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mercoledì 17 dicembre 2014

Leibniz e la domanda fondamentale

(riflessioni in progress)


(url immagine: http://cias.rit.edu/~ckb3412/MYM/Site/showcase/images/leibniz.png)


Nell’opera minore Principes de la nature et de la grâce fondés en raison (1714), Leibniz scrive che :

Fin qui abbiamo parlato come semplici fisici. Adesso è necessario elevarsi alla metafisica, e perciò ci serviremo del grande principio, in genere poco impiegato: Niente accade senza ragion sufficiente – vale a dire: Niente avviene senza la possibilità, per chi conosce abbastanza le cose, di rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare perché avviene così e non altrimenti. Una volta stabilito questo principio, la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione del perché esse devono essere così e non altrimenti[1]

Dopo aver parlato delle monadi e di come distinguere tra percezione e coscienza, il Nostro comincia a trattare in maniera metafisica dell’ordo rerum, vale a dire della natura iuxta propria principia della realtà che dimoriamo. Nel far ciò, però, non può non attingere ad un unicum principium, a ragione considerato il più importante di tutti, il quale pone in essere il fondamento di tutto quel che esiste. Tale principio è il cosiddetto principio di ragion sufficiente e sostiene che nulla possa avere luogo senza una sua ragion d’essere

Leibniz lo formula nella maniera seguente: que rien ne se fait sans raison suffissante[2]. In virtù di quest’ultimo, niente ha luogo senza che sia possibile indicare una ragione sufficiente a spiegare perché avviene proprio così, et non pas autrement[3]

Il filosofo ci sta dicendo proprio questo, vale a dire che nulla accade a caso e che una ragione trascendente l’ordine delle cose stabilisce cosa deve avere luogo e come. Ora, se nulla, ma proprio nulla, non può avere luogo senza una ragione che ne disponga appunto l’aver luogo, le cose che sono, in quanto sono, esistono proprio perché v’è una ragione che le fa essere, v’è cioè una ragione ulteriore che ne consente il passaggio, necessario, dal piano della mera possibilità al piano dell’attualità, ossia dell’esistenza, appunto come cose. 


Una tale ragione è sufficiente a produrre uno stato di cose reale, vale a dire attuale, consentendone la conversio dalla possibilità all’esistenza. Perché le cose siano, piuttosto che non essere, perché le cose esistano, piuttosto che essere solamente potenziali, è necessario l’intervento di una causa agendi efficace, vale a dire efficiente nell’indirizzare il corso reale delle cose, capace, cioè, di assicurare la continuità metafisica tra l’ordo rerum, di per sé del tutto potenziale ma non ancora attuale, e l’ordo rerum, di per sé del tutto attuale. Proprio l’azione di siffatta ragion sufficiente rende così conto dello scarto metafisico tra quel che rimane solo possibile e quel che, al contrario, è divenuto reale, ossia attuale, cioè esistentivo. La presenza di una tale ragion d’essere, infatti, rende conto del perché le cose siano come sono, e non altrimenti. 


Stabilito questo, la domanda fondamentale vien da sé: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Non una domanda banale, non una domanda facile, non una domanda scontata. Se quel che esiste esiste proprio perché v’è una ragion sufficiente, qual è tale ragione? Non appena il discorso da preliminare entra nel merito, e le questioni si approfondiscono, cominciano i problemi teorici. Questo e non quello, la realtà attuale e non un’altra realtà, qualunque essa sia, l’ordine presente e non un altro, la realtà e non la possibilità, come mai? Sì, v’è una raison suffissante che rende conto di ciò, ma più precisamente qual è? Al riguardo, ritengo sia possibile osservare una curiosa torsione speculativa in Leibniz il quale dal discorso metafisico passa agevolmente a quello ontologico, spostando il centro focale dal principio di ragion sufficiente ai suoi prodotti ontici. Pertanto, gli sembra lecito porre una domanda così particolare, relativa allo scarto ontico tra qualcosa e nulla. Ora, se la domanda fondamentale è di per sé consequenziale allo stabilimento del principio generale, secondo il quale nihil sine ratione, come mai esiste qualcosa piuttosto che nulla? Prima facie, suggerisce il Nostro, il nulla sarebbe più semplice del qualcosa, e, quindi, anche più possibile, ma così non accade, così non viene disposto dal principio stesso, così è stato decretato ove si vuole ciò che si puote. Esiste qualcosa, non nulla. Anzi, mentre qualcosa può esistere, nulla non può esistere. Il divieto ontico di traduzione attualista di una possibilità è attuale nel caso del nulla, mentre non esercita il proprio dominio nel caso di qualcosa. Di conseguenza, mentre qualcosa è, nulla non è. Ebbene, ci chiediamo con Leibniz: come mai accade proprio ciò, e non altrimenti? Perché esiste qualcosa, et non pas autrement? Benché apparentemente più semplice, nulla continua a non esistere, all’esatto contrario di qualcosa. Come mai? 

Tuttavia, a scanso di facili equivoci, bisogna chiarire il lessico di Leibniz. Il paragone di semplicità tra qualcosa e nulla non è indicativo della maggior o minore probabilità di esistere dell’uno o dell’altro, ma è correlativo della differenza metafisica tra le monadi. Infatti, le monadi sono semplici, vale a dire unità indisgiungibili. Quindi, nonostante che il nulla, ossia qualcosa che non è, sia più semplice, più vicina alla dimensione delle monadi, non garantisce sulla sua esistenza attuale. In altri termini, Leibniz attinge al discorso metafisico occidentale per proiettare lo stesso nella modernità, intendendolo, però, non sul versante dell’opposizione ontica tra essere  e nulla, ma su quello della molteplicità in luogo della semplicità. Detto altrimenti, il Nostro non prende posizione pro o contro Parmenide, vale a dire a favore o contro l’Essere e il Non-essere assoluti. Al contrario, Leibniz enuncia una domanda che è fondamentale rispetto al molteplice. Detto altrimenti, il Nostro formula una domanda che chiede conto di come mai dall’unità derivi la molteplicità, come mai dalla semplicità derivi tutto il resto, anche l’esatto opposto, il preciso contrario, vale a dire la complessità. Infatti, posta la domanda in questione, bisogna che sia possibile rendere ragione pourqui elles doivent exister ainsi, et non autrement[4]. Per Mugnai, osta far osservare come Leibniz consideri il possibile nei termini di un’assenza di contraddizione mentre il necessario «è ciò il cui opposto è impossibile»[5].


E tuttavia non si può non tener conto di una profonda suggestione teoretica che proprio il passo in questione suscita e che rimanda ad uno dei topoi principali della filosofia occidentale, vale a dire alla sistemazione metafisica della cultura occidentale operata dalla scuola eleatica. Infatti, il problema dello spiegare come mai dall’unità discenda la pluralità è la sfida fondamentale per la filosofia occidentale, la quale, per parte sua, ha risolto, o preteso di risolvere, in vario modo l’ardua faccenda, e che ha attanagliato la riflessione di alcuni autori in modo particolare. Il mio pensiero va a Parmenide e alla sua svolta ontologica consistente, in estrema sintesi, nello stabilire, una volta per tutte, la maniera corretta attraverso la quale si possa dire e pensare, una doppia svolta nel senso che è tanto ontologica quanto logica[6]


Da questo punto di vista, dunque, non può certo stupire la reazione di tanti autori contemporanei i quali, mossi dal medesimo spinto di contraddizione scorto da Severino[7], negano precisamente questo aspetto della riflessione parmenidea, polemizzano proprio con questa doppia movenza, appuntano i propri strali all’indirizzo della teorizzazione eleatica intorno all’essere, segnatamente l’essere assoluto di cui non parla il Nostro. 

Tuttavia, nello stesso tempo, ritengo sia corretto accostare proprio la presente domanda fondamentale, perlomeno nella precisa sfumatura semantica qui messa in luce, alla svolta compiuta da Parmenide. Infatti, se il problema è esattamente quello di rendere conto del passaggio impossibile dall’unità alla molteplicità, diviene plausibile quel che Cassin scrive in merito a Parmenide, sia pure attraverso il filtro critico di Gorgia, «è il movimento di differenziazione tra «non è» e «è», il quale suppone che si possa come minimo dire «non è» per distinguerlo, è l’atto stesso della krisis, a produrre la loro indistinzione»[8]. Il che significa, detto altrimenti, che «tutto quello che è, è sul modello del non-essere. Il quale comincia ad essere semplicemente perché lo si enuncia […] l’essere parmenideo non è altro che un effetto di qualcosa che viene detto, ma questo perché non esiste altro essere che non sia quello che è prodotto dal dire»[9]. In tale lettura, dunque, la metafisica parmenidea diviene logologia, vale a dire un particolare tipo di discorso il quale costituisce l’essere, la fa essere, lo trasforma da non – essere in essere. Come a dire che l’essere non è, ma lo diviene solamente se oggetto del discorso, del linguaggio, del dire che nomina le cose, facendole esistere. Per Cassin, allora, ma non esclusivamente per essa, l’ontologia è una finzione la quale, più correttamente, è una logologia, vale a dire un discorso che produce l’essere[10].


Ma torniamo ora a Leibniz. La domanda fondamentale, proprio in quanto tale, esplica la medesima funzione logologica? È il chiedere conto a produrre la medesima realtà chiamata in causa? Ecco il problema: la domanda è davvero fondamentale oppure è solamente il gioco dialettico che costruisce l’artefatto altrimenti nominato come principio di ragion sufficiente


Perché esiste un qualcosa, e non un niente? In altri termini, la questione presente consiste nel chiedere conto di quel che fa esistere qualcosa, e che assume rilevanza teorica nel momento in cui si pone a comparazione quel che è, ossia il qualcosa che esiste, con quel che pur potendo essere non è, ossia il qualcosa che non esiste, appunto il niente, o nulla. E com’è possibile che il medesimo principio qui appellato garantisca del passaggio continuo dal non-essere, vale a dire il nulla, all’essere, vale a dire al qualcosa? O, viceversa, medesima la dinamica costante dal qualcosa, vale a dire l’essere, al nulla, vale a dire il non-essere? La legge segreta dell’universo, vero e proprio tormento per gli ingegni filosofici d’occidente, persevera nel suo intimo a reggere le sorti contingenti del travaso di qualcosa nel niente, così come, in parallelo, di niente in qualcosa. E alla medesima legge intende presumibilmente rivolgersi Leibniz, nel suo chiedere conto del come mai essere e nulla, qualcosa e niente, unità e complessità, semplicità e pluralità possano dialogare tra loro e reggersi in mutui rapporti di derivazione.


Tuttavia, è solo per il tramite del linguaggio che le cose, così come i principi, sia pure con estrema difficoltà, possono venir pensati e descritti, anche a costo del fraintendimento, anche a costo dell’equivoco, anche a rischio della chiacchiera. Leibniz non si sottrae a tale pericolo, lo affronta di petto, cerca di portare dalla sua parte la vittoria ma, alla fine, credo si possa asserire, si invischia nella circolarità di una domanda che è fondamentale solo in quanto assume il fondamento come suo orizzonte conglobante.

(continuerà ... forse!)




[1] Cfr. G. W. Leibniz, I Principi razionali della natura e della Grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ibidem.
[4] Supra.
[5] Cfr, m. mugnaiPossibile/necessario, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 116.
[6] Cfr. A. Pizzo, Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è», “Dialegesthai”, XIV, 2012, ISSN: 1128-5478, contenuto on – line: http://mondodomani.org/dialegesthai/ap20.htm.
[7] Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano, Adelphi, 20052, p. 27: « L'essere [...] non è la totalità che è vuota delle determinazioni del molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze, l'area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui si possa dire che non è un nulla. L'essere è l'intero del positivo».
[8] Cfr. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002, pp. 35 – 6.
[9] Ivi, p. 39.
[10] Ivi, p. 57: «Onto-logia: il discorso commemora l’essere, ha per compimento quello di dirlo. Logologia: il discorso fa essere, l’essere è un effetto del dire. In un caso, l’esterno si impone, e impone che lo si dica; nell’altro, il discorso produce l’esterno».

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