(riflessioni in progress)
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Nell’opera
minore Principes de la nature et de la grâce
fondés en raison (1714), Leibniz scrive
che :
Fin
qui abbiamo parlato come semplici fisici. Adesso è necessario elevarsi
alla metafisica, e perciò ci serviremo del grande principio, in genere
poco impiegato: Niente accade senza ragion sufficiente – vale a dire:
Niente avviene senza la possibilità, per chi conosce abbastanza le cose, di
rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare perché avviene così e non
altrimenti. Una volta stabilito questo principio, la prima domanda che si ha il
diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il
Nulla, infatti, è più semplice del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che
debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione
del perché esse devono essere così e non altrimenti[1]
Dopo aver parlato delle monadi e di come distinguere tra percezione
e coscienza, il Nostro comincia a trattare in maniera metafisica dell’ordo
rerum, vale a dire della natura iuxta propria principia della realtà
che dimoriamo. Nel far ciò, però, non può non attingere ad un unicum principium,
a ragione considerato il più importante di tutti, il quale pone in essere il fondamento
di tutto quel che esiste. Tale principio è il cosiddetto principio di ragion
sufficiente e sostiene che nulla possa avere luogo senza una sua ragion
d’essere.
Leibniz lo formula nella maniera seguente: que
rien ne se fait sans raison suffissante[2]. In virtù di quest’ultimo, niente ha luogo senza che sia possibile indicare una ragione
sufficiente a spiegare perché avviene proprio così, et non pas autrement[3].
Il filosofo ci sta dicendo proprio questo, vale a dire che
nulla accade a caso e che una ragione trascendente l’ordine delle cose
stabilisce cosa deve avere luogo e come. Ora, se nulla, ma proprio nulla, non
può avere luogo senza una ragione che ne disponga appunto l’aver luogo, le cose
che sono, in quanto sono, esistono proprio perché v’è una ragione che le fa
essere, v’è cioè una ragione ulteriore che ne consente il passaggio, necessario,
dal piano della mera possibilità al piano dell’attualità, ossia dell’esistenza,
appunto come cose.
Una tale ragione è sufficiente a produrre uno stato di cose
reale, vale a dire attuale, consentendone la conversio dalla possibilità
all’esistenza. Perché le cose siano, piuttosto che non essere, perché le
cose esistano, piuttosto che essere solamente potenziali, è necessario
l’intervento di una causa agendi efficace, vale a dire efficiente
nell’indirizzare il corso reale delle cose, capace, cioè, di assicurare la
continuità metafisica tra l’ordo rerum, di per sé del tutto potenziale
ma non ancora attuale, e l’ordo rerum, di per sé del tutto attuale.
Proprio l’azione di siffatta ragion sufficiente rende così conto dello scarto
metafisico tra quel che rimane solo possibile e quel che, al contrario, è
divenuto reale, ossia attuale, cioè esistentivo. La presenza di una tale ragion
d’essere, infatti, rende conto del perché le cose siano come sono, e non
altrimenti.
Stabilito questo, la domanda fondamentale vien da sé: perché esiste
qualcosa piuttosto che il nulla? Non una domanda banale, non una domanda
facile, non una domanda scontata. Se quel che esiste esiste proprio perché v’è
una ragion sufficiente, qual è tale ragione? Non appena il discorso da
preliminare entra nel merito, e le questioni si approfondiscono, cominciano i
problemi teorici. Questo e non quello, la realtà attuale e non un’altra realtà,
qualunque essa sia, l’ordine presente e non un altro, la realtà e non la
possibilità, come mai? Sì, v’è una raison suffissante che rende conto di
ciò, ma più precisamente qual è? Al riguardo, ritengo sia possibile osservare
una curiosa torsione speculativa in Leibniz il quale dal discorso metafisico
passa agevolmente a quello ontologico, spostando il centro focale dal principio
di ragion sufficiente ai suoi prodotti ontici. Pertanto, gli sembra lecito
porre una domanda così particolare, relativa allo scarto ontico tra qualcosa
e nulla. Ora, se la domanda fondamentale è di per sé consequenziale allo
stabilimento del principio generale, secondo il quale nihil sine ratione,
come mai esiste qualcosa piuttosto che nulla? Prima facie, suggerisce il
Nostro, il nulla sarebbe più semplice del qualcosa, e, quindi,
anche più possibile, ma così non accade, così non viene disposto dal principio
stesso, così è stato decretato ove si vuole ciò che si puote. Esiste
qualcosa, non nulla. Anzi, mentre qualcosa può esistere, nulla non può
esistere. Il divieto ontico di traduzione attualista di una possibilità è
attuale nel caso del nulla, mentre non esercita il proprio dominio nel caso di
qualcosa. Di conseguenza, mentre qualcosa è, nulla non è. Ebbene, ci chiediamo
con Leibniz: come mai accade proprio ciò, e non altrimenti? Perché esiste
qualcosa, et non pas autrement? Benché apparentemente più semplice,
nulla continua a non esistere, all’esatto contrario di qualcosa. Come mai?
Tuttavia, a scanso di facili equivoci, bisogna chiarire il lessico di Leibniz. Il paragone di semplicità
tra qualcosa e nulla non è indicativo della maggior o minore probabilità di
esistere dell’uno o dell’altro, ma è correlativo della differenza metafisica
tra le monadi. Infatti, le monadi sono semplici, vale a dire unità
indisgiungibili. Quindi, nonostante che il nulla, ossia qualcosa che non è, sia
più semplice, più vicina alla dimensione delle monadi, non garantisce sulla
sua esistenza attuale. In altri termini, Leibniz attinge al discorso metafisico
occidentale per proiettare lo stesso nella modernità, intendendolo, però, non
sul versante dell’opposizione ontica tra essere e nulla, ma su quello della molteplicità
in luogo della semplicità. Detto altrimenti, il Nostro non prende
posizione pro o contro Parmenide, vale a dire a favore o contro
l’Essere e il Non-essere assoluti. Al contrario, Leibniz enuncia una domanda
che è fondamentale rispetto al molteplice. Detto altrimenti, il Nostro
formula una domanda che chiede conto di come mai dall’unità derivi la molteplicità,
come mai dalla semplicità derivi tutto il resto, anche l’esatto opposto,
il preciso contrario, vale a dire la complessità. Infatti, posta la
domanda in questione, bisogna che sia possibile rendere ragione pourqui
elles doivent exister ainsi, et non autrement[4].
Per Mugnai, osta far osservare come Leibniz consideri il possibile
nei termini di un’assenza di contraddizione mentre il necessario «è ciò il cui
opposto è impossibile»[5].
E tuttavia non si può non
tener conto di una profonda suggestione teoretica che proprio il passo in
questione suscita e che rimanda ad uno dei topoi principali della
filosofia occidentale, vale a dire alla sistemazione metafisica della cultura
occidentale operata dalla scuola eleatica. Infatti, il problema dello spiegare
come mai dall’unità discenda la pluralità è la sfida fondamentale per la
filosofia occidentale, la quale, per parte sua, ha risolto, o preteso di
risolvere, in vario modo l’ardua faccenda, e che ha attanagliato la riflessione
di alcuni autori in modo particolare. Il mio pensiero va a Parmenide e alla sua
svolta ontologica consistente, in estrema sintesi, nello stabilire, una volta
per tutte, la maniera corretta attraverso la quale si possa dire e pensare,
una doppia svolta nel senso che è tanto ontologica quanto logica[6].
Da questo punto di vista, dunque, non può certo stupire la reazione di tanti
autori contemporanei i quali, mossi dal medesimo spinto di contraddizione
scorto da Severino[7],
negano precisamente questo aspetto della riflessione parmenidea, polemizzano
proprio con questa doppia movenza, appuntano i propri strali all’indirizzo
della teorizzazione eleatica intorno all’essere, segnatamente l’essere assoluto
di cui non parla il Nostro.
Tuttavia, nello stesso tempo, ritengo sia corretto accostare proprio la presente domanda fondamentale, perlomeno nella precisa sfumatura semantica qui messa in luce, alla svolta compiuta da Parmenide. Infatti, se il problema è esattamente quello di rendere conto del passaggio impossibile dall’unità alla molteplicità, diviene plausibile quel che Cassin scrive in merito a Parmenide, sia pure attraverso il filtro critico di Gorgia, «è il movimento di differenziazione tra «non è» e «è», il quale suppone che si possa come minimo dire «non è» per distinguerlo, è l’atto stesso della krisis, a produrre la loro indistinzione»[8]. Il che significa, detto altrimenti, che «tutto quello che è, è sul modello del non-essere. Il quale comincia ad essere semplicemente perché lo si enuncia […] l’essere parmenideo non è altro che un effetto di qualcosa che viene detto, ma questo perché non esiste altro essere che non sia quello che è prodotto dal dire»[9]. In tale lettura, dunque, la metafisica parmenidea diviene logologia, vale a dire un particolare tipo di discorso il quale costituisce l’essere, la fa essere, lo trasforma da non – essere in essere. Come a dire che l’essere non è, ma lo diviene solamente se oggetto del discorso, del linguaggio, del dire che nomina le cose, facendole esistere. Per Cassin, allora, ma non esclusivamente per essa, l’ontologia è una finzione la quale, più correttamente, è una logologia, vale a dire un discorso che produce l’essere[10].
Tuttavia, nello stesso tempo, ritengo sia corretto accostare proprio la presente domanda fondamentale, perlomeno nella precisa sfumatura semantica qui messa in luce, alla svolta compiuta da Parmenide. Infatti, se il problema è esattamente quello di rendere conto del passaggio impossibile dall’unità alla molteplicità, diviene plausibile quel che Cassin scrive in merito a Parmenide, sia pure attraverso il filtro critico di Gorgia, «è il movimento di differenziazione tra «non è» e «è», il quale suppone che si possa come minimo dire «non è» per distinguerlo, è l’atto stesso della krisis, a produrre la loro indistinzione»[8]. Il che significa, detto altrimenti, che «tutto quello che è, è sul modello del non-essere. Il quale comincia ad essere semplicemente perché lo si enuncia […] l’essere parmenideo non è altro che un effetto di qualcosa che viene detto, ma questo perché non esiste altro essere che non sia quello che è prodotto dal dire»[9]. In tale lettura, dunque, la metafisica parmenidea diviene logologia, vale a dire un particolare tipo di discorso il quale costituisce l’essere, la fa essere, lo trasforma da non – essere in essere. Come a dire che l’essere non è, ma lo diviene solamente se oggetto del discorso, del linguaggio, del dire che nomina le cose, facendole esistere. Per Cassin, allora, ma non esclusivamente per essa, l’ontologia è una finzione la quale, più correttamente, è una logologia, vale a dire un discorso che produce l’essere[10].
Ma torniamo ora a Leibniz. La domanda fondamentale,
proprio in quanto tale, esplica la medesima funzione logologica? È il chiedere
conto a produrre la medesima realtà chiamata in causa? Ecco il problema: la domanda è davvero fondamentale oppure è solamente il gioco
dialettico che costruisce l’artefatto altrimenti nominato come principio di
ragion sufficiente?
Perché esiste un qualcosa, e non un niente? In altri termini, la
questione presente consiste nel chiedere conto di quel che fa esistere
qualcosa, e che assume rilevanza teorica nel momento in cui si pone a
comparazione quel che è, ossia il qualcosa che esiste, con quel
che pur potendo essere non è, ossia il qualcosa che non esiste,
appunto il niente, o nulla. E com’è possibile che il medesimo principio
qui appellato garantisca del passaggio continuo dal non-essere, vale a
dire il nulla, all’essere, vale a dire al qualcosa? O,
viceversa, medesima la dinamica costante dal qualcosa, vale a dire l’essere,
al nulla, vale a dire il non-essere? La legge segreta
dell’universo, vero e proprio tormento per gli ingegni filosofici d’occidente,
persevera nel suo intimo a reggere le sorti contingenti del travaso di qualcosa
nel niente, così come, in parallelo, di niente in qualcosa.
E alla medesima legge intende presumibilmente rivolgersi Leibniz, nel suo
chiedere conto del come mai essere e nulla, qualcosa e niente,
unità e complessità, semplicità e pluralità possano
dialogare tra loro e reggersi in mutui rapporti di derivazione.
Tuttavia,
è solo per il tramite del linguaggio che le cose, così come i principi, sia
pure con estrema difficoltà, possono venir pensati e descritti,
anche a costo del fraintendimento, anche a costo dell’equivoco, anche a rischio
della chiacchiera. Leibniz non si sottrae a tale pericolo, lo affronta di
petto, cerca di portare dalla sua parte la vittoria ma, alla fine, credo si
possa asserire, si invischia nella circolarità di una domanda che è
fondamentale solo in quanto assume il fondamento come suo
orizzonte conglobante.
(continuerà ... forse!)
[1] Cfr. G. W. Leibniz, I Principi razionali
della natura e della Grazia, in G. W.
Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47.
[2] Ivi, p.
46.
[3] Ibidem.
[4] Supra.
[5] Cfr, m. mugnai, Possibile/necessario, Il Mulino, Bologna, 2013, p.
116.
[6] Cfr. A. Pizzo, Ontologia in Parmenide:
come e cosa si pensa quando si dice «è», “Dialegesthai”, XIV, 2012, ISSN:
1128-5478, contenuto on – line: http://mondodomani.org/dialegesthai/ap20.htm.
[7] Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano,
Adelphi, 20052, p. 27: « L'essere [...] non è la totalità che è vuota delle
determinazioni del molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze,
l'area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui
si possa dire che non è un nulla. L'essere è l'intero del positivo».
[8] Cfr. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per
un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002, pp. 35 – 6.
[9] Ivi, p.
39.
[10] Ivi, p.
57: «Onto-logia: il discorso commemora l’essere, ha per compimento quello di
dirlo. Logologia: il discorso fa essere, l’essere è un effetto del dire. In un
caso, l’esterno si impone, e impone che lo si dica; nell’altro, il discorso
produce l’esterno».
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