Sono sinceramente deluso dal presente volume, non ch'io voglia fare della polemica gratuita, lungi da me, o perché mosso da chissà quale risentimento, in gran parte inconscio, ma francamente la lettura del volume tradisce una sorta di semplicismo, se mi si passa il termine, o, il che è lo stesso, di superficialità che termina, infine, in un sorprendente banalismo, diciamo filosofico.
L'autrice parte discretamente, indica le linee generali del discorso che intende seguire, ma il suo riferimento al cartoon oggetto di disamina filosofica lascia perplessi. A tratti sembra che i severi giudizi siano il risultato di effettiva conoscenza dello stesso, ma in molti altri momenti sembra invece che tale conoscenza si limiti ad una superficiale visione, ad una sorta di "vago sentire", ad un pressapochismo che lascia poco spazio all'evidenza di un giudizio, comunque e sotto ogni punto di vista personalissimo.
Peppa Pig viene definita "un'invenzione epocale" (p. 9), ma il perché di tanto sensazionalismo sfugge al lettore. In seguito, l'autrice aggiunge che l'emulazione del grugnito della piccola ed impertinente protagonista "è una richiesta di condivisione di un immaginario" (p. 11) veicolato dal cartoon e dato in pasto ai più piccoli, E questo ci può stare. Invece, il tono moralizzatore dell'autrice lascia di sasso: non è l'emulazione in sé il problema - ammesso e non concesso che lo sia - ma la bontà stessa del messaggio in quanto tale. Peppa, infatti, "è un prodotto epocale" (p. 12) che sintetizza "un obiettivo educativo adattato ai piccolissimi e predisposto per la costruzione sociale delle generazioni di adulti del vicino futuro" (p. 12). Ma quale cartone educativo non fa la stessa cosa? Allora, cosa ci sarebbe di sbagliato in Peppa Pig? Scrive l'autrice: "concentrare e valorizzare tempi e spazi della vita quotidiana familiare e comunitaria attorno a una serie di punti fermi tra cui il conformismo delle regole e l'orientamento al fare, al produrre, all'essere inseriti in una società capitalistica ben ordinata, con tanto di relativi principi valoriali" (p. 12). A scorrere le righe, si fatica ad immaginare un'autrice che conosca da vicino, non dico il cartoon in sé, che può piacere come non piacere, ma i bambini stessi di cui lamenta, evidentemente, l'esposizione ad una fiction di conformismo educativo ...
Oppure, verrebbe da chiedersi se Andreani conosca i bambini oltre la sua mera attività professionale, magari in qualità di genitrice. In tal caso, saprebbe bene che i bambini si divertono a "fare come i grandi", a replicare, nella forma del gioco simbolico, proprio le attività dei grandi, dei genitori in primo luogo, e di come si annoino facilmente delle loro attività o della routine familiare stessa. Pertanto, non trovo alcuno scandalo nella condensazione del tran tran quotidiano in attività rette da regole e svolte bene. Evidentemente, l'autrice ha un rigurgito irriflesso di vetero - marxismo, oppure ignora come sia la normale vita familiare quotidiana ...
In ogni caso, educare dei bambini non significa affatto lasciarsi soli a loro stessi, in modo tale da evitare loro il conformismo alle regole del capitalismo! Fare così significherebbe soltanto abbandonarli a sé stessi, senza adeguati stimoli e, soprattutto, senza il prezioso esempio degli adulti. Si registra, al riguardo, una sottile traccia di pedagogia anarcoide nella critica che Andreani muove all'universo simbolico di Peppa Pig, come se il problema fosse il cartone e non, e piuttosto, l'assenza dei genitori nella crescita dei figli! Pertanto, allora, il problema non sarebbe la rappresentazione che il cartoon inscena davanti la beata innocenza infantina, quanto, e piuttosto, la sottrazione di spazi liberi di fantasia per questi ultimi. Espropriati, appunto, della pia innocenza dell'età ed avviati precocemente al mondo adulto. E pazienza che così non sia nella realtà ...
L'autrice insiste sul suo punto di vista. Tutti i personaggi del cartone agiscono in maniera solidale "unicamente per raggiungere l'obiettivo del buon funzionamento del sistema" (p. 13). Manco Hegel potrebbe sperare tanto, vale a dire di aver ridotto la complessa realtà educativa dei nostri tempi al messaggio monodimensionale di una maialina impertinente e poco bambina. Anzi, quest'ultima è rea di spingere i bambini innocenti verso il mondo globalizzato, "il prototipo a misura di bambino di una società globalizzata e multiculturale, ordinata e funzionante secondo le regole del mercato" (p. 13), una società frantumanta, atomizzata ove tutti vivono in "nuclei isolati" (p. 13). In altri termini, la maialina in questione "è la virtualizzazione di tutto quello che noi adulti di oggi vogliamo che i bambini imparino a fare in modo veloce e corretto" (p. 13). Ma, mi chiedo, quali genitori irresponsabili delle generazioni future non vorrebbero che i propri figli fossero pronti per la realtà che li attende? Insomma, attendersi figli capaci non vuol dire affatto, e come Andreani sembra suggerire, manipolare i giovanissimi per adattarli precocemente ad un mondo che non rispetta i loro tempi,
Attingendo a luoghi tipici della letteratura per l'infanzia, Peppa Pig rappresenta "un'evoluzione della fenomenologia del porcellino come personaggio delle fiabe e dei cartoni a scopo educativo e formativo per i più piccoli" (p. 22). Ma, e mi chiedo, quale bambino di oggi conosce la storia dei tre porcellini? Oppure la distopia di Orwell? Eppure, Andreani sembra convinta della sua ipotesi di lettura, per singolarissima che sia. Peppa si colloca al crocevia esatto tra immaginario collettivo prescolare e finalità formative sociali. Cosa prevale all'interno di tale dinamica? Le esigenze dei bambini? O le ansie precocizzanti della società ospite? Per l'autrice queste ultime, ansie da prestazione, ansie da buona collocazione dei futuri adulti nella vita di domani ...
Insomma, utilizzare la strana, ed inconsueta, ma manco tanto visti i precedenti illustri, figura di una maialino come protagonista di un cartone per i più piccoli, è utile per celare le reali e tristi finalità del committente occulto dello stesso cartone, vale a dire la società individualista del libero (?) mercato! Tutto viene trasfigurato nel maiale, "un simbolo" (p. 30) di falsa animalità per mettere liberamente sulla scena una illusoria innocenza istintuale quando, e invece, la scena mostra un perfetto operaio nella catena di montaggio della società post - industriale! Il suo rotolarsi nel fango, talvolta, di certo non sempre, ammicca al desiderio inconscio di spontaneità che lo spettatore, adulto però, mica un bambino che mai avrà l'occasione di vedere un maiale dal vero con i propri occhi, si aspetta. E quando ciò accade, è tutto finto, è una concessione che gli autori inscenano per ricordare che, comunque vada, alla fin fine Peppa è pur sempre un maiale, umana quanto si vuole, ma pur sempre un animale. Esempio di una lunga sequela di animali personificati e privati della propria spontaneità, come il povero orso alle prese con Masha oppure l'orso Yoshi o Sulley in un noto lungometraggio della Disney. Orsi che nulla hanno a che vedere o a spartire con il trasognato e sbadato orso Pooh, più umani che innocenti animali non umani!
Il pet, l'animale domestico, che da sempre l'industria della cinematografia per bambini ha sfruttato, dando fogge umane ad una schiera disparata di animali, viene sovvertito in Peppa, diviene volano per un corredo irrinunciabile di regole e pratiche e abilità che gli adulti proiettano, quasi selvaggiamente, sui bambini, sui futuri adulti, sui futuri membri anonimi del mercato selvaggio! Con Peppa, i "bambini sono coinvolti in una quotidianità stabile, con una famiglia sicura e felice in cui non accade nulla, soprattutto nulla di brutto, se non quello che si fa quando si è bambini" (p. 55). E si stenta a proseguire la lettura: si parla di un prodotto per bambini piccolissimi, cosa si vorrebbe che accadesse? I cartoni per questa fascia d'età devono essere semplici e rassicuranti, non devono inquietare! Cosa vorrebbe, allora, e di diverso, l'autrice? Non è chiaro ....
Se la vita odierna è conflitto, rischio, incertezza, complessità, la scena della vita quotidiana in Peppa è serena. In altri termini, "ci imbattiamo in un mondo ideale in cui tutto funziona come dovrebbe, in una società in cui ogni conflitto è sopito, ricomposto, evaporato" (p. 59). Ma questo, mi chiedo, sarebbe un male? E se lo è, quale tipo di male? Si stanno, forse, ingannando i bambini? Mostrando loro un mondo irreale? Un mondo utopico? Ideale? Fantasioso? E cosa facevano, e di diverso, i favolisti? Quando gli animali parlavano ed interagivano tra loro e con gli uomini, quello era un mondo reale? Vero? Oppure era un mondo ideale? Certo si potrebbe obiettare che la fabula innalzava tutto ad una dimensione simbolica e che lo stesso non accade con i cartoni di oggi, e con Peppa tra i tanti, ma questo è un male? E' negativo per i bambini? Rovesciamo i termini del problema. Secondo Andreani, quale mondo un cartone dovrebbe inscenare? A mio avviso, questo non è un tradimento del cartone rispetto alla cruda e grottesca realtà quotidiana, ma un rispetto della loro fragile psiche: i cartoni non devono inquietare o turbare, ma devono mostrare una stabilità che consenta ai più piccoli di costruire la propria resilienza. Altrimenti, si fa solo pornografia infantile, vale a dire esporre i piccolissimi a contenuti e messaggi non adatti al loro tenera età. E mi meraviglia il fatto che l'autrice non sia di questo avviso e che concentri i suoi strali con l'imperativo peppesco del "fare". E cosa (non) dovrebbero fare, e altrimenti, i bambini? Ciondolare scanzonati per cinque minuti di seguito? Crescere in maniera brada? Esporsi a quel che capita? Ripeto, è una maniera davvero singolare di criticare un cartone, e che mi lascia più che perplesso.
In Peppa si fa sempre qualcosa, e tutti fanno qualcosa. Questo è, per l'autrice, un problema, probabilmente perché indurrebbe i più piccoli alla logica capitalista del produrre ....
Ottica miope o, quantomeno, semplicista. Peraltro, tale imperativo al "fare", deformazione ideologica del perverso meccanismo della "ripartenza" è funzionale per far credere ai più piccoli che si debba sempre far qualcosa, a prescindere dal risultato possibile, e che chi perde è un pigro che non merita considerazione alcuna. Infatti, "uomini e donne diventano animali economici che si muovono secondo schemi prestabiliti" (p. 67) e Peppa è una "perfetta guida illustrtata alla ripartenza" (p. 68), vale a dire insegnare ai piccolissimi, catturando la loro attenzione, anche con fini tecniche psicologiche, e "adattarli ad accogliere modalità della vita degli adulti concentrate allo stesso modo su una ripetizione quasi meccanica di cose da fare senza interazione reale" (p. 71). Problema: per essere educativo, allora, Peppa dovrebbe mostrare solo esempi concreti, ossia fungibili da una platea di spettatori tanto piccoli, di interazione sociale? E l'esempio del gioco dei venditori, oggetto esecrabile per Andreani in un noto episodio della serie, è tanto diseducativo? O, comunque, pericoloso per la fragile psiche degli spettatori? Secondo problema: ma giocare a fare gli adulti, vale a dire inscenare una situazione tipica degli adulti, ossia l'acquistare un bene qualsiasi in un negozio, implica forse che la relazione tra venditore ed acquirente sia, sempre e comunque, priva di reale interazione tra i due? Lo si può, sensatamente e seriamente, sostenere? Per l'autrice, con Peppa, o grazie a Peppa, o in forza del potere di presa di Peppa, staremmo inculcando nella mente dei più piccoli la coazione a ripetere consumistica in ragione della quale, appunto, tutto si risolve in un "fare", in un ripetere quasi meccanico senza che s'instauri un prototipo di relazione simpatica tra i soggetti.
Lo stesso dispositivo coercitivo e meccanico, Andreani ravvisa nella costruzione stessa del personaggio Peppa, la quale, con arzigogolate analisi psicologiche, viene ridotta ad una reduplicazione del ruolo del padre, sia pure in piccolo e in relazione al doppio negativo costituito dal fratello (e proprio per questo Peppa appare esuberante, eccessiva, linguacciuta, seccante, etc.). In altre parole, la maialina ruba la scena, ma lo fa perché deve ancora crescere. Diverrà matura solo quando si comporterà come la madre, ossia solo quando emulerà l'atteggiamento della madre. Pertanto, la sua ribellione infantile è solamente un effetto transitorio del suo tentativo di negare quello che, per l'autrice, appare come il suo destino ineluttabile, vale a dire ripetere il destino esistenziale della madre, ossia lavorare da casa, in una finzione di genere del lavoro, rinunciare alla carriera per crescere i figli, ma essere, sempre e comunque, lei la regista silenziosa o nell'ombra dell'intera vita familiare, anche di quel padre pasticcione che, suo malgrado, Peppa si ritrova. Detto altrimenti, gli autori del cartone stanno instillando nelle menti dei giovanissimi l'idea di una socialità corretta che si declina in una netta distinzione sociale dei ruoli di genere ...
Quindi, e concludendo la presente faziosa ed inutile disamina, "Peppa deve imparare a comportarsi come gli altri e a essere meno prepotente, quindi a mimare meno un maschile simbolico paterno (che prepotente non è) e a essere più come sua madre, che è la vera campionessa della serie, la numero uno, che non appare mai come tale" (p. 91). E, soprattutto, l'universo simbolico di Peppa ci dice che "il principio unico è il lavoro e il nemico del lavoro è l'ozio, mai concesso alle donne, talvolta concesso a Papà Pig, ma solo a lui che sembra oziare più della stessa regina" (p. 95). Nella celebre puntata del premio concesso alla signorina Coniglio, come a colei che lavora più duramente di tutti nel Regno, prototipo definitivo del soggetto ideale nella società neoliberistica, vale a dire che"svolge tutti i lavori che non hanno speranza di carriera" (p. 94) e che è a tal punto perfetta nella sua "posizione subordinata e sicuramente anche sottopagata" (p. 94) da essere addirittura premiata dalla regina in persona, al termine della puntata bambini, premiata e regina vanno allegramente in giardino e saltano gaiamente in una pozzanghera di fango. Morale della favola, secondo Andreani, "oltre al lavoro c'è uno spazio per divertimento goliardico" (p. 95), vissuto "con la consapevolezza che si può fare come farebbero i maiali" (p. 95) ma, in ogni caso, "è sempre bene ricordarsi che la libertà non è altro che un premio di produzione" (p. 95).
E se il cartone a tratti può risultare tedioso, agli occhi di adulti stanchi dalle noie del lavoro e disincantati dalle noie esistenziali, ancora più noiosa può risultare la tirata morale che l'autrice conduce contro Peppa Pig e contro il messaggio post - industriale correlato.
Questo per dire che molti dei commenti dell'autrice appaiono decisamente eccessivi e superflui, oltre che del tutto gratuiti, dato che, e giustamente, vede il cartone con i "suoi" occhi, per forza di cose diversi, e distanti, da quelli dei giovani spettatori. Di conseguenza, più che la filosofia di Peppa Pig l'autrice costruisce una sua filosofia prendendo a pretesto la maialina rosa.
(url immagine: http://image.anobii.com/anobi/image_book.php?item_id=01f0c75268fc9a2431&time=&type=4)
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