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martedì 14 febbraio 2012

Ontologia ingenua...

Quanto segue è stato già pubblicato nel febbraio 2011 sul blog di un collega, ed amico, EffeEmme. In quella occasione suscitò un vespaio di polemiche e di commenti, molti dei quali fuori luogo. Forse non era la sede adatta, ma l'occasione mi fu gentilmente offerta e l'accettai, anche perché allora non possedevo un blog.
Mi pare giusto, allora, riproporre quel contenuto nella forma che scelsi per esso e che, per motivi contingenti, non ebbe su: http://haecceitasweb.com/2011/02/05/quarantaquattro-gatti-in-file-per-sei-con-il-resto-di-due-%E2%80%A6-un-esercizio-senza-pretese-di-ontologia-ingenua/.


Che dire? Resto convinto che l'ontologia sia una cosa seria, a patto, però, di aver chiaro cosa s'intenda dire e studiare. Prova ne sia quanto segue, e non tragga in errore il tono poco serio, non si tratta di uno "scherzo" tout- court, ma di un tono ludico che nulla, ma proprio nulla, toglie alla serietà delle idee che vi stanno dentro, comprese o meno, accettate o meno, condivise o meno, che siano. Buona lettura!


PS


ovviamente le note non funzioneranno più come links e faranno riferimento a posizioni non presenti on-line.



Quarantaquattro gatti in file per sei con il resto di due … un esercizio senza pretese di ontologia ingenua


Prendendo in considerazione una celebre canzonetta di molti anni fa, ritengo possano emergere dei dati interessanti in un’ottica generale che abbia come fine offrire una ricognizione, breve ma essenziale, sull’ontologia.
Forse, però, come sovente accade, “sporcarsi le mani in prima persona” vale come e più di mille parole.
Questa mi sembra una ragione più che sufficiente per tagliar corto ed andare dritto alla meta: che cos’è l’ontologia?

Sì, una forma di conoscenza ma dalla natura estremamente particolare, tanto, forse, da meritarsi un posto consono all’interno della stessa filosofia nel cui novero, innanzitutto e per lo più, la si colloca, ed anch’io, nel mio piccolo, faccio altrettanto. Ma se è una forma, sia pure particolare di conoscenza, alla stregua della filosofia, l’ontologia pretende di avere una natura rigorosa, di render conto, banalizzando forse, di cosa e come esista. Come efficacemente asserì Husserl: «Sin dai suoi primi inizi la filosofia ha avanzato la pretesa di essere scienza rigorosa e, precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenze teoretiche e di rendere possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali»[1]. 
Eppure una simile asserzione appare, quanto meno, strana. Infatti, la domanda fondamentale dell’ontologia è la seguente: che cosa c’è? Per Varzi, «si mira piuttosto a fornire una caratterizzazione dettagliata di tutto questo, ossia a specificare quali entità vi rientrino»[2]. Elaborare un elenco dettagliato di cosa esista significa condurre una ricerca ontologica. Ma ciò cosa vuol significare? O, meglio, cosa può significare oggi? Per Aristotele, forse, le cose erano più semplici di quanto possano, invece, apparire a noi. Lo stagirita, infatti, si limita a considerare l’ontologia «una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale»[3]. 
Per semplicità, allora, preferisco parafrasare il famoso, e giustamente, passo aristotelico alla maniera seguente: l’ontologia è una particolare forma di conoscenza teorica, ossia filosofica, il cui compito consiste nello studiare le condizioni di esistenza degli enti, quelle ragioni in forza delle quali gli enti esistono, ossia sono quel che sono: qualcosa di esistente; qualcosa cui pertiene l’esistenza, ossia l’essere. Ovviamente, affinché questo discorso possa avere fondamento, è necessario, a mio sommesso parere, aggiungere ancora come tali condizioni di esistenza debbano essere considerate del tutto generali, e non specifiche di determinati enti, di quelle cose che esistono. Già, una definizione succinta e stringata di ‘enti’, ma sufficiente allo scopo presente. Gli enti sono quelle cose che esistono. E stabilire perché esistano è compito dell’ontologia, la conoscenza che cerca di esplorare «quella misteriosa realtà che si dissimula sotto il termine più comune e più banale del nostro linguaggio, la parola essere»[4].
L’essere sa essere misterioso perché occulta di per sé le leggi stesse dell’esistenza. Il che è un po’ come dire che l’essere corrisponde alla realtà e che quest’ultima è, ossia esiste. E siccome ciò appare un po’ strano, dato che un oggetto così caratterizzato non può venir ulteriormente analizzato, sostituisco all’intera realtà i suoi elementi, ossia gli enti, quelle cose che esistono, e a precise condizioni. Prima di tornare alla nostra amata canzonetta, mi sembra carino aggiungere ancora quanto asserisce ancora Varzi: «l’ontologia, a differenza delle scienze speciali, si cura soltanto delle caratteristiche più generali in cui l’essere si può manifestare»[5].
Cercare di definire quanto esiste vuol dire, detto altrimenti, elencare gli enti esistenti. A questa domanda, così, si può rispondere: i gatti. Ma è, a tutti gli effetti, una risposta scontata. E, forse proprio a causa della sua banalità, non risolve affatto il problema ontologico di partenza. Infatti, cosa sono i gatti? La prima domanda ontologica, allora, sembra implicarne una seconda, non per nulla parimenti importante: cos’è che c’è? Detto altrimenti, porsi la domanda su cosa esista richiede che si definisca cosa esista, ossia come mai qualcosa esista. La richiesta specifica, stavolta, è quella di offrire una distinzione tra gli enti i quali, pur esistendo, non sono tutti la medesima cosa, nel senso che non esistono tutti alla stessa maniera. Per esempio, i gatti non sono la medesima cosa dei ‘cani’. Ciò è di fondamentale importanza, ma sovente viene confuso con altre cognizioni. Pertanto, è importante spendervi sopra alcune parole, aggiuntive forse ma importanti. I gatti esistono, nel senso che sono enti e, in quanto tali, esistono poiché gli enti son ciò che esiste, cui compete l’esistere, l’avere luogo, l’esserci. Ma anche i cani esistono, nel senso che sono enti e, proprio in quanto tali, esistono. Ma i cani non esistono certo alla maniera dei gatti, e viceversa: i gatti non esistono alla stregua dei cani. Eppure, tanto gli uni quanto gli altri sono enti, ossia esistono, sono degli esistenti. Allora, forse, appare corretto dire che gli uni e gli altri sono enti, ma esistono in maniera diversa: i primi esistono come ‘gatti’ e i secondi come ‘cani’.
Ciò ci consente di aggiungere quanto segue. Se avessimo detto: quarantaquattro cani in fila per sei con il resto di due non avremmo detto nulla sui gatti; magari, tutto sui cani ma proprio nulla sui gatti in questione, quelle graziose bestiole petulanti che sogliamo chiamare ‘gatti’. E parimenti, gli enti ‘gatti’ non sono la stessa cosa degli enti che siamo soliti chiamare ‘fiori’, per esempio. Allora, ciò sembra condurci ad asserire che esiste una differenza ontologica tra i vari enti i quali possono venir raggruppati in maniera differente e che, di conseguenza, esistono, per così dire, in maniera diversa di volta in volta. E quanto cade sotto i nostri occhi mostra un’irriducibile varietà ontologica, una congerie grande di enti. Forse, aveva ragione Aristotele quando asseriva che l’essere si dice in molti modi. I greci avevano un gusto strano, col senno di poi, per le complicazioni linguistiche. Con ‘essere’ essi erano soliti indicare tutti gli enti. Allora, la cosa importante sarebbe, da questo punto di vista, l’esistere e, secondariamente, come si esiste. Pertanto, gli enti innanzitutto esistono, e come ‘cani’, ‘gatti’, ‘fiori’, e così via, in secondo luogo. Ma con così tanti enti, con un così vasto numero di enti, com’è possibile orientarsi? A ciò viene in soccorso l’ontologia. Anzi, occorre proprio servirsi dei servigi della disciplina che siamo soliti chiamare ‘ontologia’, lo studio delle condizioni di esistenza degli enti. Ovviamente, a condizione che l’indicazione delle condizioni ontiche, ossia di esistenza, deve essere ‘vera’. Come ancora ci dice Aristotele: «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; mentre dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è, è vero»[6].
L’ontologia, pertanto, fornisce un catalogo degli enti, ossia delle entità esistenti, un indice  ordinato, secondo certi criteri, un insieme che metta assieme tutti gli enti cui l’esistenza competa nella stessa maniera, come caninità per i cani, come felinità per i gatti, come florità per i fiori, come umanità per gli uomini, e così via.
Nell’insieme dei gatti non possono entrare né i cani né i fiori né tantomeno gli uomini. Ma se l’insieme preso in considerazione fosse quello dei mammiferi, gli enti ‘gatti’ e ‘cani’ farebbero parte del medesimo insieme oppure, il che è la stessa cosa, i due insiemi, precedentemente separati, coinciderebbero. 
Chiedere, pertanto, cosa esiste implica doversi chiedere cosa sia che esiste. Elencare in ordine gli enti implica anche indicare l’essenza degli enti, ossia quel quid che esiste. In Socrate le definizioni indicano l’essenza delle cose, ossia degli enti. L’essenza può essere individua oppure generale. La prima indica gli essenti singoli, ossia il gatto1, il gatto2, il gatto3, e così via. La seconda, invece, indica la sostanza (generale) dei gatti, qualcosa che, in astratto, si potrebbe chiamare ‘felinità’. Si potrebbe anche dire, tanto per voler complicare il quadro generale, che il rapporto tra la sostanza e gli enti cui la stessa inerisce potrebbe venir pensato come il rapporto verticale, e gerarchico, nella struttura degli archivi dos: radice – cartelle. O, per consentire a chi non conoscesse il dos di comprendere quanto cerco di asserire, alla piramide registro – tabella di allocazione dei file. E tuttavia, a voler complicare ulteriormente il quadro generale, credo di poter affermare anche come un qualsiasi programma informatico sia una specie del tutto particolare di ontologia in quanto prevede tutta una serie di “leggi” che regolano l’esistenza di un numero preciso di enti. Detto altrimenti: la modularità stessa del programma, il suo comportamento, benché a priori rigidamente determinato e, forse, anche proprio per questo motivo, coincide con il suo essere nel senso che è la sequenzialità informatica il suo essere. Da questo punto di vista, dunque, anche i programmi informatici costruiscono una loro ontologia, sia pure informatica. Ed è anche per questo motivo che si parla di ontologia informatica o di ontologia informativa. Un caso di ulteriore specificazione è, ad esempio, il web, l’insieme delle sue applicazioni lato server. Le community, infatti, sono esemplari di ontologie, così come i social networks e così via. Un caso del tutto peculiare, in tal senso, è costituito dai giochi di ruolo on – line oppure dalla, ancora futuristica, a dire il vero, realtà virtuale, ove la concretezza dell’interazione reale viene sostituita da ben altra ontologia: un’esistenza del tutto fittizia, eppure esistente, ossia reale. Ma non vorrei esagerare. In fondo, quel che mi preme dire, ed enfatizzare, è che l’ontologia abbraccia un orizzonte speculativo vasto.
Queste metafore informatiche valgono come tentativi di comunicare il ragionamento che ne sta alla base. La sostanza generale regge le sostanze individue, la felinità costituisce l’unità che tiene assieme le differenze individuali degli enti. E quel che faceva la root per i folders, che il registro fa per i files, la felinità fa per i gatti della nota canzonetta. È la stessa cosa, a ben vedere, della Grundnorm di Kelsen: una precisa istanza teoretica che conferisca unità all’ordinamento; una variante giusfilosofica della sostanza metafisica: il fondamento che tiene assieme le differenze. La  norma fondamentale, di kelseniana memoria, è, a tutti gli effetti, la norma delle norme, il fondo delle norme, la norma di chiusura di un qualsiasi ordinamento normativo (ideale). Ma non si attribuisca ciò ad un’eredità del neokantismo, cui pure il Kelsen aderì, ma ad un’esigenza teorica molto precisa: dare ordine agli enti reali. È, dunque, un’esigenza, a dire il vero, ontologica: trovare l’unità speculativa in forza della quale i singoli enti vengono ad esistenza. A dire il vero questa è un’esigenza molto radicata, che affonda le proprie radici all’interno della filosofia stessa. Se si ripensa ai frammenti parmenidei questa stessa esigenza è espressa in termini decisamente chiari: l’identità di pensiero ed essere è la chiave di volta per intendere giustamente l’ontologia, per render conto di come e cosa esista. E tuttavia, prima ancora della filosofia eleatica, è alla sorgente stessa della filosofia che bisogna volgere lo sguardo. Infatti, già Talete, Anassimandro ed Anassimene guardavano alla radice ontologica di ogni cosa, a quel “tutto è” da cui ciascuna cosa deriva ed è possibile.
Dal mio punto di vista, però, quel che conta davvero è che gli enti felini siano tali in quanto, pur nella differenza individuale, l’esistenza, come felini, pertenga loro alla stessa maniera. La felinità è, allora, l’indice che consente di raccogliere, e mettere assieme, tutti i felini … nel mio esperimento, però, soltanto alcuni gatti, solo i quarantaquattro della canzoncina, mica tutti gli enti gatti che vivono sul pianeta terra, che dimorano presso la nostra comune realtà, che sono in quanto elementi dell’essere generale.
L’ontologia, a differenza della sorella metafisica, presta la sua attenzione all’esame dell’essenza individua, e non dell’essenza generale. Questo perché la ricerca degli esistenti soddisfa massimamente l’interesse ontologico di partenza, relativo soltanto all’individuazione delle condizioni di possibilità (ossia, di esistenza) delle cose, degli enti, degli essenti. Eppure, cercare di catalogare gli enti, i gatti come i cani o come i fiori, non esclude la possibilità di rispondere alla domanda cara agli anglosassoni what is this? Vi sono degli individui nella misura in cui gli essenti sono dei singoli, tanti tode ti, questi qui. Allora, la risposta alla seconda domanda comporta dover rispondere: quarantaquattro gatti. In che senso? Nel senso che l’ontologia mette insieme quarantaquattro esemplari di gatti, quarantaquattro essenti i quali condividono una medesima somiglianza, la felinità, ma sono tutti diversi tra loro. Detto altrimenti, il gatto1 è simile, non uguale, al gatto2, e così via. Abbiamo, così, quarantaquattro enti, che chiamiamo ‘gatti’, tutti diversi tra loro ma che condividono l’inerenza alla medesima sostanza, che chiamiamo, per comodità, ‘felinità’. Anche se non sappiamo cosa sia tale sostanza, quel che importa è che si abbia a che fare con enti, ossia con tanti quid la cui caratteristica comune è l’esistenza secondo la felinità. Per dirla altrimenti, siamo in grado di riconoscere dei gatti perché, pur in presenza della differenza tra singoli enti gatti, riconosciamo che a tutti loro l’esistenza compete come felinità.
Seguendo Heidegger, potremmo scrivere che «l’ente in quanto ente, cioè unicamente dal punto di vista di ciò che rende l’ente quello che esso è: l’essere. La scienza in prima linea, cioè la scienza del primum, è scienza dell’essere»[7]. 
Ora, l’essere, gli essenti … ma come mai v’è l’essere e non, poniamo caso, il non essere? Sembra una domanda oziosa, dato che il non essere, molto semplicemente, non è, e ciò per sua stessa definizione (non-essere: ossia non esistenza). Tuttavia, ha stregato parecchi filosofi, molto probabilmente più di quanti sia lecito attendersi. Ad esempio Heidegger scriveva come «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? Ecco la domanda. Non si tratta, presumibilmente, di una domanda qualsiasi. È chiaro che la domanda: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?» è la prima di tutte le domande. Non certo la prima per quanto riguarda l’ordine temporale»[8]. E prima di lui Leibniz: «la prima domanda che si ha il diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla? Il Nulla, infatti, è più semplice e più facile del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna allora che sia possibile rendere ragione del perché esse devono essere così e non altrimenti»[9] 
Tuttavia, ritengo pure che la ragione di tale fascino abbia il suo fondamento nella natura stessa del discorso ontologico. Infatti, cercare di dire come e perché gli enti siano significa anche dire come e perché noi disponiamo di tali enti e non di altri, perché vi sia l’essere, anche se sempre questa data realtà, e non un altro essere. Nelle parole di Pareyson: «La realtà è veramente realtà solo se, semplicemente, è: proprio perché è si può pensare che prima di essere fosse possibile o necessaria, nel senso che si può asserire indifferentemente, tanto «ormai è, ma poteva non essere» quanto «ormai è, e quindi non può più non essere»»[10]. 
Tirando le fila di questa ricognizione, la quale non ha certo la pretesa, del tutto arbitraria, di esaurire l’intero argomento ontologico, penso di poter dire quanto segue. La realtà consiste di tanti enti ai quali l’esistenza compete in modalità specifiche. L’ontologia, allora, può fare elenchi ordinati di tali enti dicendo come e quali enti esistano. Seguendo la celebre canzonetta, esistono gli enti gatti i quali, in numero di quarantaquattro, vengono inclusi in sette gruppi diversi …. Ma come? La cosa non è affatto chiara. Infatti, il riferimento obbligato alla canzone offre ancora alcuni spunti prima di concludere questo esercizio ingenuo di ontologia. Pur essendo tutti e quarantaquattro gatti enti cui l’esistenza compete nei termini di felinità, i criteri di raggruppamento possono variare. Allora, possiamo avere sette insiemi in quanto gli enti gatti vengono raggruppati sulla base di specifiche caratteristiche in comune. Per esempio, secondo la razza: gli europei da una parte, i birmani da un’altra, e così via. Ma questa è una suddivisione sulla quale non posso esprimermi perché troppo generica, oltre che del tutto arbitraria. Invece, i gruppi potrebbero far riferimento al tipo di manto: a macchie; tigrato; con quali tonalità di colore, e così via. Oppure, al numero di vibrisse o alla lunghezza della coda. E così via, perché potremmo sbizzarrirci ma non lo faremo. Infatti, la canzonetta torna utile nella misura seguente: gli enti gatti possono essere raggruppati secondo indici di esistenza. E qui termina il presente esperimento di ontologia ingenua. Se posso aver peccato d’ingenuità, spero che il giudizio sia clemente dato che non è questa la sede più appropriata per approfondire il tema importante, complesso e delicato, dell’ontologia.
E tuttavia, penso anche che la scusa della canzonetta sia buona se si desidera offrire una presentazione senza troppe pretese dell’ontologia. D’altro canto, seppur rispettabile, la presente introduzione è pur sempre una mia (possibile) presentazione: i limiti della presente ricognizione ontologica sono i limiti stessi del mio punto di vista. Nelle parole di Galvan: «la nostra conoscenza non concerne una presunta realtà in sé caratterizzata attualmente da un certo insieme di predicati inaccessibili al soggetto conoscente, ma la realtà da un certo punto di vista, vale a dire alla luce di quei predicati che la realtà manifesta a noi proprio per il fatto che, nella sua considerazione, assumiamo un determinato punto di vista»[11]. 
Tuttavia, chi può dire che perché determinato da “influenze” singole, un ragionamento individuale non possa assurgere a valore generale? Delle due l’una: o l’ontologia rende conto effettivamente delle condizioni generali dell’essere oppure si rinuncia del tutto all’impresa. Solo un’ontologia non ingenua, di certo non l’esempio presente, potrà conseguire l’obiettivo grande: dire come e perché ci siano enti esistenti, e non altri sebbene (teoricamente) possibili.

Bibliografia

Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000.
S. Galvan Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionista e minimale, Franco Angeli, Milano, 1997.
S. Galvan, Ontologia del possibile, EDUCatt, Milano, 2009.
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722.
M. Heidegger, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 2000.
E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994.
G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083.
J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia, 19984.
L. Pareyson, Ontologia della libertà, in L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 1995.
A. C. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma – Bari, 20082.


[1] Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma – Bari, 1994, p. 3.
[2] Cfr. A. C. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma – Bari, 20082, p. 3.
[3] Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 131 (1003a 20 – 21).
[4] Cfr. J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia, 19984, p. 21.
[5] Cfr. A. C. Varzi, op. cit., p. 13.
[6] Cfr. Aristotele, Metafisica, G 7, 1011b.
[7] Cfr. M. Heidegger, Principi metafisici della logica, Il Melangolo, Genova, 2000, p. 25.
[8] Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 19722, p. 13.
[9] Cfr. G. W. Leibniz, I principi razionali della natura e della grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano, 20083, p. 47 (§ 7).
[10] Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, in L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 1995, pp. 87 – 88.
[11] Cfr. S. Galvan Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionista e minimale, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 150.

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