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giovedì 31 maggio 2012

... e per ultima rimase la "libertà" ...


Parlando con la gente, sembra che il principale evento luttuoso recente sia l’11 settembre … per carità, un evento luttuoso certamente, ma da qui a sostenere che sia quello più doloroso … non intendo certo fare una graduatoria – lungi da me … - di eventi dolorosi, ma credo che, almeno per quanto concerne la nostra storia nazionale, ve ne siano molti di più … e allora la domanda mi sorge spontanea: come mai a domanda – secondo te, qual è l’evento luttuoso più grave degli ultimi anni? – si risponde così – l’11 settembre – senza dubbi? Come minimo, ci avrei pensato su un poco … avrei ponderato … e solo quando convinto, avrei risposto … molti invece no, rispondono di getto e additano, per di più, un evento estero! Non abbiamo avuto un 11 settembre in Italia, e nemmeno in Europa! Addirittura, a Marsala v’è una targa commemorativa grondante retorica (fasulla) sull’evento … e cosa c’entra l’11 settembre con la Nostra storia? Forse poco, ma da qui ad annoverarlo come evento da non dimenticare, inscritto nella storia patria, ce ne corre … e mica poco!


Ma se a domanda si risponde così, allora è bene prendere in considerazione quella che, a mio avviso, è la reale conseguenza, questa sì storica, non quell’evento in sé, di tale data: l’idea dell’esportazione della libertà. Infatti, chi ricorda bene, certamente rammenterà l’imperativo categorico conseguente quale espressione di massima delle relazioni internazionali: bisogna esportare la democrazia! Improvvisamente, all’opinione pubblica, non solo nostrana, divenne evidente che il mondo era cambiato – strana conclusione se si pensa a due grattacieli che crollano su sé stessi! – e che bisognava che anche altri popoli, in genere quelli sottoposti ad amministrazioni “canaglia”, conoscessero la dolcezza, la bellezza e la ricchezza della libertà. L’ideale, volendo sottilizzare, in astratto potrebbe anche essere un fine di massima auspicabile, se si considera la libertà il meglio che si possa desiderare, ma è la declinazione in concreto che fa problema, e che rende ostico l’intero ragionamento. Infatti, se il popolo in questione non volesse la (nostra) libertà? La risposta è, ed in effetti è stata esattamente questa, una sola: l’esportazione con le armi della libertà. Ma allora non fu un’esportazione né tantomeno una (libera) conquista di tali popoli: la libertà (occidentale) venne imposta manu militari ai popoli degli stati canaglia.


Mettendo tra parentesi l’eventuale ossimoro tra “libertà” ed “esportazione”, ed anche il contrasto stridente tra “libertà” e “armi”, credo sia il caso di porsi un’altra questione, più di concetto, e che esula dalla mera questione storica di quegli anni convulsi, e posteriori allo scoppio della bolla (speculativa) della – così dicevano – New Economy, la pia illusione che si potessero fare soldi uscendo fuori dalla logica produttiva di merci, la seguente: è possibile esportare la libertà? Siccome, com’è evidente, abbiamo a che fare con una retorica dello spazio pubblico di discussione, l’appello alla libertà, come contenitore entro il quale riversare un dato orizzonte simbolico, bisogna chiedersi se tale retorica sia concretamente fattibile, se sia davvero mandabile ad effetto.


Secondo Canfora no, si tratta, forse più semplicemente, di un mito che ha fallito. Certo bisognerebbe capire in che termini ha fallito perché, secondo me, invece, è stato vincente sino ad un certo punto. Infatti, ha mobilitato uomini, energie, interessi a senso unico, dalle terre libere a quella da liberare. Si può forse negare che sia riuscito nello scopo? Ancor oggi, si ricorda l’11 settembre in terre che non lo hanno conosciuto affatto, ancora oggi lo si commemora come una cesura epocale, come un punto di non ritorno, come la data a partire dalla quale il mondo non sarebbe più stato lo stesso … a cambiare sono state le restrizioni in imbarco sugli aerei per i poveri passeggeri, ma cos’altro è cambiato? Praticamente nulla, eppure ci abbiamo creduto, eppure al mito della libertà da esportare ci abbiamo sinceramente abboccato. Chi poteva dirlo in quei giorni? Chi poteva anche solo lontanamente pensarlo allora? E d’altra parte, in Italia, abbiamo dovuto riversare la memorialistica lagrimosa alle sofferenze inusitate di altri popoli anziché ad un evento di poco precedente e che avrebbe ben diversamente dovuto interessarci: il G8 di Genova! Ma meglio ricordare due grattacieli in cemento e amianto che il caos dell’estate nostrana del 2001!


Peraltro, non si tratterebbe nemmeno di un mito nuovo, di recente formulazione, ma di uno strumento di lotta politica il cui uso, assurto quasi a sinonimo di Realpolitik, risale sino al mondo greco, ossia agli albori stessi della nostra civiltà. Canfora, infatti, lo usa per interpretare la contesa geopolitica delle poleis greche (p. 15 e sgg.), una libertà da portare ai greci stessi (p. 16), ed anticipando, nelle relazioni internazionali, anche il Trattato di Helsinki (1975) che riconosceva la legittimità delle pretese imperialistiche del blocco sovietico. Il farsi garanti della libertà altrui, è stato anche l’impegno etico, e politico, di Napoleone, quasi la naturale prosecuzione dell’intento emancipatorio della Rivoluzione francese, e pazienza che Robespierre tonasse contro tale idea, contro questo mito, «che la «libertà» potesse essere «esportata» »(p. 21), dalla Francia, libera e liberata, agli altri popoli, non liberi e da liberare. In quest’accezione, infatti, la «libertà» diviene un mero instrumentum regni, ossia uno strumento per legittimare campagne espansionistiche, per legittimare il proprio imperialismo. Così, a lungo il Bonaparte si presentò come la «spada della Rivoluzione» (p. 24) mentre, invece, «perseguiva la politica di potenza del neonato «Impero francese»» (p. 24). Allora, gli esempi storici mostrano, in maniera incontrovertibile, come quello della libertà sia un mito destinato a molte repliche, e a nuove interpretazioni, sempre, però, all’insegna della giustificazione, a posteriori, di ideologie imperialistiche a spese di altri popoli, vicini o lontani sullo scacchiere geopolitico. In questo modo, soltanto, si spiega il volo pindarico dell’URSS, terra libera, che deve esportare verso altre terre la propria libertà. E allo stesso modo, il gioco tra potenze mondiali sull’Afghanistan, insignificante pezzo di terra in sé, ma importante tessera sul mosaico degli equilibri di potere. Peraltro, il dover giustificare di volta in volta i propri voltafaccia, dà luogo a buffi ragionamenti sulla libertà, talvolta la propria, talvolta l’altrui. Tant’è che «rifulse il cinismo realpolitico nella vicenda afghana» (p. 49).


Allo stesso modo, va interpretato l’interventismo americano nel biennio posteriore all’11 settembre, prima in Afghanistan – ancora lui! -  e dopo in Iraq, forse a saldare dei conti rimasti in sospeso dieci anni prima. Tuttavia, in quest’ultimo caso, «il fallimento del proposito di «esportare la libertà» […] è sotto gli occhi di tutti» (pp. 55 – 6), o perlomeno di quanti riescano a rendersene conto. La libertà s’è impantanata nei fanghi e nella polvere di quelle periferie del mondo, dando luogo ad altri lutti, ad altri dolori, a risorse, umane e materiali, colà sprecate. E, rimanendo in Iraq, come mai la libertà non è stata esportata anche ai Curdi, paria degli stati? Come mai valeva per loro, anche se solo a parole, dieci anni prima, e non valeva più appena alcuni anni dopo? Certo, non è savio attendersi coerenza dai tumulti della storia, ma un minimo di decenza, forse, sì. Eppure, così non è stato, gli iracheni sono stati liberati, obtorto collo, i curdi no.


E i nemici della libertà, invece, chi sono? Chi erano in quegli anni, così vicini eppure apparentemente così distanti da noi? Per il gioco degli opposti manicheistici, ovviamente, chi attenta alla (nostra) libertà: i terroristi. Entità vaghe, grigie, indistinte, senza volto, senza nome, senza storia, ma qui vicini a noi, in procinto di compiere chissà quale inusitata violenza ai nostri danni. Ma anche qui con il consueto cinismo realpolitico: i mujhaiddin afghani erano patrioti sino a quando si opponevano al tentativo sovietico di assoggettarli, i quali a loro volta volevano anche loro farli liberi, ora diventano terroristi se si oppongono ai nuovi patrioti della «libertà». L’equivalenza terrorista = nemico della libertà è lampante tanto quanto il suo non venir pubblicizzata. Questo era il messaggio nascosto della retorica palese di allora, o con me o contro di me, o per la libertà o contro di essa (p. 61).


Eppure, a nulla, forse, valgono i saggi consigli degli antichi secondo i quali la verità sta nel mezzo, né tutta con gli uni né tutta con gli altri. In fondo, c’era differenza tra «libertà» e «terrorismo», v’erano più di un’alternativa, ma abbiam preferito lasciarci andare all’irrazionalismo emotivo di allora, sotto la gran cassa mediatica, e rinunciare a nostre libertà storiche in nome di una non meglio precisata «sicurezza». Alla sicurezza abbiamo sacrificato l’essenza genuina della nostra stessa civiltà, al cappio denominato «sicurezza» abbiamo eliminato la nostra stessa libertà.


Per la libertà, in suo nome, e per difenderla, siamo scappati dal suo seno.


(immagine tratta da: http://img2.libreriauniversitaria.it/BIT/240/472/9788804574729.jpg)

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