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giovedì 6 giugno 2013

Ce lo chiede l'Europa? Prima parte

(Semi-)Recensione a: L. Canfora, È l'Europa che ce lo chiede!” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2012


Il presente volume di Canfora, grande indipendente del mondo accademico, sempre più prono nei confronti del potere, di qualsivoglia risma esso sia fatto realmente, smonta pezzo per pezzo la retorica pubblica con la quale siamo stati amministrati negli ultimi cinque anni.

Dire che “è l'Europa che ce lo chiede” significa spostare metaforicamente il topos del potere, e, quindi, anche delle stesse decisioni politiche, dalle loro sedi istituzionali consone, e a ciò poste, in un imprecisato “altrove” geopolitico che presenta indubbiamente due vantaggi, irrelati ma coevi: 1) far digerire provvedimenti altrimenti impopolari come imposizioni calate dall'altro; 2) non sforzare nemmeno un pochino le meningi politiche nostrane nel mandare ad effetto richieste comunitarie ma compatibilmente con la nostra sovranità popolare.

Per Canfora, l'antifona degli ultimi due anni, in misura più esplicita che nel passato recente, ci ha consentito di veder “abbattere governi, farne nascere di novi, ordinare la nascita di coalizioni, vietare referendum in paesi apparentemente sovrani”[1].


La Comunità Europea si è così trasformata, nella vulgata massmediale, e nella comodità viscerale del popolino, da “madre”, magnifica e generosa, in “matrigna”, brutta, arcigna ed avara. Al punto tale che le sue stesse raccomandazioni, trasmesse ai Governi nazionali tramite le “veline” di lettere semi – segrete a firma della BCE, della Banca Comune Europea, una banca in assenza di uno Stato, minano la sovranità stessa dei Governi, rimescolando dall'alto la composizione stessa delle locali società politiche. É accaduto in Grecia, è accaduto anche da noi l'anno scorso …

Additare così l'amico-nemico del Continente, che decide e dispone per noi, consente di imporre alle popolazioni programmi poderosi di (auto-)limitazione della spesa pubblica, con tagli, più o meno, lineari a quel che concerne il finanziamento dei diritti. Ma consente anche di non doversi nemmeno industriare nel cercare soluzioni originali, creative, impegnative, le quali non scontentino la BCE ma nemmeno le popolazioni che devono subirle. Ecco il punto: qual è il margine di autonomia dei governi nazionali rispetto alla politica economica decisa dalla BCE per tutta la Comunità? Secondo (quasi-)tutti: nessuno. Secondo me, invece, i margini, sebbene ristretti nella somma finale che impongono, vi sono. Il problema, forse, è che la nostra attuale classe dirigente appare incapace di pensare in grande, impreparata a ragionare in termini sistemici, a relazionarsi in chiave internazionale, a coordinare tra “centro” e “periferia” del Continente.

Se la BCE chiede una diminuzione del debito pubblico e consiglia alcune misure, perché mai il Nostro Governo dovrebbe tradurle immediatamente in pratica senza neanche tentare di adattarle alle nostre capacità produttive e sociali?

Canfora dà sfogo in questa sede agli umori negativi nei confronti della matrigna europea, tutto sotto il giogo diretto di Berlino: “l'eurozona è il suo mercato”[2]. É la Germania che impone a tutti i paesi del Continente asfitttiche politiche di rigore economico, dimenticando che in tempi di riflusso economico, al contrario, bisogna spendere, non diminire la spesa pubblica. Pena ristagno e disoccupazione, effetti puntualmente verificatisi, e soprattutto in quei paesi, occupanti la “periferia” dell'Impero tedesco, come Portogallo, Spagna, Grecia e, immancabilmente, il Nostro.

Nemmeno appare praticabile la misura della svalutazione monetaria, strada invece percorsa nei mesi scorsi da USA e Giappone perché “detronizzerebbe la Germania dalla sua posizione dominante”[3].

Peraltro, a quanti osano chiedere un dilazionamento dei tempi di suddetti provvedimenti contenitivi della spesa pubblica, si obietta subito che sarebbe una china pericolosa, evocando “gli anni finali della Prima Repubblica”[4].

E Canfora se la prende caldamente anche con la cosiddetta sinistra, ridotta ormai a propaggine improduttiva dell'attuale sistema politico, delegato della BCE ….

Per l'autore, infatti,sarebbe preferibile svalutare la moneta comune al fine di stimolare la produzione, e, quindi, anche l'occupazione, con ricadute a cascata sui bilanci pubblici e sulla redistribuzione fiscale della ricchezza, dal momento che ciò “renderebbe concorrenziali le nsotre merci”[5]. E solo una sana socialdemocrazia, tornata sé stessa, “potrebbe farsi promotrice di questa rinascita”[6].

Anche perché perdurante l'attuale equilibrio continentale, la Comunità Europea appare poco meno di un “gigantesco feudo tedesco”[7], e non un Paese a 27.

Ma dopo aver dato sfogo agli umori viscerali del popolino, assai più incline a veder complotti ovunque, per spiegare una gestione della propria vita improvvisata sfuggitagli di mano, che a comprendere le reali dinamiche complesse della burocrazia continentale e della finanza globale.

D'altro canto, è proprio l'insicurezza che promana da un mondo in divenire, senza pause nel suo sviluppo, più liquido che solido, che offusca l'acume dei più. In realtà, il mondo cambia sotto i nostri stessi occhi e in genere facciamo non poca fatica ad inseguire, con una comprensione possibile solo a posteriori, questi mutamenti. Ma se i maneggioni dell'alta finanza filano e disfano la tela economica mondiale, i nostri governanti riesumano una tecnica politica vecchia, ma ancora efficace: “l'individuazione del falso bersaglio”[8]. Si tratta della politica economica seguita, più in parole, e per fortuna, che in pratica, negli ultimi anni: spostare l'attenzione dagli squilibri ai vertici della piramide sociale alla base della stessa ed indicare in chi è già occupato stabilmente, e protetto da dei diritti, personali e sociali, come il responsabile della crisi economica, o, perlomeno, dei suoi deleteri effetti umani. Si tratta di un modo sofisticato per adoperare il “ricatto” nella contesa politica ed economica, gettando fumo negli occhi dei poveri disperati dalla congiuntura economica particolarmente severa. Così, “l'operaio occupato, che giustamente difende i diritti che ha conquistato nel corso di un secolo di lotte, è oggi bersaglio di una compagna ostile, truccata nei suoi termini e ricattatoria nei metodi. Gli viene ingiunto di rinunciare alle sue conquiste, la cui ostinata difesa penalizzerebbe (p questa la paradossale accusa) le generazioni future”[9]. É, insomma, per colpa di chi oggi ha (la fortuna di avere ancora) un lavoro, e che non accetta aumenti di produttività (altro modo per dire 'precarietà'), che molti altri, giovani, non lo avranno domani, e nemmeno dopodomani.

D'altro canto, prosegue implacabile siffatta retorica, “abbarbicato ai suoi “privilegi”, a quei poco più di mille euro mensili che nei casi migliori guadagna e a quelle garanzie previdenziali e statutarie che ha ottenuto, egli viene presentato come il cieco egoista che di disinteressa del destino delle generazioni a venire”[10]. La colpa, insomma, non è del sistema economico in generale, incapace di rinnovarsi e di competere con altri attori e scenari internazionali, oltre che, beninteso, della furberia imprenditoriale delle alte sfere, ma del lavoratore dipendente che non vuole cedere nulla della sua attuale agiatezza in favore di chi un lavoro al momento non l'ha. Si aggiunge anche, più o meno implicitamente, che questa sua mancata rinuncia condanna il futuro occupazionale dei giovani. Come se fosse davvero una sua colpa …

Perché si dice questo? Ancora qui per conseguire un doppia risultato: i) additare un nemico (inventato), reo delle difficoltà occupazionali, ed economiche pubbliche, attuali; e, (ii) far accettare ai futuri lavoratori condizioni di vita e di lavoro certamente peggiori delle attuali (se vogliono pur lavorare …). L'operaio, garantito è “il nemico che toglie loro il futuro e preclude il loro presente”[11]. Mai come negli ultimi anni si è registrata una simile insistenza sulla disoccupazione giovanile, peraltro mica una novità dalle nostre parti, e della necessità di un nuovo patto sociale (tra le diverse generazioni). Solo che, e questo è il nocciolo vero della questione, tale rifondazione viene richiesta “al ribasso”, ossia con un sostanziale ritocco in direzione peggiorativa e di condizioni di lavoro (salari; orari; convenzioni; prestazioni sociali; servizi socio – assistenziali; etc.) e di condizioni esistenziali (incertezza sugli orari; incertezza sulla durata dell'impiego; futuro incerto sulle indennità d'infortunio e sul futuro fuori dalla vita attiva; etc.). Come chiosa Canfora “Lungi dal riconoscere che è l'intangibilità del profitto […] che scaraventa intere generazioni fuori dal mercato del lavoro, si ricorre all'abile e ricattatoria denuncia contro l'egoismo (!) di chi, per sua fortuna, non è ancora stato estromesso e non si rassegna ad autoridursi il salario ed appesantire, per «salvare l'euro», le condizioni di lavoro”[12]. Infatti, se banchieri e magnati si riducessero i loro profitti, “il che vuol dire ridurre l'orario di lavoro a pari salario e aumentare i posti di lavoro”[13], il problema dei giovani inoccupati sarebbe avviato a soluzione. Ma questa strada viene respinta da quanti difendono, forse con lo stesso egoismo del lavoratore dipendente che difende il suo posto di lavoro, e le sue garanzie, la sacralità del profitto personale.

Ma se il profitto deve quanto meno restare intatto o, magari anche, accrescere, allora o si addita il falso nemico del dipendente che non si autoriduce il salario oppure si ricatta un'intero Paese con la minaccia della delocalizzazione degli impianti di produzione verso i paesi dove minori sono i salari, le tutele, le garanzie, insomma tutti quei costi che incidono, più o meno direttamente, sul profitto finale del capitano d'impresa.

Il futuro, fosco nei termini e nei contenuti, è forse quello di una nuova schiavitù? Ovviamente, se il profitto deve rimanere vantaggioso per chi imprende un'attività produttiva, allora cosa resta al sottoposto (al primo legato dalla disparità di posizione dei contraenti in un rapporto di lavoro)? Meno, ma meglio per il primo se ancora meno. Ecco, allora, spiegata la nemmeno tanto oscura dinamica delle scelte politiche ed economiche degli ultimi anni.

Ma, forse, non c'era nemmeno il reale bisogno di scomodare il gigante silente europeo. Infatti, l'Europa non ci ha chiesto affatto tutto questo, è stata l'economia a farlo, e quasi impunemente.

....


(Continua)


(immagine tratta da: http://ecx.images-amazon.com/images/I/41GmJIM2BQL._SL500_AA300_.jpg)


Note

[1] Cfr. L. Canfora, “È l'Europa che ce lo chiede!” (Falso!), Laterza, Roma – Bari, 2012, p. 25.
[2] Ivi, p. 36.
[3] Ivi, p. 37.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 38.
[6] Ivi, p. 39.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 48.
[9] Ivi, pp. 47 – 8.
[10] Ivi, p. 48.
[11] Ibidem.

[12] Ivi, pp. 48 – 9.

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