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venerdì 8 febbraio 2013

Scuola, il disagio a più livelli nel tempo postmoderno ...


Scriveva Collodi nel 1881:



E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola o a sentire i pifferi. - Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c'è sempre tempo – disse finalmente quel monello facendo una spallucciata[1]


La storia della letteratura per l'infanzia ha mostrato da subito la profonda distanza tra il reale interesse delle giovani generazioni e la concreta modalità della didattica istituzionale. 

Da qui il sostanziale rifiuto della conoscenza formale per la vivacità delle concrete esperienze della vita. Ce lo ribadisce Collodi: a cosa serve una scuola che non prenda sul serio i bisogni formativi di generazioni tecnologicamente avanzate?


Ovviamente, il riferimento a un romanzo per l'infanzia, così attardato sulle difficoltà del Paese al termine del XIX secolo, è volutamente provocatorio, al fine di far risaltare l'estrema difficoltà della nostra scuola nell'intercettare l'interesse degli studenti facendone il volano della loro realizzazione personale. 


E questo di certo a smascheramento della facilità con la quale oggi si etichetta la nostra società con termini equivoci quali “società dell'informazione” oppure “società della conoscenza”. Ma di quale informazione si tratta? Di quale conoscenza si parla? L'impressione finale è che l'una e l'altra siano solamente povere espressione di contenuti limitati alla mera fruizione di esperienze concrete. E tuttavia l'esperienza di per sé non è educativa, non possiede in alcun modo nessuna valenza formativa. La didattica, ad esempio, è l'esatto contrario: alla mera casualità dei processi che costruiscono un'esperienza, singola o partecipata, s'instaura una rigida causalità nella costruzione dell'esperienza, singola o condivisa, che, per l'appunto, esclude qualsiasi casualità. 


Una cosa è il mondo, che meramente accade, e un'altra cosa, di per sé diversissima, è la scuola, pedagogicamente costruita, pensata e, talvolta, anche mandata ad effetto, pur tra mille difficoltà.


Lo scarto, comunque, tra mondo e scuola, tra esperienza e formazione, tra tecnologia e istruzione resta inalterato, con l'aggiunta, se si preferisce dell'impossibilità per la seconda di inseguire, di qualificarsi quale concorrente accreditato nella rincorsa del consenso dei possibili utenti finali. Da qui l'esigenza di pensare in maniera diversa lo scarto, la differenza, le ragioni di una sconfitta in partenza, e di vedere così il mondo non più come un nemico ma come un possibile alleato, la tecnologia non come una concorrente, ma un utile strumento, l'esperienza non un nemico della conoscenza, ma un suo valido socio nella costruzione formativa dei soggetti.



A differenza delle fiabe, ad esempio, il romanzo citato possiede un'indubbia autocoscienza storica e sociale propria, mettendo in luce, in maniera esplicita, la natura reale della società che descrive, quella “fiorentina”. Le fiabe, al contrario, svolgono la loro funzione educativa solo per via analogica, dicendo e non dicendo. Come afferma in merito Bettelheim:

Il bambino non è cosciente dei propri processi interiori, ed è per questo che essi sono esteriorizzati nella fiaba e simbolicamente rappresentati da eroi che stanno ad indicare lotte interne ed esterne[2]



La scrittura della fiaba rimanda ad un insieme di contenuti simbolici che sono il portato di intere generazioni, rielaborato nel corso dei secoli e trasfigurato in meri simboli apparentemente collocati in un mondo non reale, o, se si preferisce, più reale del mondo attuale. In quanto codici simbolici le fiabe interpellano direttamente i bambini i quali ne traggono informazioni preziose alle loro “mute” angosce esistenziali.



Una data scuola storica ha anche cercato di scavare nel mito espresso dalle fiabe alla ricerca di verità storiche o in funzione storica. In merito, però, ci avverte Propp, autore della fondamentale Morfologia della fiaba, come

Riportare il racconto alla realtà storica senza tener conto delle peculiarità della fiaba in quanto tale conduce così a conclusioni false[3]








La fiaba ci reca immagini, simboli, interpretazioni possibili della realtà, ma in caratteri sempre trasfigurati, diversamente il romanzo ci narra, in maniera più o meno realistica, come va il mondo.


Ultimamente ci sono state propinate molte fiabe sulla scuola, è forse giunto il momento di prendere sul serio i nostri alunni. 


Quando diciamo “sul serio” intendiamo dire che dobbiamo tornare a conoscere gli alunni che abbiamo davanti, ad essere edotti sui loro interessi, sui loro contesti familiari, sulle loro necessità, sui loro bisogni formativi, sulle loro eventuali difficoltà, e così via. Se non si fa questo, infatti, che scuola credibile si vuole realizzare? Ancora quella  dell'Abbecedario di Pinocchio?



L'intenzionalità di conoscere, magari a fondo, la natura dei nostri alunni potrebbe condurci a leggere con un occhio diverso le varie narrazioni “realistiche” intorno agli utenti del sistema d'istruzione e alle criticità di quest'ultimo nel mandare ad effetto la propria funzione al crocevia di investimenti emotivi, provenienti dalla società civile, di natura eterogenea rispetto alla funzione specifica e al progressivo de-finanziamento del sistema stesso. Frequentare la scuola non è, o magari non dovrebbe mai essere, una mera delega educativa, come se le famiglie alienassero a totale favore della scuola la funzione educativa dei propri figli. 


Si dovrebbe parlare, piuttosto, di compartecipazione, sia pure a livelli e funzioni differenti, al medesima progetto educativo. Invece, sempre più le famiglie risultano assenti, dileguano da qualsiasi incontro di verifica e/o di comunicazione da parte della scuola, sia nella normale prassi sia nelle eventuali convocazioni in vista di problemi rilevanti. Come dicono Chiesa e Zagrebelsky:

Quanto pesa la famiglia sul fare scuola oggi? Molto, secondo gli insegnanti. E per lo più negativamente. Famiglie distratte, lassiste, protettive. Famiglie che hanno rinunciato al loro ruolo educativo nei confronti dei figli. O che si sono ridotte a semplice fonte di sostentamento, trasformandosi, nel caso peggiore, «in un bancomat domestico: il primo cellulare, il secondo cellulare, il motorino, la moto, l'automobile, la festa di compleanno (tipo banchetto nuziale), il vestito firmato, il gioiello firmato ...»[4]




Le famiglie risultano assenti nel senso che pur essendoci, ed essendo travagliate da moltissimi problemi, sconosciuti sino a poco tempo fa, non possono sprecare del tempo dietro alle sollecitazioni da parte della scuola. Sono ben altre le loro legittime occupazioni, e preoccupazioni. Che la scuola faccia la scuola, finalmente! Questo è, in genere, lo sfogo di genitori esasperati, come se la scuola non facesse, a loro modesto modo di vedere, la scuola …


 Aggiungono in merito ancora Chiesa e Zagrebelsky:

é indubbio che la latitanza delle famiglie nei confronti della scuola dipenda in parte da una modificazione avvenuta nelle famiglie stesse. Quella che è stata di recente definita la famiglia «postmoderna» è fatta di adulti disorientati, che hanno smarrito «il senso della storia […] e che non hanno elaborato visioni per il futuro»[5]






Le famiglie non sono parti estranee al travaglio che, a a livello molto più generale, attraversa la società civile: come quest'ultima, anche la famiglia ha smarrito il suo senso, divenendo disincantata, cinica ma priva di speranza per il futuro, di colpo incapace di pensarsi proiettata verso il domani, priva di speranza. Famiglie disastrate, allargate, che si rompono e che si ri – formano con nuovi attori, con figure genitoriali labili e transitorie, con mille occupazioni e pensieri diversissimi da quelli scolastici. 


Cosa potrebbero, dunque, fare i nostri alunni in situazioni simili? In questo modo, infatti,

Alla scuola viene così data, più o meno consapevolmente, una delega all'educazione (se non, addirittura, alla «buona educazione»). Ed è paradossalmente su questo fronte, più ancora che su quello dell'istruzione, che le famiglie nutrono nei confronti della scuola le maggiori aspettative. Così come sembrano preoccuparsi in misura considerevole del fatto che i propri figli «stiano bene a scuola», e, per contro, reputano marginale che gli stessi ricevano un'istruzione complessivamente accurata e di buon livello[6]

  


Così si vive tutti assieme, come capita, come branchi allo stato brado ...



Il senso stesso della didattica, però, consiste piuttosto nel non lasciare la crescita, umana e personale, degli alunni al mero caso, esattamente come potrebbe accadere se li si lasciasse soli a casa, liberi di passare casualmente dai disegni da colorare alla televisione al computer al tappeto … 


Ha ragione Paola Mastrocola quando asserisce che la scuola «non sta più nelle nostre vite»[7].



Il tempo non basta più per vivere, figuriamoci se ci si può concedere il lusso di perderne un poco per la scuola.



L’educazione delle giovani generazioni è un compito difficile cui la scuola in primo luogo, e la società in secondo luogo, non può abdicare, lasciare le giovani generazioni in una sorta di anarchismo pedagogico è quanto di più dannoso si possa commettere.


Tuttavia, è indubbio anche come proprio l’avere a che fare con generazioni siffatte ponga questioni nuove alla stessa progettazione educativa, alla stessa didattica. Oggi il docente è chiamato ad essere un buon progettista, profondo conoscitore della realtà dei propri alunni ed esperto utilizzatore degli stessi strumenti dei propri alunni.  


Ma in che tempi viviamo? Sono appena passati i giorni della globalizzazione, che ha calamitato l’interesse e i timori per un buon decennio, viviamo adesso nel buio del postmoderno, in un’epoca connotata in senso negativo e rispetto alla quale sembrano non trasparire molti elementi rassicuranti circa il futuro e dove le generazioni umane, dalle più piccole alle più anziane, «devono combattere per qualcosa, e questo si chiama «insicurezza»»[8]. 


Viviamo, cioè, in un'epoca nella quale la costanza è diventata la transizione, e all'interno della quale non ha più alcun senso porsi in un'ottica obiettiva, non si vede più l'inizio né il termine dei processi sociali, tutto diventa instabile, permanentemente privo di una forma stabile, l'innovazione stessa è soggetta a repentina obsolescenza. E i nostri giovani sono i primi a farne le spese, i primi a doverne pagare il conto, i primi a rischiare l'esclusione sociale. Aggiunge, infatti, Bauman:

Per la prima volta i giovani si confrontano oggi con i limiti dei loro sogni. Ancora fino a dieci anni fa venivano pubblicati libri, nel mondo occidentale, su come i giovani volessero tutto e lo inseguissero: questa era l'idea predominante. È vero, forse oggi i giovani sono ancora abituati a volere tutto, ma il problema è che non sanno dove andarlo a cercare. Iniziano a sospettare che questa rincorsa non sia poi così conveniente, poiché pensano che desideri e sogni siano fuori dalla loro portata[9]




Così smaliziati e così disincantati, i giovani sono meno alienati di quanto non sembri, o non si voglia pensare, dal contesto sociale entro il quale vivono e del quale “consumano” le medesime trame culturali. D'altra parte, siamo tutti esseri simbolici nel senso che viviamo condividendo gli stessi spazi, le medesime risorse, le stesse potenzialità con altri. Siamo, in fondo, parti di medesime cornici. 



Se la società di appartenenza è tanto postmoderna, perché mai non dovrebbero esserlo anche loro? Già al termine degli anni ’70 Lyotard diagnosticava i medesimi effetti sociali, una sostanziale perplessità rispetto alla cultura ufficiale e della tradizione, declinando in concreto una sostanziale assenza di investimento affettivo nei confronti della realtà circostante, una sostanziale «incredulità nei confronti delle meta narrazioni»[10]. 


Quei tempi sembrano oggi maturi dato che la repentinità dei mutamenti rendono impossibile la stabilità, dei sistemi e delle conoscenze. Non a caso, infatti, si parla tanto oggi di condizione liquida, ad indicare, appunto, l’impossibilità di codificare una forma stabile per i destini personali e le strutture sociali, siano essere le istituzioni pubbliche o le istituzioni private


Sono lontani oggi anche i tempi di Hegel con le sue distinzioni nette e oggettivamente riconoscibili[11].





Per Bauman


Postmoderno significa mancanza di fiducia in una possibilità del genere; “post” non nel senso di “cronologico” […] ma in quanto implica (nella forma di conclusione, o di semplice premonizione) che gli sforzi assiduamente compiuti dalla modernità sono stati fuorvianti, compiuti su pretese infondate e destinati, presto o tardi, a seguire il loro corso; che sarà la stessa modernità, in altri termini, a dimostrare (se non lo ha ancora dimostrato), oltre ogni ragionevole dubbio, la sua impossibilità, la vanità delle sue speranze e la vacuità delle sue realizzazioni[12]







La sfiducia nei confronti delle forme di vita codificate dalla modernità, lasciano il campo ad una congerie di liquefazioni psicologiche, sociologiche, antropologiche. Oggi tutto è temporaneo, in divenire, sfumato, indistinto … anche i nostri alunni. 


Ma chiediamoci, invece, cosa comporti ciò per il loro equilibrio, per la loro formazione, per il loro futuro. Cosa possiamo fare per loro come scuola? Il senso, come polo unificante di tutte le esperienze dei soggetti, sociali e familiari, informali e istituzionali, scompare adesso dal nostro panorama, conoscitivo e valoriale, venendo a cadere sotto le spire del paradosso colto dal postmoderno. Come asserisce, infatti, Deleuze:

L'incertezza personale non è infatti un dubbio esterno a ciò che accade, bensì una struttura obiettiva dell'evento stesso, in quanto va sempre in due sensi contemporaneamente, e dilania il soggetto secondo questa duplice direzione. Il paradosso è innanzitutto ciò che distrugge il buonsenso come senso unico, ma, anche, ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse[13]






L'emergere di un paradigma nuovo ed inquietante, quello della complessità, impone nuove domande alla scuola, alle varie agenzie formative, alla ricerca educativa. Non si tratta, beninteso, di una sorta di “guida” dei processi umani che erodono sostanzialmente la dimensione conoscitiva, ma di ri-pensare la pratica educativa al fine di “salvare” le generazioni a venire dai rischi dell'oblio liquido, dalla scomparsa dello sviluppo umano, dalle trappole del futuro assente. 


Questo scenario così triste, per molti aspetti, costituisce però il banco di prova della scuola, se desidera essere credibile, essere capace di intercettare gli interessi di una società nomade:

Le tecnologie hanno a tal punto eroso la percezione del tempo e dello spazio che i navigatori digitali vanno acquisendo caratteristiche sociali simili a quelle dei primitivi popoli nomadi[14]






I ragazzi di oggi “bivaccano”, realmente o virtualmente, la differenza non mostra più alcuna differenza apprezzabile, qua o là, prendendo sul momento ciò di cui avvertono bisogno, non differendo più tra uno stimolo e una risposta, non avvertendo peraltro più la necessità di una risposta che riposi su una ponderazione intellettuale. Cosa trovano, prendono, senza troppi problemi, senza pensarci sopra più di tanto. 


É scomparsa dal loro orizzonte, culturale, psichico, sociale, qualsiasi eventuale riferimento ad una verità, ossia ad una costruzione che possa riposare su solidi fondamenti e magari durare anche nel tempo. Siamo oggi distanti non solamente dalla società narrata da Collodi, per restare al XIX secolo, ma abbiamo pure preso congedo dalla nozione di verità tanto cara ai filosofi, secondo la quale sarebbe possibile produrre una scienza rigorosa[15].




Tutto appare transitorio, provvisorio, non definitivo, non ultimativo, figuriamoci se possiamo considerarlo anche fondato su solide fondamenta.




L'insegnante oggi, innanzi ad una società plurale, policentrica, con molti centri ed altrettante periferie, al capezzale della famiglia, e davanti al disagio, alla sfiducia, al disincanto nei confronti del mondo, deve divenire sempre più un promotore di speranza, latore di un messaggio di speranza per tutti, anche per il più emarginato, per colui che di più versa in condizioni di svantaggio, di difficoltà. Insomma, per l'alunno medio della scuola di oggi, la stessa al termine della decadenza ...


Ma se la società chiede aiuto alle famiglie, e le famiglie, a loro volta, chiedono soccorso alla scuola, a chi potrà chiedere aiuto la scuola?


Suonerà per qualcuno domani ancora la campanella?



(imamgine tratta da: http://www.peacelink.it/pace/images/15315_a33474.gif)



Note

[1] Cfr. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio; Mondadori, Milano, 2002, p. 33.
[2] Cfr. B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano, 200813, p. 146.
[3] Cfr. V. J. Propp, Morfologia della fiaba – Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma, 20032, p. 23.
[4] Cfr. D. Chiesa – C. T. Zagrebelsky, La mia scuola. Chi insegna si racconta, Einaudi, Torino, 2005, p. 5.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. D. Chiesa – C. T. Zagrebelsky, op. cit., p. 6.
[7] Cfr. P. Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, Parma, 2011, p. 36.
[8] Cfr. Z. Bauman, Il buio del postmoderno, Aliberti Editore, Roma, 2011, p. 52.
[9] Ivi, p. 54.
[10] Cfr. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 200516, p. 6.
[11] Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano, 20102, p. 439 e sgg.
[12] Cfr. Z. Bauman, Le sfide dell'etica, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 16 – 7.
[13] Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 20073, p. 11.
[14] Cfr. R. Buono, Conoscenza e inclusione formativa, ESA, Pescara, 2010, p. 38.
[15] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
Alessandro Pizzo

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