riflessione epistemologica sulle teorie della verità oppure non la padroneggia adeguatamente. Ad ogni buon conto, però, è una grave mancanza che danneggia in maniera permanente il suo discorso, legato proprio al carattere deteriore del new realism, ossia la superficialità che può produrre solo conoscenze ingenue. Sempre Milazzo decostruisce poi l'esempio della ciabbatta, addotto dal Ferraris per spiegare la sua nozione di inemendabilità del reale per ricostruire due dei caratteri che ritiene di poter desumere dalla visione di Ferraris: 1) attenzione per il mondo esterno, indipendentemente dagli schemi conoscitivi del soggetto conoscente; e, 2) la coincidenza tra realismo ed ontologia. Ecco che incontriamo un'altro dei riferimenti sorprendenti e sconcertanti che affollano in maniera imbarazzante questo testo. Si dice succintamente che il realismo di Ferraris equivale ad un'ontologia. Benissimo: quale esattamente? Milazzo non appare in grado di dirlo, propendendo per una sua sola versione, non a caso, però, considerata esemplare della disciplina in generale. L'autore sostiene, così, che l'ontologia consista nel predisporre “un catalogo universale di tutti gli enti esistenti” (p. 32). A parte il fatto che questa è l'idea di lavoro, e non ancora una teoria, dell'ontologia cd. Formale, a sua volta una parte piccola della metafisica cd. analitica, non mi pare che Ferraris sostenga una cosa del genere. D'altra parte, dire 'realtà' non significa affatto repertare gli enti esistenti. Ma, come accade spesso nella lettura del presente volume, gli autori sentono subito l'imbarazzo del riferimento incauto (Ferraris dice questo?) o poco preciso (cosa sarebbe di grazia questa ontologia?) e scaricano sull'idolo polemico ogni responsabilità teoretica. Infatti, Milazzo ci dice subito come questa sia l'idea “di ontologia cara al Manifesto” (p. 32). E perché? Perché l'autore intende ribaltare la distinzione realista tra fatti e intepretazioni, e mostrare come queste ultime, sia pure messe alla porta, rientrino di straforo dalla finestra. Infatti, si distingue, e, quindi, s'include o si esclude, tra enti solo dopo aver proceduto ad interpretare la conoscenza conseguita. Questo basterebbe di per sé a screditare il discorso realista, ma a Milazzo non basta. Pertanto, egli si prodiga nel mostrare come dietro ad ogni nostra conoscenza vi sia un apparato potente di valutazione che partecipa attivamente al medesimo processo conoscitivo. Ragion per cui, dove sta più la conoscenza neutrale? E, di conseguenza, chi può più dire che una cosa siano i fatti ed un'altra le interpretazioni? Ma l'autore non diceva prima che vi sono i fatti e vi sono pure, e in maniera più importante, le interpretazioni? Evidentemente preso dalla vis polemica, deve non essersi accorto della ridondanza espositiva. Più che un ritorno alla realtà, Milazzo propone un ben più originale, e non ingenuo, ritorno a Nietzsche. Così, il mondo non va assunto com'è, ma bisogna indagnarne piuttosto “le condizioni di esistenza, le esigenze inconsce a cui rispondono” (p. 39). Più che di verità cosale, Milazzo ritiene che i fatti siano tali “alla luce di una certa interpretazione prospettica” (p. 39). La ciabatta di Ferraris è solo un'oscena fantasia ingenua, effetto di “un'illusione costituente, di una retroprioezione paradossale, di una ricerca sempre fallita” (p. 40). In soldoni, una follia consistente “nella presunzione che questa immagine dogmatica sia quella della sostanza “ciabatta”, quella naturale” (p. 40). A questo punto, come nel caso precedente, l'autore conclude il suo saggio additando, a suo modesto modo di vedere, le conseguenze pratiche del new realism: “un delirio totalitario che si serve di una pericolosa alleanza, quella tra il senso comune e una presunta natura retta del pensiero” (p. 40). Se così è, per fare cosa? La visione di Milazzo è limpida e netta, quasi pre – moderna verrebbe da aggiungere: “per affermare una certa immagine del pensiero come principio assoluto” (p. 40). Ora che le pagine del Manifesto denotino una certa atmosfera eterea, una prosa rarefatta, un apparato documentario decisamente criptico è sicuramente vero, si tratta di un giudizio che sento di poter sottoscrivere, ma da qui a mettere capo ad una costruzione idealistica credo ce ne corra. Ma Milazzo ha l'urgenza retorica di concludere enfaticamente il suo contributo, equivocando in fondo tra 'evidenza' del reale con 'evidenzialismo', concezione di deciso sapore idealistico ma assente in Ferraris.


Il terzo autore del volume, Laura Cervellione, intende smascherare Ferraris, mostrando come sotto la maschera del neorealista si nasconda il “caro vecchio pragmatista” (p. 41). Anche nel caso presente si verifica lo spiacevole modo di procedere degli autori presenti: fornire un'immagine icastica della filosofia neorealista, e, segnatamente, del Ferraris dopo la Kehre. Così, dovendo condensare in uno slogan efficace, per strappare il plauso del vasto pubblico della filosofia pop, l'autrice definisce il neorealismo “una filosofia Polaroid” (p. 42). Detto in breve, Ferraris mette in scena una filosofia delle istantanee: questo è reale; quest'altro no! La pretesa è commovente, ma stucchevole. Per Cervellione, in sostanza, par di capire che il nuovo realismo sia solamente una filosofia vintage, che ripropone idee e concetti “vecchi”. Si sa, viviamo in tempi di crisi, riutilizzare potrebbe essere vantaggioso. Così, individua ben tre differenti ritorni al passato: 1) “il vecchio corrispondentismo di tomistica memoria” (p. 43); 2) “la riabilitazione dell'esperienza” (p. 43); e, dulcis in fundo, 3) Cartesio, e cartesianesimi di varia natura. Sul primo elemento, penso di aver già detto quanto v'era da dire, anche se la presenza di questo accenno, peraltro già operante in Milazzo, e ritornante in seguito negli altri contributi al volume, mi dà da pensare sulla facilità con la quale, in generale, tutti gli autori collettanei abbiano omologato il richiamo alla realtà, inteso anche come assunzione di responsabilità veridica per i propri pensieri, le proprie esperienze ed anche le proprie enunciazioni, all'adeguazione tomista. In che termini, poi, quest'ultima venga riportata esattamente, non è dato sapere. L'elemento (2), invece, è più interessante perché consente a Cervellione di cogliere una contraddizione in Ferraris: la correzione della percezione ha luogo se, e solo se, “sono inserite in un assetto teorico” (p. 43). Al riguardo, trovo la prospettiva di Ferraris molto debole, e facilmente criticabile. Tuttavia, mi pare del tutto arbitrario porre una tale inserzione, o rimando all'amato modello teorico, in forza della quale, appunto, riesce la confutazione di Ferraris, a causa della contraddizione in cui cadrebbe. Il Manifesto non presenta questo rimando ad un assetto teorico, caro ai postmodernisti, e che rende possibile tanto la decostruzione quanto la costruzione. Veniamo, ora, all'elemento (3), forse, a mio sommesso parere, il meno originale. Possiamo distinguere tra realtà e sogno? Questo si chiedevano gli animi barocchi del '600, e a questi orizzonti pre – moderni, appunto, l'autrice desidera inchiodare Ferraris, reo, a suo dire, di “andare a cercare certezze nelle nostre autoconoscenze” (p. 44), collocando proprio il fondamento saldo di ogni certezza nell'ontologia. Peccato, però, che Cervellione pensi più a ironizzare sul Ferraris che a porre a critica il rimando ontico di Ferraris. Certo per trovare la “realtà” non è certo sufficiente richiamare ad essa né tantomeno darle il “bentornato”. Come dice l'autrice, “a trovarla questa realtà” (p. 45). Se Ferraris non dice nulla, ma proprio nulla, su cosa dovrebbe appunto essere tale realtà, il suo richiamo, esattamente ciò in cui consiste il new realism, si trasforma in una banalità, in un truismo, ossia in un riferimento generico alla nostra comune realtà, senza alcun davvero impegno conoscitivo ulteriore. Peraltro, se così è, l'oggetto del nuovo realismo, la pretesa realtà, sarebbe un “atteggiamento, non realtà” (p. 45). Esattamente come nessuno può negare che la realtà esista, parimenti nessuno può limitarsi a questa semplice, e banale, verità. A questo punto, l'autrice intende rovesciare l'accusa che Ferraris muove al postmodernismo, e secondo la quale il “populismo”, anche quello che attanaglia i nostri destini nazionali, è il degno figlio del postmoderno, addossando infine al Ferraris stesso, in una nota figura dialettica del contraddire – confutare, con rovescio delle posizioni iniziali, la paternità di questo stato, ossia di giustificare appunto il populismo. Peraltro, ritengo sia vero che Ferraris ecceda nei suoi sconfinamenti in terra straniera, per cui, in certa qual misura, credo che Cervellione sia nel giusto quando afferma che il nuovo realismo sovrastimi “la potenza delle attività cerebrali” (p. 51), nel senso che davvero è difficile accettare l'idea che la mente possa produrre realtà e dominare per intero quest'ultima. Eccessi che, comunque, davvero è possibile riscontrare nella confraternita neorealista, che “non mira a capire la realtà, quanto piuttosto a trascinarla davanti al giudizio universale” (p. 52). In fondo, infatti, (auto)benedicendosi con l'adeguazione di cosa e intelletto, mostrarsi come la Ragione “è certamente più facile di dimostrare di avere ragione” (p. 53).


Il saggio di Ocone è, a mio modesto modo di vedere, quello più attrezzato da un punto di vista teorico. Già dall'incipit trova conferma una mia semplice opinione personale sgorgata dalla lettura del Manifesto: e “se il nuovo realismo non fosse altro che l'ultima e più compiuta forma di postmodernismo, o meglio di “pensiero debole”?” (p. 55). Questo è vero, e non negato nemmeno da Ferraris. Il punto, però, è un altro: voler confutare l'intento propositivo dell'autore del Manifesto al fine di far collassare l'intero progetto neorealista. Infatti, se il nuovo realismo è una variante del postmodernismo, con che coraggio si propone come alternativo a quest'ultimo? La stringatezza delle pagine in cui Ocone argomenta al riguardo, però, tradiscono subito l'interesse che suscitano. L'autore passa velocemente alla trattazione della sua idea fondamentale, ossia che Ferraris “manipoli” la storia della filosofia, ovviamente a suo uso e consumo, in maniera da far risultare alla fine vincente il suo “paradigma” (p. 56). Un tal modo di procedere, però, mi lascia perplesso, anche perché capisco le esigenze di spazio, ma un passaggio così brusco può solo far pensare ad un allusione che termina esattamente dove comincia. Ma non è certo possibile pretendere di avere ragione muovendosi solo con allusioni. Interessante, anche per comprendere il rimando all'adeguazione tomista tanto in Milazzo quanto in Cervellione è l'inizio della seconda sezione: “pur negandolo, il pensiero di Ferraris ha molti legami con certa filosofia medievale, in primo luogo con quella di Tommaso d'Aquino” (p. 57). Pur mantenendo salva la mia considerazione al riguardo, Ocone compie un passo in più rispetto ai colleghi collettanei che l'hanno preceduto dal momento che esplicita maggiormente questo richiamo. In che senso Ferraris sarebbe tomista? Nel senso che “ripristina non solo una rigida distinzione fra pensiero ed essere, ma anche e soprattutto quella logica tomistica che concepisce la verità come adaequatio rei et intellectus” (pp. 57 – 8). Tuttavia non posso che osservare come il paradigma, qui chiamato tomista, pur molto questionato in tempi non lontani, continui ad essere considerato come il “più robusto”, e a detta di un autrice, la D'Agostini, certamente estranea al progetto neorealistico. D'altra parte, richiamare alla responsabilità dell'impegno ontologico in nessun caso può venir considerato un ritorno al passato, un invito retrò oppure ancora una curiosità antiquaria e bizzarra. Intanto, però, questo rimando, o, se si preferisce, questa eredità del lessico filosofico occidentale, sembra disturbare parecchio i difensori collettanei del postmodernismo. A parte questo piccolo problema storiografico, comunque, è, a mio modo di vedere, apprezzabile il rilievo critico che Ocone solleva in merito al rimando ontologico di Ferraris. Infatti, “sull'idea che non possa esistere una realtà separata dal pensiero, e viceversa, si può anche essere in disaccordo […] tuttavia, glissare sul fatto che comunque vi sia un problema di pensabilità del presupposto oggettivante […] è veramente, in senso descrittivo e non vlautativo, non filosofico” (p. 59). In merito, Ocone ha pienamente ragione. D'altra parte, la natura non argomentativa del Manifesto non consente di giustificare appieno le proprie presupposizioni e teorie. Non basta rimandare alla realtà, intesa, e vissuta, come separata dal pensiero, bisogna anche porsi il problema di come giustificare la pensabilità della prima da parte della seconda, e proprio a causa della separazione dell'una e dell'altra. Non ponendosi la questione, Ferraris compie un atto non filosofico dal momento che esclude, peraltro arbitrariamente, dalla discussione alcuni elementi portanti del suo edificio speculativo. Ma la mancanza di tale approccio critico è fatale nel voler prendere sul serio l'impresa di Ferraris. Infatti, un realista che non riflette davvero sui limiti della propria azione è un realista solo di facciata, oppure un realista fantastico il quale si accontanta della realtà così com'è, o, meglio, che si diletta di subire la realtà come viene. Sintomo questo di una discutibile maniera in forza della quale Ferraris “piega” la storia della filosofia a suo piacimento. Cosa che rende non credibile la sua critica alle manipolazioni operate dai postmoderni dal momento che “anche quelle dei “nuovo realisti” sono a dir poco spregiudicate” (p. 64).


Lorenzo Magnani è il quinto autore del presente volume. La sua chiarezza espositiva oltre che il suo rigore analitico sono a dir poco apprezzabili. In modo particolare, è degna di nota la scoperta di una fallacia nascosta tra le righe del Manifesto, la cd. fallacia ad Hitlerum. Infatti, i neorealisti dicono “se non si sottoscrive la posizione del realismo ingenuo […], allora vinceranno sempre i Berlusconi, i Bush” (p. 71). Si tratta, a ben guardare, di una retorica “che designa una strategia comunicativa che mira a squalificare qualcosa (in questo caso il postmoderno) comparandolo ad Adolf Hitler (nel nostro caso al populismo e al declino dell'Occidente)” (p. 71). Sebbene, veemente a prima vista, è un'argomentazione in realtà “frolla, astratta e velleitaria” (p. 71). Per Magnani, infatti, la prospettiva neorealista provoca scetticismo dal momento che del tutto pretestuosa appare la polemica con il postmodernismo rispetto al quale, al contrario, tutti noi dovremmo essere grati per aver reso disponibili all'analisi filosofica “molti aspetti della realtà umana” (p. 67). Benché l'autore ritenga comunque sia pur minimamente utile il discorso neorealistico al mulino della filosofia, tuttavia “molti suoi obiettivi sembrano mancati” (p. 77). Anzi, proprio attraverso la querelle postmodernismo – neorealismo “non si intacca minimamente il populismo, e la filosofia rischia veramente alla fin fine di essere caricaturizzata e/o banalmente ostracizzata” (pp. 78 – 9).


Simone Regazzoni è l'ultimo autore del presente volume collettaneo. L'ex sodale del collettivo Blitris, si propone di decostruire il nuovo realismo. I suoi elementi fondamentali sarebbero solamente due: a) il ritorno di “una certa idea di realtà” (p. 83), peraltro nemmeno nuovissima o originale; e, b) la ripresa del paradigma corrispondentista di verità. Elementi “sapientemente incorniciati in una potente operazione mediatica ed editoriale” (p. 83). Sull'elemento (b) faccio presenti le mie perplessità, peraltro già debitamente esposte. Invece, sulla potenza mediatica dell'operazione sento di non poter che concordare: cosa sarebbe stato altrimenti il nuovo realismo? Solo a queste condizioni, può presentarsi come ingenuo, e, quindi, godere dei favori del grosso pubblico. Ma a causa della sua vena profondamente anti-filosofica, esso “è un'ontologia che sogna di cancellarsi come discorso teorico e filosofico per diventare, magicamente, “ciò che c'è”: la realtà stessa, senza discorso” (p. 84). In questo modo, Regazzoni affonda il colpo finale sostenendo che si tratta di un movimento certamente interessante ma non per le tesi che sostitene, quanto, piuttosto, per il “modo in cui è stato sapientemente incorniciato in una potente narrazione mediatica ed editoriale” (p. 85). Un giudizio severo e, sotto molti aspetti, liquidatorio. In effetti il nuovo realismo è anche questo, tra le altre cose. Ma Regazzoni si riserva ancora un'ulteriore stoccata, degna figlia di questo colpo da maestro: “il primo caso di mockumentary filosofico […] che si presenta come una fotografia di un ritorno della realtà che in verità produce” (p. 86). Essendo ben poca cosa, sia da un punto di vista teorico che storico, il nuovo realismo può esistere solo nella misura in cui racconta “un sacco di storie” (p. 88) e il suo mentore si professa “in missione per conto di Dio” (p. 90). Secondo Regazzoni, quel che emerge soprattutto nel new realism è “l'ossessione per la realtà” (p. 89), “una questione di fede” (p. 89), di cui Ferraris si fa carico “per il bene di tutti” (p. 89). Se così stanno le cose, come mai tanta visibilità? Per Regazzoni le cose sono semplici nella loro naturalità: il successo mediatico si deve all'aver sapientemente intercettato un bisogno editoriale. Infatti, in fin dei conti, il nuovo realismo è “una filosofia giornalistica, una filosofia che incorpora il modello critico di un certo giornalismo di inchiesta che evoca in modo ingenuo i fatti e che negli ultimi anni, in Italia, è stato l'unico discorso […] a partire dal cui si è pensato di poter criticare il fenomeno del berlusconismo come discorso menzognero” (p. 92). Non grandi mete né alte vette, ma una misera “filosofia giornalistica cresciuta all'ombra del berlusconismo” (p. 93) del quale Ferraris ha assunto su di sé l'onere, oltre che l'onore, di tradurre filosoficamente l'opera del giornalista Travaglio.


Ammetto che le mie iniziali impressioni si sono evolute nel corso della lettura e via via che il presente lavoro di recensione progredisse. Tuttavia, resto comunque perplesso. Tra le molte obiezioni possibili, solo una resta in piedi in tutta la sua fermezza, oltre che radicalità: se il nuovo realismo è poca cosa, perché spendere così tanto in tempo e risorse per dirlo? 


L'impressione è che, pur disprezzandolo, si avverta il bisogno comunque di porsi alla sua ombra, quantomeno per appagare il medesimo bisogno di visibilità che si denuncia. Non si tratta di mera critica di deprecabili tendenze ipocrite, ma riconoscere il legittimo bisogno di una sponda editoriale, oggi più che mai dato che con la crisi si è deciso di non investire più – non tantissimo, in verità – come si faceva prima sulla cultura. 


Ma si richiedono adesso ben altro impegno e ben altro spessore per dire qualcosa di più importante, anche più del nuovo realismo.

lunedì 29 luglio 2013

Verbosità del filosofo ...


(tratto da: V. Cerami - S. Ziche, Olimpo S.p.a., Einaudi, Torino, 2000, p. 18)

Parla, oh Morfeo, dio del sonno ... con queste parole Giove, per la prima, ma anche l'ultima volta, invita il soporifero dio a parlare, a comunicare agli altri cosa ne pensa della difficile situazione.

Mentre, però, Morfeo è tutto entusiasta di dire la propria, tutti gli altri, invece, cadono in preda ad un sonno tanto irresistibile quanto inaspettato!

Morfeo è in questa geniale parodia tanto il prototipo del "filosofo", il soporifero per eccellenza, e secondo anche la concezione comune, quanto il dio del "sonno".

L'accoppiata finale è vincente: filosofia = sonno!

La morfologia del disegno di Morfeo, un professorino borghesuccio, è calzante: colui il quale ha passato anni e anni sui libri e che quando distilla pensieri pone gravami pesantissimi ed insopportabili sui poveri vicini ...

Quanto è lontano il linguaggio di Morfeo dai comuni mortali!

Quanto sono difficili ed astruse le sue parole!

Però ...

... che dolci sonni inaspettati, e normalmente negati dal tran - tran quotidiano, consente!

Pur essendo vero che normalmente il filosofo pecca di verbosità, di eccessiva linguaggine, tanto linguistica quanto concettuale, la caricatura è forse eccessiva, nonostante, ci scommetto, incontri il favore di non pochi ...

(qui la seconda puntata)

sabato 27 luglio 2013

Logica deontica. FAQ




Cos'è la logica deontica?

Si tratta di una nuova branca nelle ricerche logiche del XX secolo che, ufficialmente, prende le mosse dai lavori di von Wright nel 1951[1].

Come “ufficialmente”?

Notoriamente, si ritiene atto fondativo della logica deontica moderna il saggio Deontic Logic pubblicato nel 1951 sulla rivista Mind. Tuttavia, però, come dimostrato ampiamente dalle ricerche di Knnuttila[2], sono presenti nel corso della storia umana molti precorrimenti o anticipazioni i quali, però, non hanno mai raggiunto la completezza, formale e d'intenti, del progetto di von Wright.

Ma di cosa si occupa esattamente?

Al riguardo, e coerentemente con la sua evoluzione, tanto rapida quanto burrascosa[3], il suo ambito di occupazione è mutato, passando dalle generiche 'norme' alla 'razionalità pratica'. Volendo schematizzare, però, possiamo sintetizzare almeno i seguenti sei significati fondamentali, magari tra loro molto simili, ma con significati reciprocamente eterogenei:

  1. logica delle proposizioni normative[4];
  2. logica delle norme[5];
  3. logica della deontica[6];
  4. logica dei concetti normativi[7];
  5. logica del ragionamento normativo[8];
  6. logica della razionalità pratica[9].

A seconda del significato specifico prescelto, i vari autori hanno posto in modo particolare l'accenso rispettivamente sul formalismo a) delle proposizioni normative; b) delle norme; c) della sfera deontica; d) sulla proprietà formali delle nozioni normative; e) sul formalismo specifico del ragionamento su norme; e, f) sul rapporto tra causalità pratica e conformità a precisi valori.

D'accordo, ma cosa sono le proposizioni normative? E cosa i concetti normativi?

Per le prime, in genere, s'intendono tutte quelle proposizioni ove figurano nozioni normative, come, ad esempio, 'permesso', 'vietato', 'obbligatorio', indifferente', e così via. In breve, tutte quelle espressioni che hanno uno specifico significato normativo, e nettamente in contrasto con quello delle espressioni che descrivono stati di cose. I concetti normativi, poi, sono semplicemente le nozioni aventi significato normativo senza che ciò comporti far riferimento diretto alle propozioni ove compaiono.

E il ragionamento normativo?

Detto in breve, tutti quei ragionamenti che operano su o con proposizioni ove figurano nozioni normative. Questo perché si ritiene che il comportamento logico di questi ultimi non sia riducibile a quello dei ragionamenti con o su proposizioni descrittivi di cose. Per questi ultimi, infatti, non v'è problema a verificare, in termini verofunzionali, le proposizioni oggetto di discussione o ragionamento, cosa che non è possibile fare alla stessa maniera con le proposizioni ove figurino nozioni normative o che possiedano uno spiccato significato normativo. In questo senso, infatti, la logica deontica appare dotata di particolare significato dal momento che, sensu lato, consente di estendere il dominio della logica oltre il reame della verità[10].

Perché le proposizioni normative non sono verofunzionali?

Perché non descrivono uno stato di cose, rispetto al quale ha senso chiedersi se siano vere oppure false, ma prescrivono un certo ordine reale, e rispetto al quale è impossibile chiedersi se siano vere oppure false. In letteratura, si parla appunto di 'Grande Divisione' tra fatti e valori, o anche di 'Legge di Hume', violando la quale si incorre nella 'fallacia naturalistica'. Tanto l'una quanto l'altra sostengono una sola cosa: non è possibile derivare il 'dovere', ossia il 'normativo', dall'essere', ossia il 'descrittivo' (e viceversa, ovviamente)[11].

Questo significa che la sfera pratica è del tutto svincolata dalla razionalità?

Assolutamente no, ma che, da un punto di vista teorico è problematico trovare una fondazione razionale la quale non incorra nella suddetta fallacia, o che operi arbitrarie invasioni di campo, p.e. Dal 'descrittivo' al 'normativo', oppure dal 'prescrittivo' all'essere'. E tuttavia appare prima facie banale osservare come le proposizioni normative funzionino secondo una logica. A rigore, dovrebbero collocarsi in un dominio eterogeneo a quest'ultima, ma ciò non accade né tantomeno possiamo considerarle del tutto 'logiche'. Da qui sorge un problema che Jørgensen chiamò puzzle[12]. Successivamente, il danese Ross chiamò questo problema, in onore del connazionale che per primo lo colse da un punto di vista teorico, 'dilemma di Jørgensen'[13].

Cos'è esattamente il dilemma di Jørgensen?

Si tratta del riconoscimento della difficoltà formale a giustificare la possibilità di inferenze ove figurino proposizioni normative o come premesse o come conclusione[14]. Questo perché essendo non verofunzionali, non pare possibile adoperare la logica, di per sé verofunzionale invece, per dare luogo a inferenze corrette o sensate. In genere, essendo un dilemma, vi sono due tesi reciprocamente esclusive le quali danno, rispettivamente, una versione della logica e una possibilità, positiva o negativa, circa una logica delle norme[15]. Volendo sintetizzare in questa sede, possiamo avere:

i) la logica, essendo verofunzionale, trova applicazione solamente alle proposizioni verofunzionali, e non alle proposizioni normative, ragion per cui è impossibile una logica delle norme;
ii) è possibile una logica delle norme a condizione, però, che la logica estenda il suo

Allora c'è un rapporto tra la logica deontica e il dilemma di Jørgensen?

Concettualmente sì, praticamente no. Infatti, si tratta di una topica afferente alla discussione teorica sulla possibilità, o meno, di una logica deontica[16] mentre nessun legame vero e proprio è possibile scorgere tra la prima e il secondo. Dire che la logica deontica affonda le proprie radici nella cd. Is – Ought Question[17] è banale nel senso che l'intera riflessione morale del XX secolo è stata determinata dalla sistemazione di Poincaré ai rapporti tra scienza e morale[18]. Piuttosto ha senso, invece, affermare che il pensiero pratico è pur sempre pensiero, e come tale dovrebbe rispondere alle medesime “leggi del pensiero”[19], sebbene, ovviamente, ciò appaia complicato e problematico. La presenza di diffusi paradossi deontici, ad esempio, e quello più eclatante, mette seriamente in questione la possibilità stessa di una logica deontica[20].

(continua ...)

Note

[1] G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 60, 1951, p. 1 e sgg. Cfr. G. H. von Wright, An Essay in Modal Logic, North – Holland, Amsterdam, 1951.
[2] Cfr. S. Knuuttila, Logica modale, in AA. VV., La logica nel Medioevo, Jaca book, Milano, 1999, pp. 289 – 308. Cfr. S. Knuuttila, Modalities in Medieval Philosophy, Routledge, London and New York, 1993. Cfr. S. Knuuttila, The Emergence of Deontic Logic in the Fourteenth Century, in R. Hilpinen (eds.), New Studies in Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, pp. 225 – 248. Cfr. S. Knuuttila, The Emergence of the Logic of Will in Medieval Thought, in G. B. Matthews (eds.), Augustine Tradition, University of California Press, New York, 1999, pp. 206 – 221.
[3] Cfr. Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, p. 5: «Il mio itinerario attraverso il labirinto della «logica deontica» dura ormai da più di trent’anni». Cfr. Cfr. J. Hintikka, Deontic Logic and Its Philosophical Morals, in J. Hintikka, Models for Modalities. Selected Essays, Reidel, Dordrecht, 1969, pp. 191 – 2: «The literature of deontic logic offers instructive and amusing examples of such fallacies». Cfr. G. Di Bernardo, La teoria dell’azione come base per la logica deontica, “Informatica e diritto”, 2, 1983, p. 239: «emerge ancora una volta la preoccupazione di von Wright di dare alla logica deontica una solida base, una base cioè che eviti i continui paradossi in cui la logica deontica incorre fin dal suo nascere».
[4] Cfr. A. C. A. Mangiameli, Diritto e Cyberspazio. Appunti di informatica giuridica e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000, p. 128. Cfr. G. Kalinowski, Il significato della logica deontica per la filosofia morale e giuridica, in G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977 p. 282.
[5] Cfr. N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, p. 57.
[6] Cfr. P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992 p. 5.
[7] G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 60, 1951, p. 1. Cfr. A. Ross, Direttive e norme, Comunità, Milano, 1978 p. 209; Cfr. T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989 p. 3: «l’insieme di sistemi formali (di calcoli) che assumono ad oggetto il comportamento logico di concetti normativi quali obbligo, divieto, permesso, facoltà, diritto, pretesa».
[8] Cfr. Y. U. Ryu – R. M. Lee, Defeasible Deontic Reasoning: A Logic Programming Model, in J. J. Ch. Meyer – R. J. Wieringa, Deontic Logic in Computer Science. Normative System Specification, John Wiley and Sons, Chichester, 1993, p. 225: «deontic logic, also called logic of norm or logic of obligation, refers to a study of the normative use of language in which statements of “it is obliged…”, “it is permitted …”, etc. occur».
[9] Cfr. G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983, pp. 5 – 87. Cfr. A. Pizzo, Pensiero pratico e logica deontica: assenza o presenza di razionalità?, “www.filosofia.it”, pp. 1 – 31 (contenuto on – line: http://www.filosofia.it/images/download/essais/07_PensieroPratico_e_logica0deontica.pdf).
[10] Cfr. G. H. von Wright, Logical Studies, Routledge And Kegan Paul, London, 1957, p. vii.
[11] Cfr. G. F. Schueler, Why “oughts” are not Facts (or What the Tortoise and Achilles Taught Mrs. Ganderhoot and Me about Practical Reason), “Mind”, 416, 1995, p. 713: «A great deal of the moral philosophy of the last hundred yaears has been devoted to trying to understand “the relation between ‘is’ and ‘ought’. On the one side, when we are engaged in genuine moral reasoning and debite, we seen to take it for granted that various factual claims support judgments about we ought or ought not to do. We even seem to regard some such judgments as true (and othres as false). On the other side, when we reflect on such judgments, it seems difficult indeed to see how either of these things could be straightforwardly the case, in view of the very great difference between factual and evaluative (or normative) judgments».
[12] Cfr. J. Joergensen, Imperatives and Logic, “Erkentnnis”, 7, 1937 – 8, p. 290.
[13] Cfr. Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 76.
[14]. Cfr. A. Marturano, Il “Dilemma di Jørgense”, Aracne, Roma, 2012, p. 9.
[15] Cfr. Cfr. G. H. von Wright, Deontic Logic: A Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 27: «Mally’s work had few, if any, repercussions in the literature. But in the late 1930s and early 1940s there was a certain amount of discussion whether a logic of norms or of imperatives is at all possible in view of the fact that imperatives – and presumably norms too – lack truth-value. In the debate two Danes took a prominent part. One was Jørgen Jørgensen, after whom the name “Jørgensen’s Dilemma” was coined. The other was Alf Ross, inventor of the famous paradox. Both the dilemma and the paradox are still active topics of current debate».
[16] Cfr. S. Coyle, The Possibility of Deontic Logic, “Ratio Juris”, 15, 2002, pp. 294 - 318.
[17] Cfr. G. Di Bernardo, Is – ought question e logica deontica, in U. Scarpelli (ed.), La logica e il dover essere, “Rivista di filosofia”, 1976, p. 169.
[18] Cfr. A. N. Prior, op. cit., p. 22: «to find a ‘foundation’ for morality that is not itself already moral». Cfr. Cfr. A. G. Conte, Alle origini della deontica…cit., p. 641: «La teoria di Jørgen Jørgensen (1894 – 1969) è nata come critica d’una tesi formulata da Jules - Henri Poincaré (1854 – 1912)». Cfr. S. Cremaschi, L’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64: «Negli anni quaranta iniziò a concentrarsi l’attenzione sulle possibili conseguenze per l’etica degli sviluppi della logica. Una delle linee di ricerca intraprese fu quella dello sviluppo di sistemi di logica formale specifici per il linguaggio deontico, cioè contenente prescrizioni […] una seconda linea partì dalla riscoperta della critica humiana al passaggio is – ought».
[19] Cfr. G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37: «il pensiero pratico è pur sempre pensiero e, come tale, deve soddisfare i requisiti e le leggi della logica. Lo studio del pensiero pratico rappresenta, tuttavia, un notevole ampliamento della tradizionale scienza della logica. Tale studio può valere anche come fondamento di un’antropologia filosofica, che corrisponda al senso profondo della caratterizzazione aristotelica dell’uomo come animale razionale».

[20] Cfr. N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, pp. 13 – 4: «la derivazione nel sistema formalizzato deontico di alcuni paradossi dividono gli studiosi. Il dilemma di Jørgensen, che pone in discussione la legittimità stessa della logica deontica, viene riproposto da studiosi che non sono disposti a tollerare i paradossi nella logica deontica e che non credono alla possibilità razionale della stessa».



(immagine tratta da: http://www.syzetesis.it/immagini/ArticoliRecensioni2009/deontic-hexagon.jpg)

mercoledì 24 luglio 2013

La difficile arte della mercatura ...



(immagine tratta da: http://img2.libreriauniversitaria.it/BIT/240/892/9788870188929.jpg)

Davvero può dirsi come sia asfittico il dibattito filosofico italiano, stretto tra il territorio di periferia entro il quale giocoforza si trova a doversi muoversi e la reale assenza di contenuti "forti" attorno ai quali allestire conferenze e/o dibattiti genuini.

Ho detto forse "reale"? Mia colpa: da secoli nessuno più, o quasi, si permette di adoperare tale vetusto termine ... che importanza ha il reale quando abbiamo l'interpretazione? In fin dei conti, conta più come interpretiamo il mondo di come quest'ultimo sia.

Il mondo è una sorta di "realismo interno", ossia una narrazione bella e buona ...

Recentemente Ferraris ne parla criticamente nei termini di un realitysmo, una finzione che si sostituisce alla realtà.

Parere condivisibile, pur con alcuni distinguo.

Ma ecco il fuoco di sbarramento: la via del nuovo (ritorno all'antico) realismo è impraticabile!

E se sfogli il volume di Di Cesare, Ocone e Regazzoni in cerca di argomenti resti deluso.

Il new realism viene rifiutato non per la bontà o meno sua propria, ma per la natura "strumentale" dell'operazione imbastita da Ferraris: agire sulle insicurezze della gente per fornire nuove certezze (e prenderne il plauso).

Pertanto, si sentenzia, dal momento che Ferraris non pone in essere alcun reale dibattito filosofico né tantomeno argomenta in maniera filosofica, che prendiamo a fare sul serio la sua topica? La sua invenzione? Il suo brand? Il marchio con il quale cerca di trarre profitto? Peraltro, senza alcuna etica?

Volpone d'un Ferraris, verrebbe da dire! Ma gli autori collettanei serrano le loro fila per "distrarre" dallo scomodo invito all'inemendabile di Ferraris, dicendo tra di loro quant'è bello il caro disincanto e com'è commovente produrre sensibili effetti di realtà tramite il linguaggio ...

Lacan, e non più Lacan!

Foucault, venerando e terribile!

Deleuze, simulacro di simulacri!

Freud, divino e decostruttivo!

Ma viene decisamente voglia di chiudere in fretta il volume, d'interrompere la lettura, non per l'inquietudine che ti provoca, ma perché si registra l'assenza di reali argomentazioni filosofiche. 


Si dice solo che Ferraris vende bene e questo è male. Nient'altro! 


Per quale motivo il decostruzionismo dovrebbe essere migliore del Nuovo realismo? Nessuna tesi, nessun argomento.

Figli del loro tempo, i collettanei non han bisogno di reggersi su ragioni, perché mai dare e rendere conto? La nostra conoscenza è il frutto ineluttabile del tempo presente, che senso avrebbe tirarsi fuori dalla storia?

Ecco così l'elogio stucchevole della critica, della decostruzione, della costruzione di realtà, degli effetti ontologici del desiderio, degli inganni veridici dell'inconscio, lo smaccato gusto per la provocazione quasi sino all'insulto personale.

Ed allora, sconsolato, ma disincantato, ti chiedi infine: cosa distingue pertanto i collettanei dal loro idolo polemico, il Ferraris? Non lo sdegno, non il risentimento, non l'afflizione, non l'ermeneutica, solo il "potere", lo stesso che logora quanti lo possiedono e quanti non lo possiedono. Ma se il "nuovo realismo" è un'operazione di marketing filosofico per quale motivo non dovrebbe esserlo anche il contra il nuovo realismo? In fin dei conti, non è in discussione la deriva populistica della filosofia, via la superficialità dell'operazione Ferraris, a parole posta a "manifesto" del pamphlet, ma il voler mettersi lungo la medesima scia, e godere indirettamente dei medesimi profitti!

I miei cari collettanei anelano al riconoscimento, ai meriti, ai guadagni, al profitto di Ferraris e per farlo sentono decisamente il bisogno di prendere posizione "contro" al fine di vivere un po' di luce riflessa ...


O forse no?

Sogno o son desto?

Sveglio o svengo?

Più non so e più non importa ...

Chiudo il libro, spalanco la finestra e mi butto giù.


Volo.


No? E chi può dirlo? Voi, oh collettanei?

martedì 23 luglio 2013

Marta, Marta, Marta ...


(immagine tratta da: http://www.teverenotizie.it/upload/Articolo/1214/yytttttt_thumbSMOAUTO_366X0.jpg)



"Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti. Ma Gesù le rispose: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta"

(Lc 10,38-42)

Marta, Marta, perché ti affanni? Di cosa ti preoccupi? Perché ti agiti?



lunedì 22 luglio 2013

Il matrimonio omosessuale è un diritto? FAQ

Il matrimonio omosessuale è un diritto? FAQ


(immagine tratta da: http://ioamolitalia.it/public/immagini/_resized/matrimonio-omosseuale_530X0_90.png)

Sollecitato in tal senso, offro una versione più "divulgativa" del precedente post (http://alessandropizzo.blogspot.it/2013/06/il-matrimonio-e-un-diritto.html). Spero sia apprezzato almeno tanto quanto lo è stato il precedente.

FAQ

Come mai per i "matrimoni gay" non può parlarsi di "diritto" rispetto ai soggetti che vorrebbero contrarlo?

L'unione tra due persone eterosessuali, libere e in possesso della capacità giuridica (18 anni), è inquadrata, dal Codice Civile come un negozio giuridico, in forza del quale un uomo e una donna dichiarano di volersi prendere rispettivamente come marito e moglie, e come un rapporto dal quale discendono conseguenze di natura e personale e patrimoniale. Questa è la famiglia, rigidamente eterosessuale.

Cos'è dunque la famiglia?

La famiglia è quindi l'effetto del matrimonio eterosessuale, ossia tra due persone di sesso differente, le quali contraggono unione agli occhi della legge, impegnandosi reciprocamente e conseguendo da tale unione precisi effetti civili, ossia patrimoniali.

Chi sono i coniugi?

Il Codice Civile declina in concreto l'inquadramento che della materia offre la Carta Costituzionale la quale (art. 29) parla nei termini di una società naturale fondata sul matrimonio e sulla parità, morale e giuridica, dei coniugi.
Nello stesso Codice peraltro si parla sempre di "marito" e di "moglie" ad indicazione del ruolo sociale attribuito ai singoli in quanto rispettive espressioni di due sessi differenti.
Ma il matrimonio è un diritto? 

Se lo è, sorgono dei dubbi, più o meno legittimi, sull'esclusione di alcuni soggetti dal poterlo liberamente contrarre. Ma il matrimonio eterosessuale tutto è fuorché un diritto nel senso che i soggetti interessati, un uomo e una donna, possono liberamente contrarlo ma non viene affatto loro garantita la relativa fruizione. 

E come mai due persone dello stesso sesso non potrebbero "sposarsi"?

Il nostro Codice Civile, in esecuzione del dettato costituzionale, stabilisce come i due contraenti il matrimonio assumano nuovi stati personali, di marito, nel caso del contraente uomo, e di moglie, nel caso del contraente donna. Ammesso, e non concessa, la possibilità di matrimoni per esponenti dello stesso sesso, sorge il problema dei relativi stati personali addotti dai due soggetti dello stesso sesso uniti in matrimonio.

Ma se lo vogliono, negarlo non è la violazione di un diritto?

V'è, nella cultura moderna, un perdurante e imbarazzante equivoco il quale porta a pensare che qualsiasi desiderio personale, o, se si preferisce, capriccio, sia un diritto, ossia una pretesa personale legittima, e, quindi, meritevole di tutela: da promuoversi da parte della propria collettività di appartenenza. Il Codice Civile non qualifica la fattispecie del "matrimonio" nei termini di un diritto soggettivo, ossia di una pretesa legittima da promuovere, ma di un contratto stipulato liberamente tra due parti.

Se è equivoca la nozione comune di diritto, come mai la questione dei matrimoni omosessuali è irta di equivoci?

Ritengo come nel caso presente l'equivoco sia doppio: 1) si equivoca sul significato, in termini di diritti, della parola 'matrimonio'; e, 2) s'intende il matrimonio tutta quella serie di effetti giuridici e patrimoniali che il matrimonio come rapporto comporta. In realtà, infatti, è l'esclusione da questi effetti per le coppie dello stesso sesso che provoca reazione e, in alcuni casi, porta a parlare di discriminazione o di violazione di diritti dei soggetti. Ma è concettualmente infondato parlare del matrimonio omosessuale nei termini di un diritto: non lo è per le coppie eterosessuali, perché dovrebbe esserlo per quelle dello stesso sesso?

Allora perché gli omosessuali vi insistono?

In genere, essi argomentano più o meno nella maniera seguente:

Se i diritti non discendono dal tipo di coito che viene realizzato liberamente da due persone di diverso sesso, perché negare gli stessi diritti a due persone dello stesso sesso le quali liberamente decidono di dedicarsi al coito?

Esaminiamo questa argomentazione.

Essa presenta due possibilità diverse in equilibrio simmetrico: il coito eterosessuale e il coito omosessuale. In forza di questa simmetria, vieta qualsiasi differenza per relativi trattamenti giuridici pena la discriminazione degli uni come degli altri. Ma siccome nel primo caso sono garantiti dei diritti, in genere di natura patrimoniale tra i coniugi, e nel secondo caso no, ecco che scatta il meccanismo della rivalsa: siamo in presenza di una discriminazione in quanto ad alcuni vengono negati gli stessi diritti.

L'argomentazione è però erronea perché si contraddice dal momento che finisce con il legare il godimento di determinati diritti alla pratica del coito piuttosto che legarli alla personalità di chi la pratica. Se presa sul serio, allora, tale argomentazione finisce con lo spostare la titolarità del diritto in quanto tale dall'essere una persona al praticare una determinata azione. Fatto questo, dato che il desiderio soggettivo viene equiparato ad un 'diritto', si sostiene come nessuno possa impedirlo.

Dunque, sarebbe un diritto?

Se davvero il matrimonio è un diritto questo non discende dal fatto che un uomo e una donna pratichino il coito, ma dal fatto che decidono liberamente di unirsi nel rapporto giuridico del matrimonio. Il coito, per dirla altrimenti, è secondario rispetto alla liceità della contrazione di matrimonio. Peraltro, gli effetti personali e patrimoniali, cruccio delle coppie omosessuali, non derivano dal tipo di coito che viene praticato, etero o omo, ma dal matrimonio come rapporto (tra due persone di sesso differente). Questo perché non ha senso far discendere una conseguenza giuridica, peraltro delicatissima come un diritto soggettivo, non dall'essere una persona, ossia dalla nascita, ma dal momento in cui la stessa sceglie di praticare il coito in una certa maniera.

Nel voler giustificare la pretesa del matrimonio omosessuale si finisce con il rovesciare il fondamento antropologico del diritto, spostando il soggetto del diritto dalla naturalità della persona in quanto tale, alla secondarietà della persona che, ad un certo punto, sceglie di vivere in un certo modo e, conseguentemente, produce determinate pratiche materiali.

In conclusione?

Il matrimonio non è un diritto e non può essere invocato come tale dalle coppie dello stesso sesso. Il non prevederne la possibilità non è, per logica conseguenza, una discriminazione: non sussistendo in caso contrario un diritto, quanti vengono esclusi non possono in alcun modo sentirsi privati di una possibilità positiva. Piuttosto, dal momento che in ogni caso bisogna parlare dei diritti delle persone è pensabile ad un miglioramento del trattamento patrimoniale dei soggetti costituenti delle coppie omosessuali. Questo è fattibile, ma senza mettere mano al diritto di famiglia. Peraltro, se il reale desiderio delle coppie omosessuali è godere di maggiori diritti, che senso potrebbe avere forzare l'istituto del matrimonio secondo i propri desiderata?
Non sarebbe più facile praticare questa via anziché scegliere di "scimmiottare" il matrimonio eterosessuale?




martedì 16 luglio 2013

La scuola di pochi ...

"le stesse forme di sapere e di pensiero tradizionalmente coltivate nei sistemi scolastici e formativi generano nuove forme di disparità, nuove barriere cognitive e comunicative che ostacolano la costruzione attiva e critica della conoscenza"

(R. Buono, Conoscenza e inclusione formativa, ESA, Pescara, 2010, p. 47)

La scuola divide.

Anche i suoi utenti.

Alcuni innalza, altri abbassa.

Sempre arbitrariamente.

Violentemente, anche.

Ma le moderne patologie che affollano la vita comune trovano un singolare risalto a scuola: incomunicabilità; barriere di varia natura; nuove disparità; e così via.

Se il contesto appare irrimediabilmente questo, come comportarsi di conseguenza? Quali azioni mettere in pratica, perlomeno per "salvarsi"? Quantomeno per apparire almeno un poco "decenti"?

La scuola di "tutti" diventa sempre più la scuola di "pochi", e non per forza di cosa anche "buoni" (la mia esperienza personale parla da sola ...).

E il mio lavoro, in passato il lavoro "per tutti", diventa sempre più l'avvilente e squalificante lavoro per "pochi", con una gamma schizofrenica di variazioni sul tema che passano dal "docente tutto-fare" al docente "usciere", passando ovviamente per il docente "secondino".

Che fine ha fatto la nostra speranza? che fine hanno fatto i nostri sogni quando pensavamo di esercitare in futuro proprio questa professione? E se si appiattiamo allo squallore del quotidiano, di una realtà già di per sé disperata, che merito ne avremo? In cosa saremo i cosiddetti "promotori di speranza"?

Ad internet, spero non equivalga al generico "nulla", affido questi miei pensieri "ad alta voce" ...


(immagine tratta da: http://www.ceisroma.it/upgrade/wp-content/uploads/2012/05/docenti.jpg)